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Quando il viandante ha i piedi feriti

di Francesco Lamendola - 22/10/2007

 

 

Abbiamo paragonato l'essere umano a un viandante (vedi l'articolo Ogni essere umano è un viandante con la doppia cittadinanza), e l'immagine del viandante non è  soltanto un espediente poetico, ma la metafora di una ben precisa condizione esistenziale.  La particolarità di essa risiede nel fatto che ogni persona cammina contemporaneamente su due strade: una, terrestre, è irta di sassi e spine e si snoda lungo una pianura afosa e opprimente, con poche pozze d'acqua e, per giunta, torbide e fangose; l'altra… L'altra appartiene a una dimensione totalmente diversa, all'ombra fresca di piante strane e meravigliose e con un cielo trapunto di stelle non viste mai fuor ch'alla prima gente (Dante, Purgatorio, I, 24).

Quando l'essenza della persona, ossia la sua anima immortale, riesce a spostarsi anche solo parzialmente su questo secondo livello di esistenza, spinta da una bruciante nostalgia dell'Essere che è la sua eredità fin dal giorno della nascita, ella gode di una pace imperturbabile, dall'alto della quale piccoli gli sembrano i desideri, piccole le paure e piccole anche le gioie dell'esistenza ordinaria. Ma si tratta di rari momenti, di fuggevoli stati d'animo, quasi più di presentimenti e di reminiscenze che non di una condizione stabile e regolare. Durante la maggior parte della vita terrena, gli esseri umani sono appesantiti dall'illusione spazio-temporale e vi si calano con una tale immedesimazione, che non riescono più a scorgerne affatto la natura illusoria. Finiscono, così, per attribuire consistenza reale, ontologica, a una condizione esistenziale che è, invece, molto simile a quella del sonno, un sonno popolato di sogni intensi e coinvolgenti, ora lieti, ora cupi e drammatici (cfr. l'articolo La vita è un sogno che occorre attraversare ben desti).

Immersa nel sogno della vita terrena e nella densità della sua potenza illusionante, l'anima perde la sua lievità originaria - di cui i bambini piccoli conservano ancora qualche traccia -, dimentica gli orizzonti sconfinati che ha potuto intravedere nell'altra condizione, gli squarci di cielo dai colori incandescenti, i profumi di cose soavi e sempre inconsapevolmente rimpiante e s'immerge sempre più nella materia, vi sprofonda, per così dire, un passo dopo l'altro, sempre più pesantemente. A malapena ricorda di essere in viaggio verso una destinazione precisa: perché il viandante non è un ozioso vagabondo, no; egli è un viaggiatore animato da un forte senso del dovere, che incessantemente cerca la giusta direzione

 

Com'om che torna alla perduta strada

Che 'nfino ad essa li pare ire invano

                                   (Dante, Purg., I, 119-120).

 

In questo stato di sonno, quasi di sonnambulismo, il viandante comincia a sentire cento e cento piccole voci che risalgono dalle profondità del suo intimo e che, gradualmente, finiscono per soverchiare e mettere a tacere l'unica voce autentica, quella che conta realmente: la voce della propria chiamata. Era quest'ultima, infatti, che gli dava la consapevolezza di non essere un vagabondo, ma un viandante: in essa risiedevano la sua dignità, la sua fierezza, la sua capacità di guardare a testa alta i passi difficili e pericolosi.

Nel momento in cui prevalgono le voci illusorie che agiscono su di lui come le sirene omeriche, sviandolo e distogliendolo dal giusto cammino, il viandante comincia a smarrirsi, come se nel deserto infuocato avesse scorto, all'orizzonte, un tremolare di acque sotto i raggi del sole. Fuorviato da false immagini di bene, comincia - senza avvedersene - a girare in cerchio, come una nave cui si è spezzata la barra del timone, che continua a girare su se stessa in giri sempre più stretti, sempre più fuori controllo. E il primo segno che il viandante si è effettivamente smarrito traspare dal fatto che egli non si riconosce più e, di conseguenza, non è più in grado di scegliere se stesso, né la propria vita. Procede a casaccio, simile - appunto - a un ubriaco o a una nave dal timone irrimediabilmente spezzato.

Non a caso l'oracolo di Delfi ripeteva senza mai stancarsi: "Conosci te stesso". Chi non si riconosce non è in grado di vedere le cose se non attraverso le lenti deformanti del suo stesso nascondimento: non solo le vede paurosamente distorte, ma non ha alcuna consapevolezza di tale distorsione. In compenso sente le voci, sempre più numerose e sempre più ingannevoli, che lo allontanano dal sentiero e lo frastornano con il loro coro dissonante.

 

"E sì dico che quivi si truova tale maraviglia: egli è vero che, quando l'uomo cavalca di notte per lo diserto, egli avviene questo: che se alcuno rimane adietro degli compagni per dormire o per altro, quando vuole poi andare per giugnere gli compagni, ode parlare ispiriti in àiere, che somigliano gli suoi compagni, e più volte è chiamato per lo suo nome proprio, e è fatto disviare talvolta in tal modo che mai non si truova; e molti ne sono già perduti.

"E molte volte ode l'uomo molti istromenti in aria, e propriamente tamburi." (Marco Polo, Il Milione,cap. XLV: Di Lop).

 

E non solo il viandante smarrito si attarda nell'afoso pianoro disseminato di sassi aguzzi e quasi privo d'acqua; anche il viandante consapevole prova momenti di stanchezza, di sconforto: entrambi hanno i piedi stanchi e feriti.

Ciò che li distingue è precisamente la maniera in cui reagiscono alla stanchezza, al dolore, al senso di smarrimento che - presto o tardi - li mettono alla prova. Il viandante smarrito, accecato dal senso di attaccamento alle cose, continua a girare in cerchio; ripete sempre i medesimi errori; reagisce sempre con la stessa altalena di timore e desiderio, di effimera gioia e di amara disillusione. Non si mette mai in discussione: continua ad attribuire sostanza reale alle ombre che gli par di vedere nel deserto. Si aggrappa ad esse oppure le fugge, e nel compiere sia l'uno che l'altro movimento non fa che stringere un poco di più la catena che lo tiene legato all'illusione (cfr. l'articolo Le tre influenze della natura materiale). Ottenebrato dall'ignoranza, sconvolto dalla passione e lusingato dalla virtù, si attacca alle cose e dipende sempre più da esse, lasciandosi irretire in un gioco di ombre vane e fuggevoli che assorbe tutte le sue forze e che lo lascia, alla fine, completamente esausto, turbato e confuso. Non è più in grado di orientarsi, tanto meno di riprendere il cammino verso una meta ben precisa: si lascia portare alla deriva come un pezzo di legno trascinato dalla corrente vorticosa di un rapido fiume.

Il viandante che non si è smarrito perché non ha dato retta alle voci ingannevoli, ma ha ascoltato e seguito solo l'autentica chiamata, quando si sente sopraffatto dalla stanchezza e dallo scoraggiamento si ferma sul ciglio della strada, si raccoglie in se stesso e leva un pensiero confidente in direzione dell'Essere, dal quale sa di provenire e al quale sa di essere, nuovamente, diretto. Meditazione, preghiera, abbandono mistico: nomi diversi per indicare un movimento dello spirito sostanzialmente identico: là dove le forze umane impallidiscono e il sangue sgorga copioso dalle ferite, il viandante sa che deve riconoscere la sua piccolezza, la sua fragilità, la sua impotenza; ma sa anche che, se le sue intenzioni sono pure, verrà una Forza a soccorrerlo, una forza che muove direttamente dall'Essere. Sconfitto sul piano del relativo, egli riconosce con franchezza tutta la sua inadeguatezza; ma, a quel punto, invece di reiterare i propri errori o di disperarsi come un bimbo abbandonato, egli rientra in sé e si lascia andare, pieno di amore e di fiducia illimitata, nel grembo dell'Assoluto.

Allora avviene il prodigio. Là dove, umanamente, non vi erano più speranze, la speranza risorge; là dove ogni risorsa pareva consumata, torna il flusso dell'energia; là dove la strada pareva impraticabile e si concludeva in una buia caverna, la luce riappare e nuovi orizzonti si dischiudono, liberi e ariosi, sferzati da un vento gagliardo.

I cristiani la chiamano grazia; altri, la chiamano con nomi diversi: una sorgente di forza benefica di origine non umana che ristora le forze illanguidite, che rimette vigorosamente in piedi quanti erano caduti, che fa alzare la testa a coloro che si erano curvati sotto le raffiche rabbiose dell'angoscia e della sofferenza.

E tutto è grazia; tutto appare come dono trascendente, inesauribile; tutto si trasfigura in uno splendore senza pari. Non solo la luce, ma anche le tenebre; non solo il calore, ma anche il gelo; non solo il contatto umano, ma anche la solitudine; non solo le albe, ma anche i tramonti. Il viandante, a questo punto, arriva a capire e a sentire che l'alba è bellissima, perché esiste anche il tramonto; che la luce è incantevole, perché vi sono anche le tenebre; che la vita è amabile, perché esiste un termine che la rende preziosa: la morte.

Intendiamoci: il viandante è pur sempre un viandante umano, vale a dire che cammina, per quanto si sforzi di guardare in alto, su questa landa sassosa e tagliente, e continua a ferirsi i piedi. Questo è il destino degli esseri umani, finché sono legati allo spazio e al tempo (Platone diceva: alla prigione del corpo): camminare e ferirsi i piedi. Non è che il viandante consapevole, a differenza dello smarrito vagabondo, non senta le pietre aguzze sotto le piante dei suoi piedi: le sente anche lui, si ferisce lui pure. E anche lui conosce momenti di prostrazione, di paura, di estrema sofferenza. Non è affatto un super-uomo; è solo un uomo che ha ascoltato la chiamata, che conosce la meta e che si sforza di mantenere la direzione giusta per arrivarvi.

Però, mentre s'impegna con tutte le sue forze, avviene una trasformazione. La grazia lo afferra e lo prende con sé: lo sostiene nei punti difficili, come una guida esperta comparsa sul versante della montagna nel momento della maggiore difficoltà. Essa può rivestire mille forme, può prendere anche la forma di un altro essere umano: ma, in realtà, è lei che agisce attraverso persone, cose e situazioni. Tutto quel che di bene gli esseri umani realizzano, per se stessi e per gli altri, non è veramente opera loro, ma della grazia. È l'Amore che ha tratto l'essere dal non-essere, e che incessantemente veglia e si adopera perché ogni cosa sia indirizzata al massimo bene per se stessa:  perché il bene dei singoli enti coincide con l'Essere. Il bene di un singolo ente non può mai risolversi in male per gli altri; il Bene è uno, e in esso confluisce il bene di ciascun ente, così come tutti i fiumi confluiscono nell'unico mare.

Agli esseri umani, talvolta, questo riesce difficile da comprendere; ed è tanto più difficile, quanto più essi sono immersi e sprofondati nell'ignoranza, nelle passioni, nell'attaccamento che deturpa i contorni della realtà.

Dal punto di vista del relativo, non vi è alcun dubbio circa il fatto che il buio è buio, il freddo è freddo, il dolore è dolore. Dal punto di vista del relativo, il male è male - e basta. Ma dal punto di vista dell'Assoluto, tutto è bene: e il dolore ci è dato solo in vista di un bene maggiore, attraverso sentieri che noi non possiamo ancora scorgere, per mezzo di esperienze che ancora non siamo in grado di decifrare.

La nostra visione delle cose, finché restiamo sul piano del relativo, è parziale: vediamo la mano del gigante che ci afferra e ci strappa dalle cose a noi care - ma non possiamo ancora sapere che sta per deporci su un prato colorato da mille fiori odorosi, dove troveremo quella dimensione di pienezza e splendore di cui abbiamo sentito sempre la pungente nostalgia e, rispetto alla quale, le maggiori gioie vissute sul piano del relativo non sono che istanti fugaci e quasi inafferrabili di vago presentimento.

Fatti coraggio, viandante stremato dai piedi feriti. Ascolta meglio la voce, l'unica vera. Non agitarti e non disperarti: nessuno ti chiede uno sforzo maggiore delle tue possibilità. Non attaccarti; lasciati andare. C'è Qualcosa o Qualcuno che si prenderanno cura di te. Ti porteranno in braccio quando sarai troppo stanco per proseguire.