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Non si può intuire direttamente l'oggetto, ma solo ri-crearlo internamente

di Francesco Lamendola - 28/10/2007

 

 

Che cosa possiamo conoscere dell'oggetto, al di là della sua mera superficie? Possiamo intuirne direttamente l'essenza, il noumeno, oppure essa resta inesorabilmente negata al nostro sforzo conoscitivo? Kant era convinto che così fosse; Leibniz, addirittura, parlava di ciascun ente come di una monade senza porte e senza finestre; e Berkeley, sulla scia di Platone, riteneva che gli altri enti esistono, per me, nella misura in cui ne faccio esperienza sensoriale, e non oltre (esse est percipi: essere è l'essere percepito).

Ma facciamo un esempio concreto: quando io dico: tu, rivolgendomi a un altro ente, che cosa so, effettivamente, di lui, oltre al nome che gli applico (di persona, di animale, di pianta, di minerale, ecc.) e che per lui, o per esso, non ha alcun significato, dato che è frutto di una convenzione estrinseca e non attiene alla sfera profonda del suo essere? Qualcuno sostiene che, mediante l'empatia, è possibile effettivamente penetrare oltre la scorza opaca che avvolge gli enti ed entrare in sintonia con la loro essenza profonda: una specie di riduzione eidetica (avrebbe detto Husserl) basata però, in questo caso, sull'affettività. Dopo aver eliminato tutto quello che quell'ente non è, tutto quello che è accidentale, tutto quello che gli fa da semplice sfondo, si potrebbe così entrare almeno in parte nella sfera del suo essere intimo, della sua essenza. Forse è così; ma, prima di lasciarsi andare a un ingiustificato ottimismo, bisogna riflettere che l'empatia può trasformarsi in antipatia, e che una conoscenza" basata su fattori emozionali e affettivi può facilmente rovesciarsi nel suo contrario. E allora quale delle due possibilità è quella vera: si conoscono le cose quando le si ama e si entra in sintonia immediata con esse, oppure quando le si odia e si prova per esse un sentimento di profonda avversione?  Potrebbero essere false entrambe, e non offrire - né l'una né l'altra - un approccio oggettivo alla conoscenza dell'altro, ma soltanto una deformazione soggettivistica di esso: di segno positivo o di segno negativo, questo - dal punto di vista gnoseologico - fa poca importanza.

Ma allora, se né la ragione, né i sensi, né l'affettività ci garantiscono un approccio "realistico" all'oggetto, vuol dire che siamo condannati a vivere in una dimensione eternamente solipsistica, ove il mondo intero finisce per ridursi entro i limitati orizzonti della mia mente individuale?

Per tentar di uscire da questo apparente vicolo cieco, partiamo da alcune considerazioni svolte da Umberto Fontana in un saggio dedicato al processo di simbolizzazione, scegliendo un passaggio particolarmente dedicato al filosofo Ernst Cassirer (U. Fontana, La simbolica e le strutture dell'immaginario. Nozioni introduttive al processo di simbolizzazione, in Rivista di scienze della formazione e ricerca educativa, Venezia-Mestre, n. 3, 2006, p. 98):

 

"Le catene di simboli seguono passo passo la storia e la crescita dell'umanità, ma nell'individuo singolo seguono le tappe della crescita personale. I simboli rispondono ad un bisogno che l'uomo ha di 'integrare in un senso' ogni oggetto con il quale egli viene a contatto. L'espressione di 'integrare in un senso' è del filosofo Cassirer, e il senso in cui un oggetto viene integrato nella coscienza individuale non è solo una 'interpretazione', ma una vera e propria fondazione interiore dell'oggetto, che Cassirer chiama 'oggettificazione': una presentazione o una ri-creazione interiore dell'oggetto di esperienza con la quale poi ognuno rimane a contatto.

"Il pensiero dell'uomo non riesce mai a intuire direttamente l'oggetto, , riesce solo a 'integrarlo' nella propria conoscenza. Esperienza dunque dell'oggetto a cui si aggiunge un significato  che è sempre in sintonia con il senso archetipico trasmesso dall'umanità (ad es. il senso archetipico di alcuni valori come amare il prossimo, obbedire l'autorità, usare le proprie funzioni, difendersi da nemici, sostenere la prole, ecc.).

"Questa è forse la vera funzione 'semantica', che nel confronto con gli archetipi segna la legge dell'isotopia (stessi motivi) dei simboli, che classifica le produzioni simboliche in regimi e strutture."

 

Ora, si riporti alla memoria quanto abbiamo recentemente scritto circa l'etimologia della parola simbolo (nell'articolo Un mondo ricco di significato è un mondo incantato che prega in ogni fibra). "Simbolo", infatti, viene dal greco synballein e significa lanciare insieme; dunque, per estensione, unire o collegare due cose che appaiono distinte, ma che - in effetti - sono collegate a un livello più profondo di realtà. Pertanto, dire - ad esempio - che gli alberi, i monti e gli astri pregano,  non significa affatto volare con la fantasia: significa, ma semplicemente, adoperare un'immagine simbolica: riscoprire il legame nascosto, ma non per questo meno veritiero, che unisce il livello della vita fisica con il livello dell'Essere.

Ecco allora che la simbolizzazione archetipica diviene una forma di conoscenza della realtà basata, da un lato, sulla ri-creazione dell'oggetto da parte della mente del soggetto; dall'altra, sull'aggiunta di un qualche cosa d'altro, una rappresentazione simbolica, appunto, che riveste l'oggetto di una luce misteriosa e al tempo stesso vagamente nota, come una dimensione o un evento conosciuti in qualche passato remoto e poi dimenticati, lasciando però una sia pur debole traccia nella nostra coscienza. Si tratta, a nostro avviso, di un meccanismo simile a quello che presiede all'origine di molti sogni (di molti e non di tutti perché, con buona pace della psicanalisi freudiana, non crediamo che si possano ricondurre tutti i sogni sotto il segno di un'unica categoria e di un unico meccanismo psicologico).

In molti sogni, quello che ci colpisce maggiormente non è l'evento o la situazione che essi ci presentano, e dei quali siamo protagonisti più o meno volontari, bensì quella particolare atmosfera o tonalità che li pervade misteriosamente e che conferisce loro una valenza emotiva piacevole e gratificante oppure sgradevole e angosciosa. Ebbene, quella tonalità e quell'atmosfera, che spesso risultano incongrui rispetto al contenuto specifico del sogno (nel senso che la tonalità può essere positiva anche se i contenuti sono "oggettivamente" negativi, e viceversa) sono precisamente il frutto di una simbolizzazione archetipica che scaturisce da un meccanismo analogo a quello che si verifica nell'atto conoscitivo: un qualche cosa di intermedio fra la percezione oggettiva e la creazione fantastica, dove i confini dell'una sfumano in quelli dell'altra non in virtù di un capriccio dell'immaginazione, ma in base a complesse operazioni simboliche che si svolgono a livello profondo e delle quali la coscienza può avere, tutt'al più, un vaga e confusa intuizione.

È stato detto che noi non siamo in relazione con le cose, ma con l'immagine delle cose che ci formiamo soggettivamente; e questo è fondamentalmente esatto. La prova ne è che un evento lieto può essere percepito come fortemente angoscioso e viceversa: ciò significa che in noi esiste un "giudice interiore" che non accorda le sue valutazioni con il livello della coscienza desta e che percepisce la cosiddetta realtà esterna in maniera così libera, da potersi parlare di una vera e propria ri-creazione di essa. Possiamo spiegarci mediante l'esempio dell'effetto placebo: se ci viene somministrato un bicchiere d'acqua zuccherato da un medico di nostra fiducia, il quale ci assicura che si tratta di una nuovissima medicina che fa proprio al caso nostro, è possibile che il nostro organismo faccia regredire i sintomi di una malattia anche grave, giunta ad uno stadio avanzato. Sia detto per inciso, i medici "di famiglia"  di una o due generazioni fa, che conoscevano bene e personalmente i loro pazienti e che intrattenevano con essi un rapporto umano di un certo spessore e che godevano, inoltre,  della stima e della fiducia dei pazienti, conoscevano benissimo questo trucchetto e vi facevano ricorso frequentemente, anche se non avevano mai sentito parlare dell'effetto placebo, se non frequentavano continuamente corsi di aggiornamento professionale e se non si tenevano al passo con questa o quella ricerca medica o farmacologica internazionale. Ebbene, l'effetto placebo dimostra che non le cose in sé, ma la nostra percezione delle cose determina il nostro livello di reattività emotiva nei loro confronti e, in ultima analisi, la nostra conoscenza di esse: se è vero che la conoscenza è il mettersi in rapporto di un soggetto e di un oggetto, in una prospettiva di comprensione integrale, non solo di tipo razionale (come invece pensava Cartesio e come pensano, con lui, tutti i riduzionisti).

Allo stesso modo, è noto che un medesimo oggetto può essere percepito in maniera completamente diversa da due, o più, soggetti diversi; e, se questo è vero sul piano fisico, a maggior ragione lo è sul piano spirituale. Non basta: perfino il medesimo soggetto può percepire un oggetto in maniera diversa, in diversi momenti e differenti situazioni psicologiche. I soldatini con i quali giocavo quando ero un bambino di otto anni costituivano per me degli oggetti vivi ed entusiasmanti, mentre al mio io di adulto essi non appaiono più che come figurine di plastica o di terracotta, senza vita e senza splendore. E quel vecchio edificio dai muri ricoperti d'edera e con le imposte sempre socchiuse, che per me era il regno misterioso e un po' inquietante di chissà quali presenze, oggi non mi appare che come una vecchia casa un po' fatiscente, totalmente priva di fascino e di mistero. Non parliamo poi della diversa percezione di quei particolari oggetti che sono le persone, specialmente quelle che hanno  acceso in noi forti sentimenti e che ora, forse, sono cadute in un autentico oblio e giacciono in un angolo semi-abbandonato della nostra memoria.

Certo, da queste considerazioni si potrebbero anche trarre argomenti contro l'unità della coscienza, ossia contro l'esistenza di un centro permanente che faccia da supporto, mediante un continuum temporale, alle svariate operazioni della medesima. E vi sono tuttora, alcune scuole di pensiero le quali si spingono fino a quel punto; solo per fare un esempio (citiamo da Joan Forman, La maschera del tempo, Milano, SIAD Edizioni, 1979, p. 188):

 

Una delle principali autorità moderne sulla reincarnazione è il dott. Ian Stevenson, professore di psichiatria all'Università della Virginia. A suo parere non è necessario credere nell'anima per credere nella reincarnazione, ed egli porta a esempio i buddhisti Theravada, i quali sostengono che l'uomo possiede non già un'anima ma un gruppo di processi mentali sempre cangianti."

 

Ci riserviamo di tornare altra volta sull'argomento, che merita una discussione approfondita, e per ora ci limitiamo a mettere fra parentesi l'ipotesi di "un gruppo di operazioni mentali sempre cangianti" per tornare al nostro assunto iniziale, e cioè che le vistose modificazioni di percezione dell'oggetto da parte del soggetto implicano, come minimo, l'insufficienza di una spiegazione dell'atto conoscitivo come semplice intuizione diretta e la necessità di ipotizzare un movimento della coscienza molto più complesso. Ecco dunque che ci appare la fondamentale giustezza della teoria di Cassirer, secondo il quale «il senso in cui un oggetto viene integrato nella coscienza individuale non è solo una 'interpretazione', ma una vera e propria fondazione interiore dell'oggetto, che Cassirer chiama 'oggettificazione': una presentazione o una ri-creazione interiore dell'oggetto di esperienza con la quale poi ognuno rimane a contatto».

Concludendo: ciascuno di noi, entro certi limiti, si crea il proprio mondo e lo popola di oggetti più o meno significativi, più o meno luminosi e gratificanti, secondo le sue proprie aspettative e la sua propria visione della realtà. Di ciò siamo talmente convinti, da spingerci anche oltre e immaginare che perfino dopo la morte (come abbiamo sostenuto nell'articolo Alcune ipotesi sull'«altro mondo» e sulla mente non localizzata), in sostanza, quel che ci attende non sarebbe altro che la solidificazione delle nostre paure, dei nostri desideri e delle nostre aspettative (per cui il materialista  convinto potrebbe anche precipitare nel nulla); concezione che, fra l'altro, è in accordo con antichissime forme di conoscenza esoterica, quale ad esempio quella espressa nel cosiddetto Libro tibetano dei morti.

Davvero, nell'essere umano vi sono molte più cose di quel che credano tutti i materialisti e i riduzionisti del paradigma scientista oggi dominante.