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Il veneziano che svelò gli harem

di Federico Rampini - 24/10/2007

     
Federico Rampini racconta la vita e la cultura dell’India seicentesca dei Moghul attraverso la lettura della Storia do Mogor, opera autobiografica del contemporaneo Niccolò Manucci. Appena adolescente, Mannucci salpò da Venezia per l’India nel 1653 e visse tutta la sua vita avventurosa nel continente indiano fino alla morte nel 1717. Inizialmente si improvvisò artigliere e consigliere militare, poi medico per la nobiltà indiana e per il Moghul stesso, ma anche spia al soldo delle potenze europee.
Secondo Rampini la
Storia do Mogor è un’opera libera dai pregiudizi razziali e religiosi che impregnavano molti dei resoconti orientali scritti da europei nei secoli XVII e XVIII. Manucci fu il primo a svelare sia la potenza politica e sociale delle donne che compongono gli harem indiani, sia il rituale del sati, il suicidio della vedova indù sulla pira funeraria del marito.

«Non ero ancora adulto e già mi divorava il desiderio più ardente di vedere il mondo. Nonostante il rifiuto ostinato di mio padre lasciai Venezia, la culla della mia tenera infanzia, e presi la decisione di navigare. Seppi che una tartana stava per salpare, sa il diavolo per dove, e m’imbarcai. Era il 1653 e avevo quattordici anni…». Così inizia la Storia do Mogor di Niccolò Manucci, il veneziano che visse alla corte dei Moghul e raccontò al mondo l’India del Diciassettesimo secolo. Un’autobiografia avventurosa, quasi un romanzo picaresco. Passeggero clandestino per Smirne, il quattordicenne viene scoperto dal comandante che vuole gettarlo in mare. Lo salva l’intervento di un finto mercante inglese che si rivelerà essere Lord Bellomont, ambasciatore segreto del futuro Carlo II d’Inghilterra presso i sovrani indiani.
È con il suo protettore britannico che il Manucci arriva nell’impero Moghul dove se la sbroglia in tutti i mestieri: s’improvvisa artigliere, si spaccia per farmacista e medico, diventa confidente delle dame dell’harem, diplomatico e spia al servizio di tutti potenti di turno, indiani o portoghesi, inglesi o francesi. Sempre in bilico tra la gloria e la morte, Manucci scampa ad agguati, trappole ed esecuzioni. Sfugge alla Santa Inquisizione travestito da carmelitano. Ruba agli odiati gesuiti il segreto di un afrodisiaco. Per i servigi resi alla corona viene insignito del titolo di Cavaliere dell’Ordine di Santiago dal re del Portogallo. Sposa una ricca vedova inglese e infine dedica la vecchiaia a scrivere le sue memorie a Pondichéry, colonia francese in India, dove muore nel 1717 all’età di settantanove anni. Per la ricchezza dei suoi resoconti sull’India Manucci meriterebbe di essere celebre quasi quanto il suo concittadino Marco Polo. Invece la Storia do Mogor non ha avuto una fortuna neppure lontanamente paragonabile al Milione. Una ragione va cercata negli incidenti “politici” che perseguitano il suo testo. Il primo manoscritto nel 1698 finisce nelle mani di un gesuita francese, François Catrou, che censura l’autobiografia tagliando le pagine più scomode, e intercalandovi commenti contro il paganesimo induista. Manucci ne riscrive una seconda versione, affidata a un frate cappuccino perché la porti a Venezia. Questa cronistoria troppo sincera dell’India seicentesca rischia i fulmini della Chiesa; la censura veneziana ne vieta la diffusione. Il manoscritto sonnecchia per due secoli nella Biblioteca Marciana.
A riscoprirlo cent’anni fa è un funzionario coloniale del Raj britannico in India, William Irvine, biografo dell’imperatore Aurangzeb e appassionato cultore della civiltà Moghul. Irvine nel 1907 pubblica la fortunata traduzione inglese della Storia do Mogor. [...] L’Europa del Seicento e Settecento è avida di descrizioni dell’Oriente, il “viaggio in India” si afferma come un genere di successo. I filosofi dell’Illuminismo come Voltaire, critici verso il cristianesimo, sono ben disposti nei confronti dell’Oriente. Sono all’opera però tanti pregiudizi razziali e religiosi, che danno per esempio alle cronache indiane di Bernier un carattere eurocentrico.
Di questi vizi ideologici è libero il Manucci. Figlio di un droghiere, cresciuto annusando le spezie orientali nella bottega paterna, abituato a incrociare fin da bambino mercanti di ogni colore venuti a Venezia da lande esotiche, Niccolò ha una vocazione per il nomadismo, oltre che un talento speciale di intermediario fra popoli e culture diverse. Durante il viaggio da Smirne all’India impara il turco e il persiano, appena arrivato in India si applica al sanscrito e comincia a studiare gli annali dei Moghul. È il 1656, regna ancora Shah Jahan e la sua corte è cosmopolita. Lavorano al suo servizio molti europei esperti di armi e di medicina: perciò Manucci lascia credere di essere un maestro in quelle discipline. La fama di artigliere gli vale il privilegio di partecipare in prima fila ad alcune battaglie di successione, nel conflitto fratricida che oppone i successori al trono di Shah Jahan. Le sue descrizioni dell’esercito indiano in marcia sono memorabili. «Sembrava un mare che copriva la terra. Il principe Dara, al centro del suo squadrone, evocava una torre di cristallo, splendente come il sole a mezzogiorno. Attorno a lui cavalcavano squadroni di cavalieri rajput le cui armature scintillanti si vedevano da lontano, con le punte delle lance che muovendosi sprizzavano lampi di luce. Altri squadroni di cavalleria erano armati di giavellotti e preceduti da feroci elefanti in corazze di metallo brillante, con le proboscidi cariche di catene e le zanne incrostate d’oro e d’argento. Era una gran meraviglia quel corteo che passava dalle cime alle vallate come le onde di un mare in tempesta».
Quando viene convocato per la prima volta d’urgenza al capezzale di un alto dignitario malato Manucci non si fa scrupolo della propria ignoranza. «Ascoltavo solo il mio desiderio d’introdurmi nelle loro case e di scoprire i loro costumi». Spronato dalla curiosità, il veneziano è assistito da una buona memoria: da figlio di speziale ha visto preparare nella bottega veneziana erbe medicinali, estratti e pozioni curative. Nel dubbio ricorre con generosità alle due “terapie” più diffuse in Europa a quel tempo: il salasso e il clistere. La fama di guaritore conquista a Manucci un privilegio riservato a pochissimi maschi bianchi: l’accesso, sia pure regolato da limiti e precauzioni, agli harem nobiliari. Le sue testimonianze diventano una lettura prelibata per gli europei, ghiotti di informazioni sulla condizione della donna in India. Nell’Europa del Seicento imperversa la cosiddetta Querelle des Femmes, una controversia etico-filosofica sul carattere della donna: virtuosa o viziosa per indole, naturalmente casta oppure depravata e insaziabile di piacere sessuale? Le fantasie sulla femmina orientale, la curiosità morbosa eccitata dai misteri dei serragli, si innestano su quel clima. Manucci offre al voyeurismo dei suoi contemporanei nuovi dettagli inediti. «Quando applicavo il salasso alla sposa del re - scrive - ella allungava il braccio attraverso una tendina. La pelle era avvolta nella seta salvo una piccola zona lasciata nuda, vicino alla vena. Ogni mese principesse e dame si lasciavano curare da me nel modo che ho descritto». Per verificare che il medico veneziano non sia un pericolo, il sovrano lo mette alla prova. «Mi mandò in casa una superba creatura di diciott’anni, con il pretesto che aveva bisogno di cure, accompagnata da una vecchia. L’anziana si allontanò in giardino e la ragazza, rimasta sola con me, si mise a fare la libertina sia con le parole che con gli atti». Manucci subodora il tranello e caccia la giovane. [...]
Manucci distingue tra la condizione della donna musulmana - custodita gelosamente da mariti possessivi - e quella della donna indù che a volte appare provocatrice e peccatrice. È un’immagine che fa presa in Europa. Proprio mentre il veneziano vive le sue avventure alla corte dei Moghul, in Francia appare Les Voyages et Observations di François de la Boullaye le Gouz, un diario di viaggi con ricche illustrazioni, dove una donna indù è ritratta mentre fa il bagno nuda, si massaggia la pelle con l’olio, gioca con i veli per eccitare la fantasia del lettore.
È di Manucci la prima descrizione della potenza delle donne indiane di religione islamica che vivono negli harem. «I maomettani passano la maggior parte del tempo in mezzo alle loro donne. Sono queste ultime che hanno l’ultima parola sugli affari di corte. Per conto mio non l’ho mai dimenticato, e più d’una volta per i miei interessi ho fatto ricorso all’intervento di una principessa importante. Tutti gli intrighi di Stato, le guerre e le paci, le nomine di governo, sono ottenute attraverso i loro mezzi. Sono loro il vero gabinetto esecutivo del Gran Moghul. La preoccupazione primaria di ogni grande ufficiale dell’impero è di entrare nelle grazie di una signora protettrice alla corte. Una rottura con lei è la rovina». È sua la descrizione della forza militare femminile che presidia l’harem. «L’imperatore è sempre scortato dentro il serraglio da uno squadrone di virago tartare, un centinaio di donne armate di archi e frecce, pugnali e scimitarre. La signora capitana ha il rango di un alto ufficiale dell’esercito».
Manucci è uno dei primi europei a vedere di persona il costume del sati, il suicidio della vedova indù sul rogo crematorio del marito. [...] Manucci dà credito a una giustificazione del sati che diventerà popolare in Occidente: questa crudele usanza sarebbe nata all’origine come un deterrente contro la tentazione dell’uxoricidio nelle donne adulterine. Il gesuita Catrou, “editor” della prima versione delle memorie di Manucci, approva il sati e ci aggiunge il suo commento: «È un’utile lezione di fedeltà coniugale». Manucci non ne è così certo. Altrove racconta di aver salvato una vedova destinata al rogo suo malgrado, vicino ad Agra. La donna si risposa poi con un amico di Manucci, un armeno. «Quando il re tornò ad Agra dal Kashmir, i bramini si lamentarono con lui perché noi stranieri avevamo calpestato le loro tradizioni impedendo che bruciassero le vedove. Il sovrano decretò che sul territorio sotto controllo dei Moghul era vietato far morire le donne sul rogo». Rifiutato dai sovrani islamici, il terribile costume induista del sati sarà proibito in seguito anche dalle autorità britanniche del Raj.
L’autobiografia del Manucci si conclude sulla nota con cui si apre: l’amore dei viaggi. «Mi si potrà obiettare che questi piccoli aneddoti riguardano solo la mia umile persona e non presentano alcun interesse per il pubblico. Ma se qualcuno dovesse accarezzare un progetto di viaggio in queste contrade lontane, può darsi che il racconto delle mie modeste avventure non gli sia del tutto inutile… Il viaggio è un grande maestro; chi si sposta senza nulla apprendere può con buona ragione esser definito un asino».