Così non è però pare
di Adriano Scianca - 22/12/2005
Fonte: Adriano Scianca
In un bell’articolo di qualche anno fa (1), Charles Champetier individuava il nuovo volto del nemico in un triplice sistema di dominio composto da tecnica, mercato e spettacolo. Le figure tradizionali della contrapposizione politica, spiegava, Champetier, sono ormai obsolete; al giorno d’oggi il potere è esercitato da meccanismi impersonali che non vengono esercitati in momenti e luoghi simbolici, ma in ogni istante e dappertutto.
Più che da una struttura di potere, il sistema è oggi costituito da una dimensione esistenziale in cui siamo tutti calati. Già, perché la nuova forma del dominio non prevede una costrizione esterna, quanto piuttosto un assorbimento al suo interno. Noi viviamo nella tecnica, nel mercato, nello spettacolo.
Ogni aspetto delle nostre esistenze non riconducibile a tale schema è “normalizzato” o soppresso: ciò che non è efficace è sorpassato, ciò che non è redditizio è assurdo, ciò che non è visibile è inesistente. Il risultato è il mondo senza senso: l’economia produce per produrre, la tecnica progredisce per progredire, lo spettacolo mostra per mostrare. Ciò che un tempo era un mezzo sottomesso ad altri fini, ora è fine a se stesso. Torna in mente la sentenza di Nietzsche sul nichilismo come assenza di risposta al “perché?”. Ebbene, la profezia si è compiuta. Viviamo in un mondo che, come direbbe Alain de Benoist [alias], non sa dove andare, ma non cessa di affermare che c’è un solo modo per recarvisi.
Spettacolo e realtà
Lo spettacolo è formato da singoli aspetti del mercato e della tecnica che vanno a costituire un insieme autonomo inglobante l’ambito dell’informazione e delle rappresentazioni collettive. Lo notarono già Adorno e Horkheimer in tempi non sospetti: “il film, la radio ed i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. Ogni settore è armonizzato al suo interno e tutti lo sono tra loro”. E tutto ciò nonostante il tanto sbandierato pluralismo: “le distinzioni enfaticamente ribadite” tra i differenti prodotti culturali, continuavano i due filosofi ebrei, “più che essere fondate sulla realtà e derivare da essa, servono a classificare e organizzare i consumatori, e a tenerli più saldamente in pugno. Per tutti è previsto qualcosa perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono inculcate e diffuse artificialmente” (2).
Ciò che vediamo cambia continuamente, ma rimane costante il dominio della visione dell’immagine spettacolarizzata. Nella nostra società, infatti, la visione ha sostituito sia l’azione che la riflessione. Non si crede che a ciò che si vede. Ciò che è visto soppianta ciò che è vissuto. Lo spettacolo, dice Guy Debord, non è nient’altro che “l’impoverimento, l’asservimento e la negazione della vita reale” (3). La visione spettacolarizzata diviene la sola possibilità di esistenza degli enti.
Da qui si deduce che la società dello spettacolo non è solo il regno della menzogna (benché di menzogne pure e semplici ce ne siano a bizzeffe), quanto piuttosto la vera e propria dimensione della non-verità assoluta, la dimensione in cui è impossibile fare esperienza della verità, il mondo in cui esiste solo ciò che è posto sotto la luce dei riflettori, mentre ciò che dimora nella sua esistenza autentica è come se rimanesse in un’oscurità originaria (4). Come mosche di fronte ad un vetro, sbattiamo la testa per raggiungere una realtà che non afferriamo senza capire chi e cosa si frapponga tra noi ed essa (5).
In questo modo, però, la nostra capacità di comprensione e di comunicazione ne esce irrimediabilmente compromessa. La società dello spettacolo entra in noi e ci trasforma dall’interno. In particolare, la nostra personalità viene disarticolata su tre livelli distinti: livello informativo, livello sociale e livello psichico.
Vedere e non capire
Il livello informativo è quello in cui lo spettacolo agisce deformando la nostra percezione del mondo. “Tutto quello che sai è falso”, ha scritto di recente qualcuno, ed è difficile dissentire.
Noi oggi non siamo più in grado di comprendere ciò che ci accade intorno senza fare ricorso alle risposte preconfezionate o a paradigmi semplicistici somministratici ad arte. Lo schema morale dei “buoni” e dei “cattivi” è stato ormai inserito a forza tra le nostre strutture mentali implicite, e la nostra “libertà di pensiero” consiste semplicemente nell’assegnare ogni comparsa allo schieramento cui è destinata ad appartenere. I tasselli del puzzle ce li dà la TV e l’incastro è necessariamente quello stabilito, ma in fin dei conti quando mettiamo insieme i pezzi nessuno ci punta la pistola alla nuca: a qualcuno tanto basta per autodefinirsi “libero”. La moltiplicazione dei canali informativi ha finito quindi per coincidere con la totale assenza di reale informazione.
Ne è un simbolo eloquente l’attacco alle Torri Gemelle, allo stesso tempo l’evento e l’anti-evento per eccellenza. L’11 settembre è il momento della trasparenza assoluta, dell’informazione globale realizzata, lo spettacolo che riunisce contemporaneamente tutta l’umanità davanti al teleschermo per assistere in tempo reale allo stesso evento ripreso da migliaia di telecamere. Ma allo stesso tempo, siamo di fronte ad un anti-evento, alla mistificazione più totale della realtà, alla finzione completa. È vero, lo abbiamo visto tutti. Eppure ne ignoriamo ogni aspetto. Sappiamo con assoluta certezza che qualcosa ha avuto luogo, ma questo qualcosa è così vicino all’essenza stessa del meccanismo spettacolare che è concentrato di falsità allo stato puro. Non c’è alcuna immagine che abbiamo visto tante volte come quella di quegli aerei che si schiantano; ma allo stesso tempo, non c’è fatto storico di cui sappiamo meno. Vedere e non capire è ormai il nostro destino. La comprensione o l’analisi ci sono precluse; ci rimane solo stupore e indifferenza, paura e divertimento, isteria ed apatia, dispensati a dosi alterne, a seconda delle esigenze del sistema.
Destrutturazione del sociale
Il livello sociale è quello in cui la personalità degli individui ed il loro legame con gli altri viene destrutturato e riplasmato in base alla logica mercantile. “Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini”, notava già Débord (6).
Noi non viviamo che relazionandoci agli altri, ma oggi non esiste legame sociale che non sia interno allo spettacolo. Qui, più che i telegiornali, possono le fiction, i reality show e lo star system in generale. Proponendo determinati modelli, la società dello spettacolo penetra nei rapporti inter-individuali e si riproduce. La competizione darwinista, il moralismo ipocrita, l’individualismo decadente, l’etnomasochismo, la vanità narcisistica, la piccola meschinità, il conformismo più vuoto, la superficialità più sconcertante e l’ignoranza più abissale elevati a norma: è in tutto questo che siamo immersi quotidianamente grazie al bombardamento mediatico. Prende il sopravvento la banalità come linguaggio, il che significa non tanto che si dicano cose banali, ma che non si sia capaci di comunicare se non attraverso la banalità. Ovvero: si parla e non si dice nulla.
È il culmine dell’alienazione: “La coscienza spettatrice, prigioniera di un universo appiattito, delimitato dallo schermo dello spettacolo, dietro il quale è stata deportata la sua vita, non conosce più se non gli interlocutori fittizi che la intrattengono unilateralmente sulla loro merce e sulla politica della loro merce” (7).
La Grande Famiglia
Tale meccanismo alienante, per farsi seducente, non può che vestirsi di finta autenticità. La tendenza al “realismo” della TV attuale mira infatti a creare una sorta di “familiarità” con la finzione dello schermo, cercando di far appassionare il pubblico a piccole vicende insignificanti con cui si possa identificare. “Dicono che avere un secondo schermo a muro è come sentirsi circondati dalla Grande Famiglia” dice Julie Christie in Fahrenheit 451 di Truffaut.
È proprio così: la “Grande Famiglia” ti avvolge e ti ingloba. Ti ritrovi a chiamare per nome degli sconosciuti visti sullo schermo come se fossero tuoi intimi amici. Li senti vicini, ti sembrano come te. Ma in realtà sei tu che stai diventando come loro. Questi show, infatti, non rappresentano la realtà. La costruiscono. Non sono descrittivi ma normativi. Essi non mostrano ciò che è ma ciò che deve essere. Lo stesso dicasi per il culto dei VIP e degli aspetti più privati delle loro esistenze: l’individuo “normale” si trova catapultato nei pettegolezzi sulla vita sentimentale dei miliardari ignoranti e viziati divinizzati dai media e fantastica così su di una vita che non potrà avere mai ma che gli servirà da modello per orientare la sua. Viviamo in un mondo di VIP mancati, che non sognando nient’altro che lo stile di vita dei divetti straricchi ed annoiati, mostrano di aver già interiorizzato un certo disprezzo di sé stessi, delle proprie origini culturali e sociali.
Grazie alla società dello spettacolo cominciamo ad odiare la parte di noi che rimane autentica, vera, radicata, quella parte che se non venisse disintegrata ci impedirebbe di accedere all’Olimpo mediatico, come previsto dal classismo post-moderno che separa chi appare da chi non appare.
Il livello psichico, poi, è quello della vera e propria disarticolazione della personalità ad un livello anche fisiologico. Si pensi all’azione destrutturante esercitata sul cervello umano.
Come si sa, il cervello funziona grazie alla sinergia di emisfero sinistro ed emisfero destro. I due emisferi elaborano le informazioni in modi differenti destinati poi ad intrecciarsi armonicamente: l’emisfero sinistro ragiona in un modo che potremmo definire analitico, lineare, consequenziale, scientifico, digitale, quello di destra in un modo intuitivo, simbolico, immaginativo, sintetico, analogico.
Ora, è stato rilevato come l’uso delle nuove tecnologie mediatiche sia in grado di creare strutture mentali prioritarie, favorendo determinate facoltà (quelle “digitali”) a detrimento di quelle centrali per il pensiero simbolico e relazionale (8). Altri hanno individuato in tale separazione l’origine dell’imbarbarimento della nostra società e del dilagare della violenza nichilista fine a se stessa (9).
Qui non parliamo di atteggiamenti o mentalità, quanto piuttosto di organizzazione cognitiva e persino neuronale. Si pensi solo che la televisione ha già modificato il modo in cui usiamo i nostri occhi e sta contribuendo persino a squilibrare i nostri valori ormonali.
E non è tutto: l'autorevole rivista specialistica Pediatrics, ad esempio, ha compiuto studi che hanno dimostrato come in America il cervello dei bambini si formi sui tempi televisivi - in cui tutto avviene velocemente, a lampi brevi e improvvisi – tanto da non riuscire più a concentrarsi quando non riceve lo stesso tipo di stimolo veloce. Un numero crescente di bambini, ormai, non riesce a concentrarsi mai, neanche per qualche minuto. Stiamo dando vita allo zombi globale, unico cittadino possibile del mondo post-umano che stiamo preparando.
La ribellione spettacolare
Stando così le cose, come contrapporsi alla tirannia dello spettacolo? La via istintivamente intrapresa dai più è quella dell’estremismo. L’estremismo è l’eccessività effimera del gesto, l’attitudine a conferire ai propri discorsi una visibilità che superi per un attimo in intensità la monotonia del già-visto, senza però uscire dal paradigma della visione spettacolarizzata. Esso è, come si intuisce, totalmente interno alla società dello spettacolo.
A livello macrostorico e macropolitico, l’estremismo diviene terrorismo: in fin dei conti il mito dello “scontro di civiltà” (Occidente vs Terrorismo Islamico) non è che la versione globale ed aggiornata del mito degli “opposti estremismi” (anticomunismo reazionario vs antifascismo reazionario). Cambia l’intensità (e la tragicità) ma non i risultati. Il potenziale rivoluzionario dell’estremismo/terrorismo è difatti pari a zero.
Anzi: svolgendo un ruolo all’interno della società dello spettacolo, l’estremista ed il terrorista non solo non mettono in discussione nulla, ma divengono addirittura funzionali al sistema che a parole vorrebbero combattere, prendono le fattezze di comparse in una recita più grande di loro. E spesso non c’è nemmeno bisogno di casting eterodiretti: essi trovano da sé il proprio posto nella commedia, viene loro spontaneo assumere la parte che gli è stata destinata.
Fuori dalla commedia, ed anzi impegnato ad appiccare il fuoco all’intero teatro, è invece chi sappia assumere posizioni radicali.
Il radicalismo è l’antitesi dell’estremismo. Il primo è silenzioso, vissuto, lungimirante, operativo; il secondo è chiassoso, recitato, miope, inconcludente. Non incentrato sui gesti ma sulle azioni, il radicalismo è, etimologicamente, la capacità di andare alla radice. Alla radice di se stessi, innanzitutto: il pensiero radicale è sempre radicato. O meglio, deve esserlo: chi si avventura nel regno del nulla deve avere un’identità forte per non assumere egli stesso le sembianze del nemico. Ma pensiero radicale significa anche andare alla radice dei problemi, comprendere gli avvenimenti in profondità, sapendoli mettere in prospettiva.
Scuola di autenticità e di realismo, il pensiero radicale è oggi l’unica via percorribile che possa con ragione definirsi rivoluzionaria. Già, perché il primo compito di ogni volontà rivoluzionaria è quella di calarsi concretamente nella realtà, al di là dell’isteria e dell’utopia, le due sole alternative che la società dello spettacolo ci offre. Operare per un ritorno al reale, quindi. Generare nuove consapevolezze. Risvegliare coscienze assopite. Uscire dalla cappa soffocante della non-verità per tornare finalmente a riveder le stelle.
Il mondo in cui vivi non esiste.
Tutto ciò che sai è falso.
Apri gli occhi.
Ora.
note
1 Charles Champetier, Marché - Technique - Spectacle : les formes de la domination.
2 Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1997. Sul pluralismo come simulacro di libertà vedi pure Guillaume Faye, Il Sistema per uccidere i popoli, S.E.B. Milano 1997
3 Guy Debord, La società dello spettacolo[versione francese on line, versione inglese on line], Baldini & Castoldi, Milano 2001.
4 Si vede bene come il concetto greco di verità come aletheia (non-nascondimento) è esattamente ribaltato. Nella società dello spettacolo è ciò che è vero che risulta nascosto, mentre ciò che è falso è dato in piena visibilità.
5 La metafora è di Baudrillard: “Oggi non siamo noi a pensare il virtuale, è il virtuale a pensare noi. Separandoci definitivamente dal reale, quest'inafferrabile trasparenza ci è intelligibile quanto lo è per una mosca il vetro in cui sbatte, senza capire che cosa la separi dal mondo esterno: nemmeno può immaginare che cosa le limiti lo spazio”. (L’uomo è una mosca prigioniera del virtuale, in L’Unità, 28/7/01)
6 Guy Debord, op. cit
7 Guy Debord, op. cit.
8 Cfr. Franco Fileni, Analogico e Digitale, Edizioni Goliardiche, Trieste 1999.
9 Penso alle riflessioni di Gabriele Adinolfi sul saggio La violenza dei giovani ed il cervello rettile del vietnamita Minh Dung Nghiem. Cfr. www.gabrieleadinolfi.it