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Geopolitica: Egitto e Palestina

di Giancarlo Chetoni - 23/10/2007

 

Geopolitica: Egitto e Palestina
il presidente egiziano Mubarak


La completa smilitarizzazione dei 60.000 kmq di territorio desertico che separano l’Egitto da Israele non potrà che prolungare l’isolamento e le sofferenze del Popolo Palestinese. Il Paese del Nilo e delle Piramidi al di là della stagione che attraverserà dopo la morte di Mubarak rimarrà di fatto un vicino con scarso peso politico e militare e il valico di Rafah sarà prevedibilmente sottoposto anche per gli anni che verranno a forti limitazioni in entrata e in uscita ammesso che la situazione territoriale della Striscia di Gaza non subisca nel frattempo cambiamenti traumatici.
Le ricorrenti incursioni di carri armati, appoggiati da buldozzer, da elicotteri e nuclei di Tsahal per profondità di 1-2 chilometri lasciano aperto il campo ad effetti e prospettive in ogni caso di grave preoccupazione. Se l’obbiettivo tattico di Israele è attualmente quello di tenere sotto pressione le forze paramilitari di Hamas e di osservarne l’impiego sul terreno quello strategico è altamente probabile che preveda, prima o poi, una parziale rioccupazione dei 360 kmq dei Territori Liberi per spezzare i collegamenti tra le frazioni, i villaggi e le città di Gaza City, Dayr Al Balad, Kan Yunis e Rafah. Israele potrebbe puntare alla creazione di quattro corridoi di penetrazione dal suo confine di Stato al Mar Mediterraneo.
L’occupazione di queste aree consentirebbe a Gerusalemme il vantaggio di tenerle facilmente sgombre da forze ostili, di interdire il passaggio di formazioni armate da un caposaldo di difesa ad un altro e lo spostamento da città a città. Le periferie allargate permettono un costante approvvigionamento alimentare e il trasporto d’acqua agli insediamenti urbani. Tagliare questo cordone ombelicale restringerebbe in modo determinante la possibilità di una resistenza prolungata nei centri urbani da parte di Hamas e delle formazioni armate della Jihad. Lo Stato Maggiore di Israele sa perfettamente che l’attacco a uno o più aree abitate di medie e grandi dimensioni crea a qualsiasi aggressore, anche al più attrezzato a livello tecnologico, enormi problemi, dal logoramento materiale ai ratei di perdite, specie se l’avversario dispone di forze profondamente motivate e strutturate per conflitti a bassa intensità che godono del completo appoggio della popolazione locale. In ambienti a forte densità abitativa ogni offensiva militare esterna, protratta, si traduce inevitabilmente in un alto numero di morti e di feriti tra la popolazione con effetti largamente indesiderati di diffusione delle notizie a livello di opinione pubblica mondiale come già successo per le stragi di civili in Iraq e in Afghanistan anche se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in questi Paesi e in Palestina adotta da un bel po’ di tempo la regola delle 3 scimmiette : non vede, non sente e non parla. L’Europa, indecente, di Solana riesce a fare anche di peggio.
L’esercito libanese pur con l’evuacazione di 37.000 sui 40.000 residenti a Narh Al Bared ha dovuto affrontare oltre 90 giorni di combattimenti e lasciare sul campo centinaia di uomini per avere ragione di 150-170 guerriglieri pur procedendo a un sistematico cannoneggiamento sull’abitato con artiglierie di grosso calibro, mitragliamenti e bombardamenti dal cielo.
Un enclave posizionata in un territorio totalmente ostile, con difensori gravati dall’accusa di terrorismo qaidista, dotati esclusivamente di armi leggere, senza sostenitori né in Libano né apparentemente altrove, ha opposto una difesa attiva e per lungo tempo vincente contro forze soverchianti ma inadatte o largamente demotivate ad affrontare il combattimento ravvicinato in aree urbane. Israele non lascia mai volontariamente della terra strappata al nemico con la forza. Quando lo fa è perché il sistema di sicurezza che costruisce in quegli spazi è crescente dal punto di vista dei costi economici e, insieme, logorante nella gestione delle attrezzature elettroniche di sorveglianza come lo è lo stillicidio di perdite nei posti di osservazione e di controllo di personale della polizia e di Tshaal. Tenere 17.500 coloni nella Striscia di Gaza si è rivelato per Gerusalemme un passo più lungo della gamba. Il ritiro di Tsahal del 14 Agosto 2005 ha consentito , a compensazione, peraltro al Governo Sharon di trasformare quella terra in una prigione a cielo aperto per 1.475.000 Palestinesi di cui Israele conserva le chiavi dei rifornimenti logistici ed energetici e del’approvvigionamento idrico. Il Governo Olmert, attraverso un embargo dei traffici ai valichi di frontiera che ha per effetto un decadimento della qualità di vita dei Palestinesi, punta a rendere sempre più problematica ad Hamas la gestione Politica dei Territori. La recente dichiarazione della Kssnet di considerare la Striscia di Gaza un entità nemica lascia presagire la possibilità che Israele attui un intervento militare come quello accennato ancor prima di poter affrontare un conflitto con la Siria e/o con il Libano per evitare di immobilizzare aliquote significative delle sue forze armate sull’intero fronte sud.
Le proteste politiche e sindacali, anche nel campo dell’informazione, che stanno scuotendo in questi mesi l’Egitto, nella loro eccezionalità, segnalano l’avvio di una fase di passaggio prevedibilmente contrastata che porterà al dopo Mubarak. L’età avanzata del rais, le sue precarie condizioni di salute confermate da alcune fonti diplomatiche europee dopo il Davos Forum a Sharm El Sheik lasciano intravedere un crescente appannarsi della sua capacità di guida del Paese. Breccia che potrebbe portare all’emergere di centri di aggregazione politica alternativi al Partito Unico. La speranza è che dalle ceneri di un impresentabile autoritarismo possa nascere una nuova classe dirigente e un nuovo Paese. L’Egitto è ormai da anni relegato ad un ruolo marginale nel mondo arabo da un economia largamente assistita dal FMI e dalla Banca Mondiale che si traduce in un crescente debito estero, da una struttura produttiva che stenta ad uscire da una fase pre-industriale, dalle sconfitte militari incassate da Israele nel ’67 e ’73 e da una lungo periodo di disimpegno dal Medio Oriente. Il suo apparato militare è stato cloroformizzato prima e drogato poi dagli Usa con lo scopo di conservare inalterata nel tempo la supremazia militare di Tshaal e della Israeli Defence Force nell’Area.
La recente decisione sotto dettatura degli Stati Uniti di inviare un contingente di 2.000 uomini in Darfur per affiancare l’ONU in “pacificazione forzata” oltre a precarizzare ulteriormente la sua economia finirà per proiettare l’Egitto nell’Africa Profonda allontanandolo dal “centro” geopolitico del confronto con Israele. Le forze armate del Cairo pur imponenti per organici e struttura militare sono sul piano qualitativo e dell’efficienza bellica largamente inferiori a quelle di Tel Aviv. Un flash servirà meglio ad inquadrare la situazione sul terreno. Gli Stati Uniti hanno fornito lo stesso cacciabombardiere F16 ai due Stati ma nel rapporto di 5:1 dotando il primo acquirente (Israele) di tutti i sistemi d’arma più perfezionati aria-aria e aria terra e di versioni del jet sottoposte, via, via a costanti aggiornamenti che ne permettono nel tempo la piena efficienza operativa mentre al secondo (Egitto) li negano riducendo i suoi vettori a poco più che aerei con scarsa capacità di navigazione e di attacco al suolo. Già al momento della consegna gli F16, pur apparentemente identici all’esterno, hanno differenze strutturali nella qualità delle attrezzature radar e delle dotazioni elettroniche di bordo.
Elemento che determina rapporti di forza completamente sbilanciati a favore dello Stato Ebraico. Mentre le forniture Usa non gravano sul bilancio della difesa di Israele quelle all’Egitto sono stabilite sulla base di esborsi compensati che ne fanno un acquirente obbligato oltre che un patner economicamente esausto e forzatamente “allineato” alla politica estera USA. Anche in presenza di assetti politici meno subordinati con una nuova presidenza che si affranchi dalla tutela a stelle e strisce, ed è l’ipotesi più favorevole, l’Egitto non potrà liberarsi completamente del suo “ tutore“ né potranno mutare sul breve periodo i rapporti di forza in quell’Area. Il cambio di indirizzo strategico che ha portato la Siria nel giro di 10 anni ad essere un temibile avversario di Israele anche con l’assistenza finanziaria dell’Iran e quella militare della Russia non potrà attraversare nella Terra del Nilo le stesse tappe. Il Cairo per poter rendere credibile la deterrenza del suo esercito contro Israele, sostanzialmente fermo all’impiego tattico e ai materiali della guerra del Kippur, ha necessità di far uscire dalle Piramidi oltre un nuovo Nasser anche i miliardi di dollari che servono per procedere ad un inversione a 180° della sua attuale struttura militare passando dalla dotazione ingessante di materiale americano a moderne forniture russe per poi attivare, per gradi, la rimilitarizzazione del Sinai e adottare un processo politico che riavvicini la classe dirigente egiziana e la Lega Araba al Popolo Palestinese.
L’ascesa di Teheran come potenza regionale del Vicino Oriente e il patto di assistenza stretto con Damasco, il perdurante impegno bellico degli Usa in Iraq e Aghanistan, la valenza strategica delle fonti di approvvigionamento energetico del Golfo Persico e del Caspio hanno finito per condensare la strategia dell’Amministrazione Bush in una direzione che va dal Libano al Centro Asia ed è in questa parte del mondo che si sta sviluppando il tentativo di Usa, Israele e Alleati di arrivare alla completa destabilizzazione degli attuali assetti regionali e continentali.
Il Sinai è quindi destinato a rimanere un terreno geopolitico forzatamente neutro o del tutto periferico almeno per i prossimi 10-15 anni.
Le opportunità di radicamento di uno Stato Libero di Palestina o la sua totale fuoriuscita dalla storia del XXI° secolo dipendono dagli esiti del confronto che si sta sviluppando tra Stati Uniti e Israele e Siria e Iran sul fronte del Vicino Oriente e dall’esito strategico sta mettendo in rotta di collisione sullo stesso terreno Usa e Europa da una parte e Russia, Cina, Patto di Shangai ed India dall’altra.