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La poesia di Emilio Girardini

di Francesco Lamendola - 26/10/2007

  

 

 

Ci sia consentito di iniziare questa rievocazione della poesia di Emilio Girardini partendo dalla figura austera e dignitosa del vecchio poeta, ormai cieco da molti anni, così come l’ha ricordata il giornalista e scrittore udinese Renzo Valente (1916-2002), testimone acutissimo e brioso - ma con una vena di impalpabile malinconia) della vecchia vita cittadina, nel suo fortunato libro Udine, un paese col tram.

 

Suono, aspetto, mi apre uno con gli occhiali, mi scruta, lo scruto, mai visti, sta per richiudere, resisto, insisto, guardi che sono il fratello di Nino. Mi spalanca la porta e dalla cucina, percorso mezzo corridoio, mi viene incontro la signora Marianna, entra entra, ho sentito, Blasich nol te conosseva, mi precede in cucina, mi annuncia, siôr Mìlio, el xe qua el fradêl de Nino.

Era un uomo vestito di nero, con gli occhiali neri, cravatta nera, gilet nero, scarpe nere, ch’al cjâli che i côle la sinîse sui bragôns, sîgheghe anche ti, sedeva accanto a un tavolo, aveva bevuto il caffè, fumava, depose il sigaro sul portacenere, si alzò, dâme el brasso, andêmo desôra, come ti chiami?

Avevo l’età del Cormôr, dei cieli azzurri, dei prati verdi, delle piazze, delle strade, dei cortili, dei giardini, e tutt’a un tratto ero nel nero, una stanza piena di cappotti neri, di cappelli neri, di ombrelli neri, di mobili neri e con un uomo nero che vedeva con gli occhi degli altri, che leggeva con gli occhi degli altri, che camminava con gli occhi degli altri. Siedi siedi, che scuole hai fatto? Mi indicò vagamente un libro, prova a leggere, tornami a mente il dì che la battaglia, prova prova, sentiamo. Era il primo amore di Leopardi e attaccai. Che ci voleva? Una motocicletta, una mitragliatrice, ta-ta-ta. Tornami a mente il dì che la battaglia d’amor sentii la prima volta e dissi, filavo che era un piacere, ma quando fui per affrontare il successivo ahimé se questo è amor com’ei travaglia, l’uomo nero sbandierò una mano e mi fermò, alt alt, per l’amor de Dio, alt, è Leopardi non una canzonetta.

Fu il primo massacro che impunemente eseguii in quella stanza, a questo ne seguirono altri, feci a pezzi Dante, sbranai Petrarca, squartai Carducci e via via quanti di nuovi mi capitarono a tiro, non perdonai a nessuno, non risparmiai nessuno, pestai, malmenai, strapazzai e non mi vergognai, non avevo tempo da perdere se mai da guadagnare.

C’era da sentire e da metter giù sul quadernetto le poesie fresche di giornata ch’egli mi dettava e che di lì a poco sarebbero andate ad aggiungersi a quelle di Ruri, delle Liriche varie, della Vela d’Ulisse, del Chordae chordis, dei Canti della sera, delle Veglie, dei drammi biblici, delle traduzioni dal greco, dall’inglese, dal francese, e, per quanto me ne intendessi, erano fremitid’arpa, carezze di violino, lamenti di violoncello. Altro che uomo nero, accanto a me, atento siôr Emilio, che ghê casca la cenere sui bragôni, c’era un angelo bianco.

 

Emilio Girardini nasce a Udine il 28 ottobre 1858, da Felice Girardini, procuratore delle Assicurazioni Generali di Venezia, e da Luigia Peressini, che avevano altri due figli: Giuseppe, nato nel 1856, e Rosa. Il padre muore quarantenne quando Emilio ha soli sei anni e la madre chiede e ottiene, cosa inconsueta per i tempi, e nuova per quell’Istituto, di subentrare al marito nello stesso ufficio.Questo permette ai figli di completare gli studi inferiori e superiori nelle scuole cittadine; dopo di che Giuseppe  va a studiare giurisprudenza a Padova, mentre Emilio deve interrompere gli studi per aiutare la mamma nel lavoro. Continua tuttavia a studiare per conto suo, giorno e (soprattutto) notte, formandosi una cultura letteraria poderosa, che oltre al greco e al latino lo mette al passo con le lingue straniere moderne e con gli autori di diverse letterature.

Dal 1887, per vent’anni, essendosi ritirata la madre, deve provvedere da solo all’ufficio assicurativo, mentre il fratello è tutto preso dalla carriera forense e, più ancora, da quella politica (sarà deputato al Parlamento, sottosegretario e due volte ministro: delle Pensioni e delle Colonie). Eppure continua a dedicarsi alla poesia in tutti i ritagli di tempo disponibile, con passione inesausta, affaticandosi gli occhi al punto che, dal 1908, a soli cinquant’anni, inizia gradualmente a scivolare verso quella completa cecità, che Renzo Valente ha descritto nel brano sopra citato.Cerca ugualmente, lo abbiamo visto, e fino all’ultimo, di tenersi al corrente delle nuove opere e dei nuovi autori delle varie letterature, facendoseli leggere per quanto possibile; ma, a partire da quel momento, il suo legame con l’attualità comincia inevitabilmente a indebolirsi; cresce, invece, sempre più quel dialogo interiore, quell’incessante approfondimento spirituale che è testimoniato dalla profondità solitaria della sua lirica.

L’avvento della cecità, comunque, porta ben dodici anni di silenzio poetico e letterario. È solo l’invasione austro-tedesca del Friuli, nel 1918, che lo spinge e quasi lo costringe, profugo a Roma, a riprendere la collaborazione con alcuni saggi a riviste letterarie, per necessità economica. Intanto studia e traduce Eschilo, Sofocle, Euripide, Demostene e l’Odissea; e, fra i moderni, Materlinck, Tennyson e Wordsworth. Scrive dei saggi su Carducci e D’Annunzio; e, dal 1903, inizia a pubblicare dei versi. Non è un poeta precoce, dunque; ha quarantacinque anni quando esordisce con la raccolta di quaranta liriche, sotto il titolo un po’ georgico di Ruri; liriche malinconiche, sognanti, un po’ nell’atmosfera di Myricae di Giovanni Pascoli, che erano uscite, destando sensazione, nel 1891. Colpito da una serie di lutti (la madre nel 1905; la sorella Rosa nel 1921; il fratello Giuseppe nel 1923), completamente cieco dal 1924, pubblica, dopo Ruri, una serie di raccolte poetiche che descrivono un itinerario letterario e spirituale personalissimo e fra i più interessanti della poesia italiana di quegli anni: Liriche varie e Vela di Ulisse nel 1908, presso gli editori Baldini e Castoldi di Milano; Chordae cordis nel 1920, con l’editore Treves di Milano, come il primo libro; I canti della sera nel 1928-31, con l’editore Zanichelli di Bologna; e infine Veglie nel 1935, con l’editore A. Messein di Parigi. Tutta la produzione poetica di Emilio Girardini è stata poi riunita dall’editore Zanichelli nell’elegante volume postumo del 1952, che comprende anche una ventina di liriche non incluse nelle precedenti raccolte e una dozzina di traduzioni da Wordsworth.

Un poeta pensoso, raccolto, tutt’altro che sovrabbondante: tra la prima e la seconda e terza silloge passano cinque anni; tra la terza e la quarta, dodici anni; tra la quarta e la quinta, otto anni; e tra questa e l’ultima, altri sette anni. Lunghe pause di silenzio, dunque, interrotte da brevi ma intense voci interiori, in un mondo fatto di oscurità e del silenzio assordante delle persone care perdute. Come drammaturgo, Girardini aveva pubblicato tre Drammi biblici: Jefte, Rut, il Re sapiente, presso l’editore Cappelli di Bologna, nel 1929.

A metà degli anni Venti, Girardini deve lasciare la direzione dell’agenzia delle Assicurazioni Generali a causa della sopravvenuta cecità, ma viene nominato consigliere con uno stipendio che gli assicura la tranquillità economica e lo mette in grado di dedicarsi a tempo pieno (ora che non vede più e che i suoi cari son partiti per sempre) all’amata letteratura. Come critico e come conferenziere si occupa, oltre che degli autori già ricordati, di Ciro di Pers, Pietro Zorutti, Teobaldo Ciconi, Giuseppe Ellero, tra i friulani; di PetrarcA, Foscolo, Nievo, Pirandello, fra gli italiani; di Walther von der Vogelweide, fra i tedeschi. Si spegne il 7 novembre 1946, all’età di 88 anni.

 

Quali sono gli elementi caratteristici della poesia di Emilio Girardini?

Cominciamo col dire che essa, pur traverso un lungo arco di anni, presenta indubbi caratteri di compattezza e di unità. Qualcuno ha detto che uno scrittore lavora sempre ad un unico libro, anche se ne scrive molti: e questo è certamente vero per il Nostro. Ciò non significa che nella sua produzione poetica manchi il fattore della evoluzione: tra Ruri e Veglie un’evoluzione si nota, certamente. Il verso si fa più denso, più pensoso, più stanco, anche, in un certo senso: della stanchezza di un’anima che anela alla pace; che, nel vuoto penoso fattoglisi intorno, non cerca altro che il riposo della terra e, forse (Girardini era profondamente credente, anche se sentiva con drammaticità il mistero dell’esistenza) il ricongiungimento con le persone care defunte. Tuttavia non si può dire che tale evoluzione alteri sensibilmente il quadro d’insieme della sua poesia, né per quanto riguarda lo stile, il ritmo, la musicalità, né per quanto riguarda i contenuti, l’atmosfera, il suo atteggiamento stesso nei confronti della vita. In lui l’elemento della continuità prevale su quello della evoluzione: è come un terreno che assorbe la pioggia ed il sole; come una pianta che assimila i diversi elementi del terreno, li elabora e li fa suoi.

La metafora di tipo agricolo ci induce a entrare subito nel vivo della sua poetica e a cercar di rispondere alla domanda che ci eravamo posta: qual è, o quali sono, gli elementi specifici e caratterizzanti della sua poesia?  Stando alla materia trattata in larga parte delle sue liriche, la risposta – in prima battuta – non può essere dubbia: Emilio Girardini è il poeta della campagna, della sua campagna; dei fiori, degli alberi, dei campi lavorati; delle albe, dei meriggi, dei tramonti, delle sere; dei candidi paesaggi invernali e di quelli estivi brulicanti di vita e ardenti di luce; delle nebbie malinconiche e dei camini fumanti, ma anche delle voci multiformi degli uccelli, dei grilli, delle cicale; delle vaste campagne boscose e dei camini scoppiettanti nell’intimità dolcissima della casa. Insomma un poeta agreste; un poeta pre-industriale, in tutti i sensi: donde quel non so che d’antico, di bonariamente patriarcale, ma anche di signorile e, nel senso migliore della parola, di aristocratico, nella sua poesia così come nella sua vita e nella sua figura stessa. Eppure non un poeta di genere, non un macchiaiolo, non un abile ma monotono artigiano di scenette bucoliche; e se poesia bucolica è la sua, lo è nel senso delle pensose Bucoliche di Virgilio, tutt’altro che indifferenti ai drammi della storia; o meglio ancora nel senso delle Myricae del Pascoli, che tutto sono tranne che Arcadia spensierata, bensì poesia del presentimento, dell’inquietudine, del mistero incombente e incomprensibile.

La sua è poesia dei ritmi lenti, delle lunghe pause, dei silenzi assaporati in tutta la loro preziosa significanza; di chi non concepisce la vita con l’orologio in mano, tutto preso dai valori produttivi, esteriori, alienanti: di chi sa fermarsi ed ascoltare. Si dirà cher tutti i poeti posseggono questo dono; non è vero: o meglio, una buona parte di quella che viene considerata la poesia del Novecento (come se la categoria della modernità potesse, anche qui, sovrapporsi alla categoria della poeticità) è grido, lamento, imprecazione, oppure scherzo, risata, sberleffo; oppure ancora gioco di parole, non-senso, provocazione: ma non è cosa che nasca dal saper ascoltare; anzi: è volontà furiosa di coprire, cancellare, distruggere il silenzio, di coprirlo sotto una valanga di parole, di seppellirlo per sempre.

Non così la poesia di Emilio Girardini: la sua è poesia che sa ascoltare le voci della natura, le stagioni, le pene di chi soffre, lo smarrimento degli umili, l’ansia e la fatica di chi porta con umiltà la sua croce quotidiana, in un dignitoso e schivo eroismo che ricorda le migliori pagine del Verga. È poesia lenta e misurata di chi cerca un senso al mistero delle cose, al mistero della morte; poesia religiosa di chi vede ovunque la presenza del sacro, categoria tanto ridicolizzata ed estromessa dalla boriosa “modernità”; di chi legge i segni della sacralità delle cose proprio nel loro farsi irriducibili ad ogni discorso presuntuosamente razionalizzante, ad ogni pretesa di capire e definire solo perché le cose, le persone, i sentimenti posseggono anche una dimensione esteriore ed esperibile mediante i sensi.

Per Emilio Girardini tutte le cose – tutte, anche le più umili – hanno la loro dimensione sovrasensibile, la loro storia sacra da raccontare: ed egli si ferma stupito e compreso, le ascolta - si badi: non le interroga, perché non si pone davanti ad esse come un superiore: le sta ad ascoltare, come si fa con il fratello o la sorella; ed esse gli parlano. A lui sì, hanno tante cose da dire: a lui che non ha fretta, a lui che non è arrogante, a lui che non pretende di capirle e tanto meno di giudicarle.

Poeta degli umili, abbiamo detto; eppure avevamo anche detto che in lui vi è un tratto aristocratico. Come possono andare d’accordo le due affermazioni? Possono benissimo, perché il suo è un aristocraticismo che nasce dal rifiuto delle facili mode, delle emozioni sbandierate, delle leggi dei grandi numeri: da una sensibilità squisita e non da una presunzione di superiorità nei confronti dell’altro. Nemmeno davanti a un umile fiore di campo, egli si sente superiore; figuriamocio davanti al mistero di un essere umano. In questo, la sua fede religiosa svolge certo una parte, anche se non tutta: il copione non è già scritto; si può essere formalmente religiosi, eppure presuntuosi e arroganti. La sua, comunque, è fede autentica, anche se venata di pessimismo (niente di strano in ciò: come  lo è, quanto alla dimensione umana, quella di Manzoni). La sua fede, dicevamo, contribuisce certo a quel suo accostarsi con rispetto, con pudore, quasi con timidezza (nel senso più bello della parola: perché c’è, una bellezza nell’esser timidi, eccome) al mistero delle cose, e specialmente delle piccole cose, delle persone semplici.

C’è una fotografia commovente, a questo proposito, che ben chiarisce il concetto. La città di Udine ha voluto onorare il suo poeta con una statua in bronzo, opera dello scultore M. Piccini, che è stata collocata in Largo Ospedale Vecchio, in un angoletto tranquillo e appartato, con un po’ di verde, a destra dell’ingresso della veneranda Chiesa di S. Francesco. Girardini è rappresentato già cieco ed anziano, con il cappotto, gli occhiali neri e il bastone, mentre cammina con passo lento e misurato: tutta la sua figura esprime solitudine e contenuta sofferenza, eppure dignità e pudore dei propri sentimenti. La foto di cui parliamo, inserita nel volume di Renzo Valente Udine 16 millimetri, mostra una anziana contadina, tutta vestita di scuro, come usavano fino a qualche anno fa le donne di campagna, chinarsi a deporre un mazzolino di fiori sul pedistallo alla base della statua di Emilio Girardini, con uno di quei gesti di delicatezza schiva e quasi ritrosa di cui è capace l’anima friulana. È una scena simbolica: gli umili avevano capito che il poeta parlava di loro, parlava con loro; che quel vecchio signore cieco dall’aria aristocratica e un po’ fuori moda era un loro fratello in ispirito; e glie ne erano grati.

Per meglio definire, in seconda battuta, le componenti specifiche della poesia di Girardini, possiamo dunque così riassumerle: una componente di derivazione carducciana: non il Carducci vate della Patria e un po’ trombone, ma quello schietto e campagnolo di San Martino e anche quello virilmente “rurale” de Il Comune rustico; una componente pascoliana, il Pascoli di Myricae e dei Canti di Castelvecchio, soffuso di un senso d’inquietudine e di misteriosi presentimenti che filtrano traverso le smagliature di un mondo agreste apparentemente semplice e familiare; e infine, ma non ultima per importanza, una componente identitaria friulana. Essa reca un odore di quella  terra, di quelle montagne, di quei colori e profumi e sapori che  fanno di Girardini, comunque, il cantore della sua terra, una terra che presenta caratteri definiti e particolari che non sono gli stessi della Maremma di Carducci e neanche della Romagna di Pascoli, ma che solo diviene chiara e comprensibile in tutte le sue sfumature  lassù, ai piedi delle Alpi, là dove il Friuli arriva a toccare due altre culture transalpine, la tedesca e la slava.

È merito di Silvio Benco, autore di una illuminante prefazione alle Poesie scelte pubblicate nel 1938 a cura de “La Panarie” di Udine, avere evidenziato la presenza decisiva di questo elemento, che fa di Girardini qualcosa di diverso da un semplice carducciano o da un semplice pascoliano, bensì un poeta originale, con una sua personalità irriducibile a qualunque schema e a qualunque modello (e un discorso analogo si potrebbe fare per un altro grande poeta friulano, Ciro di Pers, che la storiografia letteraria classifica fra i marinisti ma che è stato qualcosa di diverso da un semplice imitatore della corrente marinista, almeno nelle sue cose migliori e più sentite). Cediamo perciò la parola al Benco, che parlando di Ruri, ma con l’occhioo rivolto anche alla produzione poetica successiva di Emilio Girardini, scriveva:

 

“Figlio del Friuli, egli era naturalmente poeta della vita agreste; formatosi nell’età carducciana, gli veniva di là la linea nitida,l’amore della parola propria e del reciso contorno; lo distingueva, nelle impressioni campestri, il chiaroscurare un po’ tagliente che hanno in comune quasi tutti i poeti dell’Italia settentrionale prealpina, e che il Carducci stesso assume quando sente atmosfere d’Alpi circostanti o vicine; in cotesti elementi fondamentali precipitava, pur cautamente assimilato, l’influsso di una apparizione nuova e sconvolgente di cui l’Italia era ancora in quei giorni tutta commossa: l’apparizione del Pascoli.

“Per il Girardini fu il Pascoli un grande avvenimento; e recentemente, nei tardi suoi anni, egli ripeteva in un libretto critico la sua fedeltà al Poeta che, penetrato a un tratto nel suo sentimento più intimo, gli aveva chiarito tanti arcani dell’animazione delle cose, dell’approfondirsi di esse  nell’anima anche quando di soprassalto si affacciano ai sensi.Pure il Girardini non è un pascoliano come non è un carducciano; benchè il Carducci delle Rime nuove abbia lasciato impronta in lui, e benchè, per molti anni, il fascino del Pascoli e la conscia e inconscia assimilazione di suoi modi si manifestino frequenti nelle sue rappresentazioni poetiche, egli è tuttavia essenzialmente un poeta del Friuli e del settentrione d’Italia. La sua nota individuale si colora e si definisce qui. I poeti e artisti dell’Italia settentrionale prealpina, se non siano di quei pedissequi di ogni moda che prendono a prestito fisionomie e poi non lasciano traccia che si discerna, vivono tutti in un loro clima, subiscono una loro educazione sensitiva dal mondo fisico che li circonda, hanno la psicologia della loro gente, che non è gente del mezzogiorno. Essi sono molto più vicini degli altri italiani al mondo nordico. Potrete trovare tratti di somiglianza, arie di famiglia, tra poeti piemontesi, ticinesi, veneto-tridentini e veneto-fiulani, molto più facilmente che non tra questi e gli ingegni d’altre parti d’Italia più peninsulari, più alitate dall’aura mediterranea. E non si può pensare il Girardini senza aver presente il Friuli, e quanto esso sia vicino alle Alpi, e ne senta i profili d’ombra autunnale, ne riceva il morso invernale del vento, e anche dagli spacchi profondi delle valli, dalle imminenti alte montagne, qualche inquietudine e qualche chiuso raccoglimento dell’anima nordica.

“Tutto ciò è già adombrato nel primo libro di versi. Benchè costrutto in gran parte di agili quadretti, e prevalenti in essi la precisione lineare, la cura del definire con vocaboli scelti e limpidi, vi accorgerete già che son poesia di uno spirito meditativo. Ma ne avrete la sensazione intera quando l’arte del Girardini, fusa e approfondita, si sarà nel volgere lento degli anni, meglio impregnata della sua particolare interiorità.”

 

Insomma: non si può capire questa poesia se non si conosce, e si ama, la terra che in quella poesia trova la sua sorgente perenne e il suo clima spirituale. C’è, nelle liriche di Girardini, quella freschezza e quel contatto interiore e spirituale   con la natura, con le sue luci e ombre che già nel 1300 Giovanni Boccaccio aveva intuìto nell’introduzione a una famosa e poeticissima novella del Decamerone (Giornata Decima, Novella Quinta), con queste parole che sembrano conservare il sapore di una ballata nordica: “In Frioli, paese, quantunque freddo, lieto di belle montagne, di più fiumi e di chiare fontane, è una terra chiamata Udine, nella quale fu già una bella e nobile donna, chiamata madonna Dianora…”.

Ma è tempo di dare uno sguardo più da vicino alla poesia di Emilio Girardini, prendendo in mano alcune sue liriche. Ecco quella di apertura della prima raccolta:

 

DOLCE LA CASA

 

Neva su l’Alpe e quaggiù piove e sventa

E tu confitta in casa stai soletta;

ad ora  ad ora vigile la lenta

fiamma ravvivi di una fascinetta;

dài l’esca al cardellin che si lamenta

e de la fronda ancor sogna la vetta:

il nembo le campagne e i tetti insulta,

sol l’anitrella dentro l’acque esulta.

 

È un quadretto che ha tutta la purezza e la semplicità di un acquarello, senza però la leziosità arcadica né il finto primitivismo allora di gran moda (si pensi solo alle Novelle della Pescara di Gabriele D’Annunzio); semplicità che non è semplicismo ma senso della misura, armonia di ritmi e di timbro, pacatezza e levigatezza del verso.

Questi caratteri sono presenti anche nella seonda lirica di Ruri, intitolata Tappa, dalle evidenti reminiscenze leopardiane da La quiete dopo la tempesta:

 

TAPPA

 

Coi suoi sonagli tinnuli la posta

ridesta il borgo quando a sera arriva,

e chi vi scende sol per breve sosta,

d’una fiammata a l’osteria s’avviva.

 

Vede dai vetri stendersi nel piano

maggior l’ombra del poggio, ode la rama

fremere al vento e squille da lontano.

 

E, mentre con segreta intima brama

di quiete s’arrende a un sogno vano,

schioccando a un tratto il postiglione chiama.

 

Reminiscenze leopardiane, dicevamo (“e, dalla via corrente, odi lontano/ tintinniodi sonagli; il carro stride / del passegger che il suo cammin ripiglia”); ma anche virgiliane, specie in quel “Vede dai vetri stendersi nel piano / maggior l’ombra de poggio” dei versi 5-6, che richiama la prima ecloga delle Bucoliche, verso 83: “maioresque cadunt altis de montibus umbrae”. E proprio come nel caso di Leopardi e in quello di Virgilio, il prodigio poetico sta proprio in questa perfetta naturalezza del verso, in questa armonia semplice di ritmo, in questa scorrevolezza senza increspature che corre alla foce come un fiume sicuro e tranquillo.

Nel notturno che ora presentiamo, Girardini sa creare, in un sapiente crescendo che culmina nell’ultima strofa, un’atmosfera arcana e misteriosa, come sospesa in ascolto di qualcosa dopo il latrare di quel cane nel buio, qualcosa che deve accadere anche  se niente, nel testo, lo dice o lo lascia esplicitamente supporre:

 

NOTTE

 

Notte scura di pioggia; per cammino

male trovarsi; il vento

su l’uscio come stanco pellegrino

brontola un suo lamento.

 

E nel villaggio piccolo, sommerso

ne le tenebre fonde,

sui pergoli di legno qualche sperso

lumin passa e si asconde.

 

Ma per la via maestra, con l’acceso

fanal di sotto, un carro

stridulo avanza, e il carrettier disteso

si avvolge nel tabarro.

 

La via, ch’al grave peso si riscuote,

trema; da un casolare,

sinché il rumor si estingue de le ruote,

un cane odi latrare.

 

Qui Girardini, sempre servendosi della rima (cosa che i modernisti a tutti i costi vollero rimproverargli, quasi che nel Novecento non fosse più lecito fare vera poesia in rima), e della rima più semplice: AB, AB, CD, CD, ecc., sa creare un’atmosfera modernissima di indefinita inquietudine, che non è nelle cose dette ma piuttosto in quelle non dette, come se la parola potesse solo vagamente alludervi di lontano. E tutto questo è veramente moderno: con o senza la rima, e con buona pace di quei modernisti che scambiano la forma per la sostanza..

Straordinaria capacità d’immergersi nei ritmi della natura, e al tempo stesso di dedurne atmosfere e stati d’animo, rivela la successiva poesia Prima neve:

 

PRIMA NEVE

 

Ne la rigida siepe anche l’occulto

dei grilli esiguo gemito si spense,

né più di rosse bacche a laute mense

vi si affollano i passeri in tumulto.

 

Con la fascina vien la femminetta

Ed un pastor sotto la nube greve

Le sue tosate pecorelle affretta.

 

Cigola in alto al vento su la pieve

La banderuola; e chi si incontra, in fretta,

l’uno a l’altro ripete: - Neve, neve. –

 

Le reminiscenze leopardiane, ancora una volta, si intrecciano a suggestiani carducciane e pascoliane; ma la sintesi, originalissima, non è una pura somma di tali elementi esteriori; la poesia vive di vita propria; e, ancora una volta, è la chiusa la parte più efficace, in quel frettoloso incontrarsi dei campagnoli sotto le raffiche del vento, che si affrettano a casa con gli animali e che si confermano a vicenda l’arrivo imminente della nevicata.

Nella poesia Dorme la villa, sempre caratterizzata da una estrema musicalità e scioltezza del verso, oltre agli elementi suddetti è evidente la presenza di un climax tipicamente simbolista: in quel bagliore spettrale del lampo notturno, ma più ancora in quel lume,in quell’ombra dietro la vetriera che ha il fremito surreale di un quadro di Paul Delvaux:

 

DORME LA VILLA

 

Brontola lungi il tuono a la marina;

e su la villa, in grave oblio sepolta,

uscendo e scomparendo a volta a volta

la luna tra le nuvole cammina.

 

Lampeggia a monte e il tuono s’avvicina;

e una lucerna accesa entro la volta

de l’anconetta, ne la notte folta

getta un bagliore appiè de la collina.

 

Ma c’è lassù ne la casetta nera

chi d’un suo caro vigila il ritorno:

un lume, un’ombra dietro una vetriera.

 

Torna remoto il tuono e spazza intorno

le nuvole la brezza acre e leggera;

laggiù lustreggia l’orizzionte: giorno.

 

Dicevamo che la poesia di Emilio Girardini è poesia delle piccole, semplici cose, pascolianamente di “umili tamerici”; delle quali, però, sa cogliere tutto il fascino e tutto il mistero. Come in questa deliziosa Finestrella.

 

FINESTRELLA

 

O nera finestrella di gerani

e di rossi garofani fiorita,

che a la fanciulla povera e polita

ridono mentre l’ago ha tra le mani,

 

vedi? La luna pende sul cortile,

sfavilla il cielo e palpita ogni stella,

stende l’ombra in piazzetta il campanile;

 

odi? La gaia giovenù stornella

per la villa splendente, e tu, gentile

e pudica, stai chiusa, o finestrella.

 

Questo testo è caratterizzato da un clima sognante, quasi fuori del tempo; mentre per le altre poesie viste finora si può parlare di un realismo girardiniano: che non è, ovviamente, realismo oggettivistico ma sempre lirico e interiorizzato e sempre suggerisce quel qualcosa che si cela dietro la reraltà esteriore. Qui, invece, nonostante le notazioni realistiche (i gerani, la ragazza che cuce, l’ombra del campanile sulla piazza) la piccola finestra chiusa riflette il carattere della protagonista, “gentile e pudica”, che non si mescola agli schiamazzi dei coetanei (una reminiscenza de Il passero solitario?). Ma non vi è tristezza, bensì appena una dolce malinconia in questo quadro che sovrappone l’immagine materiale della finestrella a quella simbolica della ragazza povera, ma linda e laboriosa; e il vasto cielo stellato pare stenda un manto di complice bellezza su quello splendore nascosto.

Passando a Cortile alla sera (che fa da pendant a Cortile alla mattina, che per brevità omettiamo), si noti come Girardini sa vedere e far vedere al lettore il mondo degli animali, dei miti e semplici animali del buon Dio (direbbe Saba) che popolano l’aia di una casa di campagna:

 

CORTILE ALLA SERA

 

Galline, il giorno a l’ora bruna cede

e su i gradini de la cieca stanza

pigre indugiate, dove, in sua possanza,

fastoso il gallo a passi lenti incede.

 

Schivi non son di posa come voi,

ma, or or dai campi reduci, a le stalle

muggono con desio, fumidi, i buoi.

 

Torna la rondinella da la valle

Nel portico al suo nido, ai tetti suoi

Torna il villano carico le spalle.

 

Certo, anche qui si notano rerminiscenze leopardiane (da Il sabato del villaggio), in quel tornare di uomini e animali alle case, dopo una giornata faticosa; ma il tono generale è del tutto originale. Splendido quel gallo che fastoso a passi lenti incede (e che fa venire alla mente il celebre quadro di Picasso); par veramente uscire dalla stalla quel muggito commovente dei buoi, rientrati dal lavoro quotidiano; e par di vedere la rondine che solca veloce il cielo primaverile e si posa nel nido sotto il portico, nell’aria che ormai imbrunisce.

Lasciando adesso Ruri e passando alle Liriche varie, l’ambiente da campestre si fa cittadino; pure, in quei due pini che s’agitano al vento, in quel profumo d’erba che viene da un prato o da un giardino vicino, il poeta ritrova intatto l’incanto della natura, il fresco abbraccio della terra amica che giunge di lontano, fin sulle finestre di casa:

 

SOTTO LE MIE FINESTRE

 

C’è una stradetta sotto le finestre

de la mia stanza, con due pini soli

ritti davanti, cara a gli usignoli,

satura di fragrante erba silvestre.

 

E quando brucian le strade maestre

bianche, riarse da gli estivi soli,

questa stradetta fervida di voli

cortese m’è di fresco alito alpestre.

 

E se m’attrista il vento di ponente

che pingui incontro i nuvoli mi caccia

a le finestre ritorcendo i pini,

 

parmi che niuno tra l’umana gente

mi stenda ne l’avversa ora le braccia,

come fanno i miei due foschi vicini.

 

La natura, adesso, non è più vista e vissuta direttamente, nel mezzo del suo grembo; è immaginata, lontano da essa, grazie al miracolo di due alberelli, del canto degli usignoli e del profumo d’erba fresca. Quindi non abbiamo più una poesia delle cose, ma dei ricordi; eppure, le cose ricordate rivivono all’istante per la magia di un suono o di un odore: ed è lo stesso intatto mondo agreste, percepito in tutta la sua pregnanza, pur in una stanza di città.

Passando al poema La vela d’Ulisse, abbiamo scelto alcuni versi che descrivono il risveglio dell’eroe greco sull’isola dei Feaci, nell’imminente incontro con Nausica (parte VIII), anche perché vi aleggia un senso freschissimo e incontaminato della natura, come se fosse il primo giorno dalla creazione del mondo, che si ricollega alle migliori poesie agresti delle due prime raccolte:

 

Quando fu desto, sul mattino, ancora

l’imagin ritenea d’una fanciulla

sognata a l’alba e sciolta con l’aurora.

 

Tra le fronde leggera ala non frulla,

foglia non crolla inavvertita al senso

che in rimembranze tenere lo culla.

 

Lo ripossiede un desiderio intenso

di vivere e la fede ergesi e brilla;

gli rifluisce il sangue ora riaccenso.

 

Solitudine intorno: non di villa

un’eco avverte la sua tesa orecchia,

non umano vestigio la pupilla.

 

Ma in suo ronzio sollecita la pecchia,

e il ragno industre tacito a la tela,

che de l’uom la sudata opra rispecchia,

 

il mare non solcato da una vela

che si dirompe contro le scogliere,

e tra scopeti il fiume che trapela,

 

e dei tordi le note mattiniere

nei piniferi chiostri e sugli ornelli

quelle del merlo e de le capinere,

 

ma più l’altre che tu triti e martelli

là, tra cespugli, musico usignolo,

fanno che aneli a gli uomini fratelli

 

che nel deserto non si trovi solo

e che per poco ne le care assorto

memorie d’altri dì, mitighi il duolo.

 

- Ora in Itaca mia fendono l’orto

le rondini novelle e il melograno

co’ suoi ciuffi di porpora è risorto. (…)

 

Mare, cielo, bosco; vasti orizzonti chiari, profondi silenzi; il canto degli uccelletti fra le fronde; e una rinata voglia di vivere, a dispetto del corruccio di Poseidone, a dispetto di tutto; e, mescolato a quell’ardente desiderio, un susseguirsi di nostalgie e di ricordi, come un cielo  in parte nuvoloso che intercetti, di tratto in tratto, la corsa vittoriosa del sole.E ancora quel verso sciolto, leggero, quel senso aereo di superiore compostezza e di superiore comprensione; pare la traduzione dell’Odissea di Ettore Romagnoli, e al tempo stesso richiama la versione virgiliana di Guido Vitali.

Ed eccoci a Chordae cordis, l’opera forse più conosciuta di Girardini; di essa scegliamo una lirica tra le più pascoliane, che sembra uscire dall’orizzonte poetico delle Myricae, palpitante di comunione con la natura e di consapevolezza del mistero che sta dietro la facciata delle cose.

 

NEL MISTERO

 

Sto come la quercia che nerara

rabbrivida, là, ne la notte

di sotto le nuvole  rotte

che addietro lasciò la bufera.

 

Si volge la quercia a guardare

dal clivo nel cupo orizzonte

se scorga una vela sul mare,

se scopra una stella sul monte

 

a un muto bagliore di lampi

che insiste e si stende dai poli

a fendere il buio dei campi

con rapidi, lucidi svoli.

 

Sto come la quercia che pare,

guardando, così, nel mistero,

d’un moto di gioia leggero,

d’un senso di attesa, tremare.

 

Ancora un paesaggio spalancato su vasti orizzonti, che si dilata superbamente dai monti fino al mare; ancora una natura incontaminata dalla presenza umana, e perciò come fuori del tempo; ancora uno spettacolo di nubi squarciate dopo il temporale, che ricorda un bellissimo verso di Claudiano: “… cum tramite flexo / semita discretis interviret umida nimbis”: “con linea incurvata / un umido sentiero verdeggia tra le spezzate nubi”: De raptu Proserpinae, II, 99-100); ancora bagliori di lampi notturni.

Nevicata è un’altra poesia di Chordae cordis che si può utilmente confrontare con Prima neve di Ruri, per valutare l’ampiezza dell’evoluzione girardiniana negli anni fra il 1903 e il 1920. Al paesaggio esteriore innevato, risponde ora un paesaggio interiore altrettanto desolato, percorso dal volo di qualche corvo nero (verso 16). Non vi è tuttavia, a nostro giudizio, una differenza intima di sostanza: si potrebbe dire invece che quanto era implicito nella prima raccolta, ora si fa esplicito; ma il paesaggio, in Girardini, è sempre contemporaneamente fisico e spirituale. E questo avviene perché la natura, per lui, non è mai un elemento puramente decorativo; sia quando balena sullo sfondo, sia quando è – come il più delle volte – al centro della poesia, essa è da un lato il riflesso dei moti dell’animo, dall’altro la loro origine ed ispirazione. Causa ed effetto al tempo stesso, la compenetrazione fra natura e spirito, tra fenomeno e noumeno (se ci si passa l’espressione kantiana), tra ciò che appare e ciò che è, risulta totale.

 

NEVICATA

 

Il paesaggio interminato stanca:

una pianura immersa ne la neve

con un mulino a vento e un’erma pieve

ne la monotonia de l’aria bianca.

 

Nevica ancora e mandano singhiozzi

soffocati nel cuore i miei ricordi;

somigliano, o campana, ai suoni sordi

che tu, di neve rivestita, strozzi.

 

In una solitudine lontana

e, come questa, senza tracce, danno

i ricordi nel cuor, cinto di panno,

spenti rintocchi, come i tuoi, campana.

 

E veggono passar qualche pensiero

triste, essi pure, come la pianura,

tutta bianca d’un bianco che spaura,

vede passare qualche corvo nero.

 

Lo schema del metro (con le rime ABBA, CDDC, ecc.) contribuisce al ritmo quasi di ballata nordica, accentuato dall’immagine (rara nella campagna italiana, e anche in quella friulana) del mulino a vento; ma la dimensione lirica culmina nella similitudine tra il suono delle campane ovattato dall’aria di neve, e i dolenti ricordi ovattati dallo scorrer del tempo.

Una similitudine altrettanto esplicita si trova nella poesia Vecchio pozzo (chissà se Eugenio Montale l’ha avuta presente nella sua Cigola la carrucola nel pozzo che fa parte di Ossi di seppia, raccolta apparsa nel 1925), ove il malinconico scivolare del tempo su cose e generazioni è velato da gentili immagini della vita lieta trascorsa per sempre:

 

VECCHIO POZZO

 

Non senti più su le tue rughe vecchie

e levigate scorrere le funi,

né mandi, o pozzo, al tonfo de le secchie

voci remote dai tuoi fondi bruni.

 

Ma in te l’arido cuore si disseta

di biblica quiete; e da te emana,

e nel cuore trasfondesi segreta,

la carità de la samaritana.

 

Ma forse perché, schiva del presente,

ricerca nel passato un suo rifugio

che a sé finge beato, la mia mente,

forse per questo presso te m’indugio.

 

Certo al cospetto tuo, rustico pozzo,

giova almeno sognare che non era

triste la vita al popolo tuo rozzo

che intorno a te si raccoglieva a sera.

 

Si raccogliea a quest’ora, a capannelli,

e, come un coro di boschive ninfe,

le giovani, alternando i fianchi isnelli,

attingevano a gara le tue linfe.

 

Ronda il nottolo solo ora a l’intorno

Col suo trapunto funebre velluto,

mentre la squilla piange un altro giorno

ne l’abisso dei secoli caduto.

 

Come spesso in Girardini, gli ultimi due versi accentuano la dimensione drammatica, che ricorda un poco il tempo edace, cioè divoratore di uomini e cose, della famosa poesia Orologio da rote di Ciro di Pers; mentre la squilla che piange un altro giorno caduto è una voluta reminiscenza dantesca (Purgatorio, VIII, 1-6):

 

Era già l’ora che volge il disio

ai navicanti e ‘ntenerisce il core

lo dì c’han detto ai dolci amici addio;;

e che lo novo peregrin d’amor

punge, s’e’ ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si more…

 

Una delle liriche più suggestive de I canti della sera,del 1928-31, è questo Ritorno, che, pur essendo fra le più lunghe del poeta, ci sembra giusto presentare integralmente. Se, infatti, bellissime sono le strofe iniziali, con quel gruppetto di quattro superstiti che tornano, nel triste vento d’autunno frusciante di foglie secche, dal funerale del loro congiunto (il fratello del poeta, Giuseppe, morto, come s’è detto, nel 1923), come fossero nessuno, cioè annientati, nullificati dal dolore,  tutta la lirica riceve luce e significato dalla scena finale: quando la vecchia donna di servizio rompe lo spettrale silenzio col suo Gloria in excelsis deo, che spezza l’incantesimo maligno e rende un barlume di speranza, pur tra i singhiozzi, alla piccola mesta comitiva.

 

RITORNO

 

Triste ritornoil nostro a la città                                  

nei dì che mulinavano le foglie                                  

secche, dal vento spinte su le soglie                             

che