Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Petrolio iracheno: ricchezza che non giova al Paese

Petrolio iracheno: ricchezza che non giova al Paese

di Sergio Romano - 20/10/2007

 

Gli argomenti all’ordine del giorno sull’Iraq sono il susseguirsi di terribili attentati e la permanenza o meno delle forze militari colà dislocate. Ma di un argomento che è il vero bandolo per dipanare la matassa dei problemi, non si parla mai: il petrolio, che costituisce la vera ricchezza irachena. Come viene smistata e commercializzata la produzione petrolifera di quel Paese?


Carlo Pantani, Firenze,


Caro Pantani, nel 1990, prima della Guerra del Golfo, l’Iraq produceva circa 3 milioni e mezzo di barili di petrolio al giorno. La produzione scese a 300.000 barili nell’immediato dopoguerra e ricominciò a salire soltanto dopo l’adozione all’Onu di un contestato programma («oil for food») che autorizzava l’esportazione di petrolio esclusivamente per l’acquisto di prodotti alimentari e farmaceutici. Nel 2002, mentre gli Stati Uniti si preparavano a invadere l’Iraq, la produzione raggiunse i due milioni e mezzo. Dopo l’occupazione, naturalmente, gli americani cercarono di ripristinare la produzione e soprattutto di promuovere la modernizzazione di una rete che aveva urgente bisogno di manutenzione e innovazione. Fu quello il periodo in cui molte compagnie petrolifere si affacciarono sul mercato iracheno nella speranza di salvare i contratti conclusi con il regime di Saddam o di negoziare nuovi accordi. Ma fu subito chiaro che la ripresa della produzione si sarebbe scontrata con molte difficoltà. Il corpo di spedizione americano era troppo piccolo per controllare l’intero territorio. Le forze armate irachene erano state disciolte. E gli oleodotti, per gli insorti, erano il più facile dei bersagli. Durante il 2005 la produzione superò di poco il milione di barili al giorno e salì sino a un milione e seicentomila barili nei mesi seguenti.Daallora la situazione ha registrato qualche miglioramento, soprattutto grazie ai giacimenti di Kirkuk e all’oleodotto turco-iracheno che trasporta il greggio fino al porto mediterraneo di Cihan. Nella zona dell’oleodotto è stato possibile organizzare un servizio di sicurezza, composto da circa 3.000 militari, che è riuscito a impedire le operazioni di sabotaggio degli insorti. Maecco che la politica, ancora una volta, interferisce nell’economia e contribuisce a rendere la situazione irachena ancora più complicata. Kirkuk è una città multietnica e multireligiosa composta da curdi, turcomanni, arabi, assiri e armeni. I curdi sono riusciti a includerla nella loro sfera d’influenza e vorrebbero che facesse parte formalmente della loro regione. Ma i sunniti, gli sciiti e il governo turco, per ragioni diverse, si oppongono. Un referendum, nei prossimi mesi, dovrebbe decidere le sorti della città, ma a giudicare dal clima prevalente a Bagdad, potrebbe venire rinviato. L’intero Paese, nel frattempo, attende una legge che decida come i proventi del petrolio debbano essere ripartiti fra il governo centrale e le regioni. Esiste una bozza che assegna il 17 per cento alla popolazione locale e l’83 per cento al bilancio dell’intero Paese. Ma la ripartizione non piace ai sunniti, che vivono in regioni prive di giacimenti importanti, e, per ragioni opposte, neppure agli sciiti. Impazienti, i curdi, con grande dispetto e preoccupazione del governo di Bagdad, degli americani e della Turchia, hanno deciso di tagliar corto e concludere contratti petroliferi per i loro giacimenti con alcune società straniere. Qualche giorno fa (Wall Street Journal dell’8 ottobre) il Primo ministro della Regione autonoma curda Nechirvan Barzani ha scritto un articolo per assicurare gli americani che i curdi sono amici degli Stati Uniti e che i contratti sono regolati dalla ripartizione 17-83 fissata nel progetto di legge. Ma ogni passo del Kurdistan verso la sovranità, soprattutto in questo momento, spiace alla Turchia e preoccupa gli americani perché rischia di complicare i loro rapporti con Ankara. Qualcuno, tuttavia, osserva ironicamente che uno dei contratti è stato stipulato con Hunt Oil, una società di cui è proprietario Ray Hunt, finanziatore della campagna presidenziale di Bush.