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Luca Canali: da Catullo a Giovenale, i grandi nevrotici della poesia latina

di Marco Managò - 23/10/2007

 

Luca Canali: da Catullo a Giovenale, i grandi nevrotici della poesia latina
Catullo


Luca Canali, professore universitario e grande conoscitore della materia classica, è l’autore di un interessante volume (edito da Bompiani-Rcs Libri) dall’idea piuttosto innovativa: quella di sottoporre, idealmente, alcuni poeti latini a un esame introspettivo, per rivelare la propria essenza, il proprio esser comuni mortali.
Le documentazioni a disposizione, riguardo il carattere e la personalità dei grandi autori classici, sono piuttosto carenti, per questo Canali aggiunge un pizzico di fantasia, sulla scorta degli indizi necessariamente rivelati negli scritti.
L’idea è quella di sottoporre tali poeti a una sorta di “analisi”, a una seduta pari a quelle della moderna psicologia, in cui si tenta di scavare nella personalità dei pazienti coinvolti.
Canali, significativamente, precisa quanto questo suo lavoro (basato tra l’altro su una profonda conoscenza della materia) sia criticato da alcuni colleghi che vedono, nelle opere letterarie, l’impegno distaccato del poeta (o del narratore), una produzione artificiosa di puro esercizio stilistico e di contenuti, del tutto scevro da complicazioni personali.
La realtà è ben altra cosa in quanto ogni autore, per quanto postosi su di una posizione super partes, inevitabilmente finisce per trasporre nei testi alcuni elementi della propria esperienza e su questi Canali fonda i suoi dialoghi. Si tratta di un’intuizione valida, per nulla impregnata di sfoggio nozionistico, rivolta quantomeno all’indagine e non all’esclusiva prerogativa dell’assoluta chiarificazione.
Nel volume, spesso sono riportati, in opportuna selezione, alcuni tratti dei testi dei grandi classici citati, per poter, così, suffragare le opinioni espresse.
Il primo autore classico a esser indagato è Catullo, il quale si rivolge al medico Antonio Musa (realmente esistito) per enunciare il proprio tormento interiore e cercare di vincerlo.
Catullo rivela la propria spossatezza, il travaglio interiore, la delusione per la dissennatezza del suo amore Lesbia e per la condotta di alcuni presunti amici.
Musa lo invita a rinunciare al suo stile comunicativo per esser più semplice, rivelando tutti i particolari dello stato d’animo, pur di risolvere qualsiasi contraddizione interna, posta tra la convinzione d’esser spirito nobile e colto e, allo stesso tempo, vittima di complessi di inferiorità, di auto-esclusione dalle vicende del mondo circostante.
L’eccentricità e la ribellione di Catullo, peculiarità sin da bambino, sono state probabilmente frutto di un amore materno non assoluto, parimenti sono state la fonte della sua arte. Conclude, infatti, Canali: “Continuò a voler soffrire del conflitto tra prepotenza regressiva del “piccolo” e fragilità autodistruttiva del “grande” se stesso. Quel lacerante conflitto era in fondo la fonte della sua poesia. Ed egli amava la poesia più di Lesbia e persino più della propria stessa vita, che perse a poco più di trent’anni”.
Il secondo grande poeta latino su cui si sofferma l’attenzione di Canali è Lucrezio, un personaggio anch’egli ribelle, probabilmente dedito a droghe, irrequieto e avulso dalla banalità quotidiana. Il suo immaginario dialogo verte sulla disillusione riguardo le qualità umane, sulla sfiducia nei confronti di qualsiasi uomo, anche quel Sirone che tanto lo aveva avviato alla filosofia epicurea (di certo politicamente scorretta, come diremmo oggi), poi rivelatosi malvagio.
La vita dissennata giovanile non poteva non risentire della natura di figlio illegittimo e disconosciuto; forse proprio nei postriboli, dove frequentava meretrici e similari, riscontrava più sincerità rispetto ai “buoni salotti”.
L’impressione immediata è che la poesia, anziché lasciar sfogare la rabbia di Lucrezio, abbia contribuito ad accrescerla.
A tal proposito ancora una volta la chiusa di Canali sembra efficace: “Musa, desolato, si chiese se era lui a non saper curare i poeti, o se i poeti erano destinati a morire in giovane età, forse bruciati dal loro stesso fuoco interiore”.
La disamina introspettiva di Virgilio si fonda su un’inconciliabile esigenza di nobiltà sentimentale, di amore platonico, con l’inevitabile scadimento del contatto fisico. L’esperienza amorosa di Virgilio è irrimediabilmente frenata da episodi giovanili negativi, ai quali contrappone una rigida castità, spesso derisa, e una continua descrizione, nell’Eneide, di dolci e pure figure femminili.
L’insoddisfazione virgiliana è notevole, tale da frenarlo anche nella stesura dell’Eneide (poema al quale lo stesso Augusto tiene fermamente) e, a fatica, permette al poeta di accettare l’inevitabile materializzazione del sentimento amoroso, alla base della vita stessa.
Virgilio e Orazio esprimono chiaramente il rammarico per essersi lasciati coinvolgere oltremodo dalle divisioni politiche, dalle amicizie e dalle scelte di campo. Orazio, in particolare, comprende quanto la sua idealità sia stata ridicola e ingenua dinanzi agli interessi materiali realmente difesi dalle fazioni romane. Dinanzi agli insuccessi, al prezzo pagato per l’amicizia con Bruto, il razionalismo oraziano sembra decisamente affiorare, anche se l’esclusività cozza con il naturale svolgimento delle emozioni, di quel vivere naturale e reattivo alle fasi alterne della vita.
Da tutti questi grandi poeti l’autore cerca di far affiorare una particolarità interessante: dall’alto della loro posizione, della loro superiorità intellettuale, essi sembrano faticare nel mettersi a nudo e confrontarsi discorrendo del proprio io, di ciò che poco o mai hanno trattato in precedenza.
La trattazione prosegue con l’umbro Properzio, un tipo irascibile, poco volto all’interiorità, piuttosto libertino nelle scelte sentimentali e, soprattutto, frustrato da un grande senso di colpa: l’aver tradito la propria gente e la propria terra. In effetti, l’uccisione di circa duecento notabili umbri, tra cui alcuni parenti e amici di Properzio, effettuata da Ottaviano nell’anniversario dell’omicidio di Cesare, mal si concilia con le frequentazioni e le strette amicizie (quella di Mecenate, a esempio) del poeta, legate al potere che ha ordinato la strage.
A ciò si aggiunga un ulteriore senso di colpa generato dalla madre di Properzio, la quale ha spesso sottolineato la mancanza di presenza e di senso di responsabilità in seguito alla morte del marito, quasi a pretenderne un’ipotetica sostituzione funzionale.
Decisamente sfortunato tal Properzio, se si considera anche la pressante invidia che suscitava in avversari e presunti amici. La sua consapevolezza di essere spirito particolarmente dotato e fuori dell’ordinario non deve, però, scadere in un ostinato, e alla lunga frustante, anticonformismo.
Tèssalo di Tralles è l’altro medico della scuola di Musa, realmente esistito, che l’autore pone al servizio di poeti come Lucano. Tèssalo viene descritto come un medico capace, ma meno “umano” del maestro e sicuramente più oneroso per le proprie prestazioni.
Vale la pena ricordare chi è Lucano, l’autore del Farsaglia, coraggioso poema epico (da contrapporre all’Eneide, di stampo filoaugusteo), incentrato sul periodo repubblicano e critico verso la figura di Cesare.
Nerone, dapprima amico di Lucano, col tempo cominciava a rifiutare qualsiasi voce contraria dell’Impero, sospettando cospirazioni e congiure.
In un coro di adulatori, anche una voce poco diversa, sebbene non del tutto contraria, rischia di divenire una minaccia.
Lucano non deve soffrirne troppo, né dannarsi in una conseguente crisi artistica, se finisce per essere una prima vittima di quello che sarà il deviare dal pensiero unico.
A pesare, ancora una volta, sulla stabilità interiore di tali grandi personaggi, di tali menti elevate, per l’autore non ci sono dubbi: sono sempre le situazioni familiari, sin dalla genitorialità perduta; nel caso di Lucano madre e padre separati e distaccati dal proprio figlio.
L’epilogo della storia di Lucano si concreta nel fallimento del complotto contro Nerone e con la durissima repressione che ne è seguita, che ha colpito lo stesso poeta, obbligato al suicidio.
L’ultimo caso clinico da analizzare è quello del poeta Giovenale, definito da Canali in tal modo: “Cittadino scontento e oscuro, era invece un poeta di prim’ordine: ma scriveva soltanto satire, violentissime contro i ‘depravati’ costumi delle donne d’alto bordo, anche quelle del Palazzo imperiale, sugli omosessuali, e sugli odiati immigrati, per lo più “grechetti” o siriaci”.
Lo sfogo di Giovenale, dinanzi all’immaginario medico Severo, è una continua invettiva contro i costumi del tempo, avverso la confusione generale regnante nell’Urbe; si aggiungono il biasimo per i ricchi, ai quali si perdona qualsiasi cosa (al contrario dei poveri) e la ricorrente polemica, espressa in diversi scritti, riguardo alle immigrazioni selvagge provenienti da Oriente.
Tutto ciò rappresenta un misto di insoddisfazione e rabbia, che sfocia in un comportamento al limite della nevrosi e a poco sembrano valere i numerosi sfoghi perpetrati attraverso le Satire. Gli stessi strali nei confronti delle donne rasentano l’eccessiva moralità, il confine con l’ipocrisia e la fobia dell’altro sesso.
L’originale idea utilizzata da Canali per immaginare, con fondamento, le impressioni e i travagli interiori dei grandi poeti latini, è un efficace mezzo di conoscenza nonché una conferma del decadimento sociale e morale di Roma, nonostante le conquiste militari e la Pax Augusta. Un’epoca di immoralità e di lotte civili, dai Gracchi, a Spartaco, da Mario e Silla alla congiura di Catilina, da Cesare a Bruto, da Ottaviano ad Antonio; il tutto vissuto con trepidazione e scoramento dagli spiriti più illuminati del tempo.
Attraverso un curioso parallelo si può immaginare quanto tali autori avrebbero sofferto nel vedere l’irreversibile scadimento sociale e morale dell’Italia moderna, neanche autonoma.