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Irak, una guerra da non vincere

di Andrea Marcon - 23/10/2007

       

 

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E’ convinzione diffusa che in Iraq l’Amministrazione Bush abbia sbagliato i suoi calcoli, passando dall’annuncio di una facile vittoria all’impantanamento stile “nuovo Vietnam”.
In questo senso si è espresso da ultimo nientemeno che l'ex comandante delle truppe americane a Bagdad, il generale Ricardo Sanchez. Secondo il quale il governo degli Stati Uniti sarebbe responsabile di «un piano di guerra catastroficamente sbagliato e irrealisticamente ottimista».
«C'è stata — aggiunge Sanchez, andato in pensione nel 2006 — una palese e sfortunata dimostrazione di leadership strategica incompetente da parte dei nostri dirigenti nazionali». Cioè la banda Bush, Cheney, Rumsfeld.
Critiche pesanti e autorevoli. Tuttavia noi non le condividiamo.
Intendiamoci: Sanchez ha perfettamente ragione se consideriamo la questione dalla sua ottica, che è quella di un militare (e un militare combatte le guerre per vincerle).
Peccato però che Bush&C non siano dei militari. E allora sarebbe il caso di inquadrare le loro scelte in una prospettiva diversa. In fondo, se pensiamo al vero motivo per il quale gli Usa e i loro complici hanno mosso guerra all’Iraq, possiamo renderci conto che un Iraq rappacificato - seppur a suon di stragi delle numerose fazioni che si oppongono all’invasore e al governo fantoccio trincerato nel quartiere americano di Baghdad - forse non sarebbe funzionale alla strategia imperialista yankee.
Innanzitutto verrebbe meno il pretesto che gli americani adducono per giustificare la loro permanenza in Iraq: combattere il terrorismo e salvaguardare la "democrazia". Un bel rischio per chi preferirebbe continuare da un lato a piantonare i giacimenti petroliferi che si è assicurato, e dall’altro a mantenere in un’area strategica una forza militare così consistente.
Gli americani, poi, conoscono molto bene i vantaggi della “strategia della tensione”: un Iraq perennemente destabilizzato e nel quale non è neppure più possibile capire chi combatte o commette stragi e perché, può risultare estremamente utile. Anche all’alleato israeliano. Il pericolo del terrorismo islamico, il nuovo nemico universale, deve essere sempre tenuto vivo.
A queste ipotesi si potrebbe obiettare che le guerre costano, sia in termini economici che di vite umane. Il saldo tra i benefici e gli svantaggi di una simile strategia, dunque, sarebbe positivo?
L'amministrazione americana ha dato ampia prova di tenere in considerazione le vite umane, comprese quelle dei suoi cittadini, meno di un dollaro bucato. Quanto ai costi economici, l’11 settembre e quello che né è conseguito hanno in realtà permesso agli americani di rimettere in piedi la propria economia sull’orlo del collasso grazie all’esplosione (è il caso di dirlo) delle spese militari.
Morale: per qualcuno la guerra permanente è un ottimo affare.