Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Unione Sovietica. L'onda lunga del terrore

Unione Sovietica. L'onda lunga del terrore

di Simonetta Fiori - 30/10/2007


Dagli anni Venti al 1953 furono eliminati oltre dodici milioni di persone con picchi di settecentomila fucilati nel ‘37
Intervista/ Andrea Graziosi ha ricostruito la storia dell´Urss dal 1914 al 1945 sulla base di nuovi documenti accessibili dal ‘91
Dal gennaio al giugno del 1933 i morti nelle campagne furono circa cinque milioni. Intanto nelle città fu reintrodotto il passaporto interno con discriminazioni infinite
Spesso il filtro ideologico ha appannato l´occhio dello storico: per anni vi è stato chi ha negato la realtà del lavoro forzato o delle carestie e l´entità delle vittime

Storia imprevedibile, tragica e a tratti grottesca quella dell´Unione Sovietica, dove ci si può imbattere nelle più luttuose epopee finora rimaste in penombra - oltre al già conosciuto Grande Terrore del ‘37-´38 - o in personaggi gogoliani come quel funzionario bolscevico che negli anni Venti voleva vendere un Rembrandt in cambio d´un trattore. Nel novantesimo anniversario dell´Ottobre rosso, esce dal Mulino il primo volume della Storia dell´Unione Sovietica di Andrea Graziosi, L´Urss di Lenin e Stalin (1914-1945), la prima scritta sui nuovi documenti scoperti dopo il 1991 negli archivi di Mosca (pagg. 630, euro 30). Una novità rilevante sul piano delle fonti, che consentono di analizzare dall´interno il formarsi dell´accidentato paesaggio storico, non di limitarsi - nel migliore dei casi - a una descrizione da lontano dei suoi contorni. Ma anche un importante contributo dal punto di vista interpretativo, che capovolge il tradizionale rapporto tra impero zarista e Unione Sovietica, quest´ultima raffigurata come sospinta dall´onda lunga della vitalità intellettuale e demografica del primo, destinata a consumarsi fino al 1939 tra guerre civili, repressioni e carestie.
Nel lungo dopoguerra la storia sovietica ha alimentato passioni e lacerato coscienze, producendo anche in Italia lavori partigiani a sinistra come a destra. «Spesso», dice Graziosi, «il filtro ideologico ha finito per appannare l´occhio dello storico: nell´encomio e nella demonizzazione. Per anni vi è stato chi ha negato la realtà del lavoro forzato e della carestia e quando ciò non è stato più possibile ha ingaggiato battaglie sul numero dei morti». Oggi è possibile accostarsi a quella storia con uno sguardo più libero e attrezzato. E può indurre a riflessione la circostanza che ad affrontare l´impervio cammino sia uno studioso non di area postcomunista, segno d´una difficoltà a sinistra nel fare i conti con una storia così ingombrante. «Sì, credo che una rimozione da speranza delusa vi sia stata», dice Graziosi, 53 anni, professore di Storia contemporanea all´Università di Napoli, diversi incarichi tra le università di Yale, Harvard e l´Ecole des Hautes Etudes, una nutrita bibliografia anche in Russia e in edizioni anglosassoni, recente la nomina alla presidenza della Sissco, la Società di studi di storia contemporanea.
Fin troppo a lungo, nell´immaginario della sinistra italiana ha resistito l´immagine d´un Lenin "rivoluzionario equanime" a confronto d´uno Stalin assetato di sangue. La sua storia sovietica ristabilisce le proporzioni.
«Sì, Lenin è uno strano impasto di intelligenza e fanatismo, mescolati da uno straordinario furore rivoluzionario. Anche in questo Stalin fu suo allievo, destinato a superare il maestro. Fin dal 1906 Lenin era stato persuaso che per fare la rivoluzione occorre "una guerra di sterminio, disperata e sanguinosa". E così fece, per imporre una società ideale ancorata all´ideologia. Da questo punto di vista sia il Lenin del "comunismo di guerra" sia lo Stalin del balzo in avanti del 1929 sono due grandi e feroci utopisti che cercano di imporre la loro idea di società a una comunità recalcitrante e per questo hanno bisogno di un´enorme dose di violenza. Si sentono entrambi autorizzati a impiegarla».
Lei mette in luce la straordinaria durezza fin dal 1918 dello scontro tra il nuovo Stato uscito dalla rivoluzione e la massa dei contadini.
«Mentre Sverdlov ordinava per telegrafo nell´estate 1918 l´esecuzione dello zar e della sua famiglia, Lenin invitava i bolscevichi a usare nelle campagne metodi barbari. Nei telegrammi spediti ai suoi armati - polizia politica, pezzi dell´Armata Rossa e poi reparti speciali di sterminio - egli ingiungeva di reprimere "senza pietà", impiccando in modo visibile i kulaki. La violenza fu devastante: ostaggi anche tra donne e bambini; deportazione di interi villaggi; torture di massa; fucilazioni e bombardamenti aerei. Alla fine del 1918 la prima grande battaglia tra Stato e contadini era già vinta».
Anche tra il 1920 e il 1921 Lenin curò personalmente i dettagli delle operazioni repressive, insistendo per le azioni più dure.
«Sì, furono messe a punto tecniche cui attingerà Stalin nel decennio successivo. Si cominciò a usare la fame per reprimere la ribellione, sospendendo la consegna dei viveri ai villaggi insorti. Tutti espedienti che anticipano le terribili carestie dei primi anni Trenta».
A proposito delle carestie sterminatrici, lei sostiene che le proporzioni della catastrofe tra il 1931 e il 1933 sono state finora sottovalutate.
«Dal gennaio al giugno del 1933 i morti nelle campagne furono circa cinque milioni. La decisione di usare la carestia - per risolvere la crisi in cui il regime era caduto per colpa delle politiche staliniane - era stata presa a Mosca l´anno prima: il principio era quello di punire i contadini che rifiutavano la nuova servitù. Contrariamente al 1931 e ai primi mesi del ‘32, i villaggi affamati non ricevettero alcun sostegno. Al contrario: mentre il commissario agli Esteri Litvinov negava l´esistenza della carestia con i diplomatici e i rappresentanti della stampa estera, lo Stato "lottava con ferocia" - sono parole di Kaganovic, il "commissario di ferro" di Stalin - per portare a termine i piani di ammasso».
Per lo più si trattò di carestie artificiali.
«Sì, almeno a partire dalla fine del 1932 quando Stalin, per far fronte alla crisi, decise di usare la repressione su due linee principali: punire le regioni cerealicole che non consegnavano il grano e schiacciare le aree che tradizionalmente erano state roccaforti dell´opposizione. Dove le linee si intersecavano - come in Ucraina o nel Kuban - la carestia raggiunse i livelli massimi».
Questo accadeva nelle campagne. In città fu messa in atto la "passaportizzazione", un´operazione repressiva di cui finora s´è saputo poco.
«Sì, non è mai venuta fuori: eppure siamo al vero incunabolo del "terrore", intendendo per "terrore" l´operazione di chirurgia sociale su larga scala praticata tra il 1937 e il 1938 con settecentomila fucilazioni. Le categorie colpite furono quasi le stesse. Nel novembre del 1932 si decide di reintrodurre in sistema dei passaporti interni la cui abolizione era stata una conquista della rivoluzione. La concessione del documento diventò così un privilegio. Nella parte segreta del decreto sono indicate le categorie escluse dal passaporto (necessario per risiedere nelle città) e dunque esposte alla deportazione: i kulak e i dekulakizzati fuggiti dagli insediamenti, anche se impiegati nelle fabbriche; i profughi provenienti dall´estero; i contadini arrivati dopo il gennaio 1931; le persone private dei diritti politici e civili; gli ex condannati per crimini anche leggeri e i loro famigliari. Lo scopo principale era ripulire la popolazione urbana».
Cosa accadde agli esclusi?
«Coloro ai quali il documento fu negato vennero deportati e spesso abbandonati in mezzo al nulla. In alcuni casi, come in quello dei 6.000 "marginali" di Leningrado abbandonati nel 1933 sull´isola di Nazino - cui Werth ha dedicato di recente il suo L´isola dei cannibali - questi poveretti andarono incontro a un destino terribile, lasciati morire di freddo e di fame. Non una strage mirata, ma il prodotto del più totale disinteresse per la sorte degli esseri umani».
Il 1932 fu un anno chiave del "terrore". Sempre in quel periodo fu portata avanti la "denomadizzazione", con esiti devastanti.
«All´inizio del 1931 Mosca si lanciò all´attacco dei pastori nomadi e seminomadi, che a quel tempo costituivano la stragrande maggioranza della popolazione ed erano stati fino ad allora risparmiati dalla collettivizzazione. Non si trattò anche in questo caso d´un progetto volontariamente finalizzato all´eliminazione fisica, ma i diversi provvedimenti finirono per affamare i nomadi fino alla tragica cifra del milione e mezzo di morti. La regione dove la mortalità raggiunse il suo picco è il Kazakstan, che perse quasi il 38 per cento della popolazione indigena».
Stalin ne era consapevole?
«Il dittatore certo non ignorava i termini della tragedia. Nella primavera del 1933 gli arrivò una documentata lettera di Ryskulov, un dirigente comunista di origine kazaca, in cui si parlava addirittura di antropofagia e di schiere di bambini abbandonati. Tra i testimoni della catastrofe vi fu anche Dubcek, il futuro leader della primavera di Praga, che arrivò in quella regione ancora piccolo, accompagnando il padre che doveva costruire in Urss il socialismo. Fu colpito dall´aspetto dei suoi coetanei "cadaveri ambulanti"».
Lo Stalin che affiora dalle sue pagine è una sorta di genio del male. Lei lamenta una sua sottovalutazione prima del 1924.
«Era un uomo spietato, ma anche di forza, intelligenza e volontà straordinarie. È difficile capire perché molti storici abbiano potuto sottovalutare il suo status prima della morte di Lenin. Fin dal 1919 Stalin dispose di un variegato ed esteso seguito personale, con la possibilità di dirigere le regioni e le repubbliche non russe. Grazie al ruolo di luogotenente di Lenin, egli divenne anche il leader del nucleo militarizzato del partito. Nel 1922 per i vertici era già il "grande Stalin", l´uomo forte da cui si andava per discutere dei propri problemi politici e personali».
Uno Stalin che da "amico amato" si trasforma pian piano in "padre terribile". L´opposizione al tiranno fu piuttosto estesa e resistette fino alla metà degli anni Trenta. Tanto che lei ha qualche perplessità ad usare la categoria di "totalitarismo".
«Sì, ne ho discusso anche con Emilio Gentile, studioso dei fenomeni totalitari. Mettiamola così: del termine totalitarismo non ci disferemo mai perché risponde alla necessità di dare un nome ai nuovi regimi sorti dopo la Grande Guerra. Però nel caso dell´Unione Sovietica bisogna rinunciare alla sua carica interpretativa così come la intese per esempio Hannah Arendt. Fino al 1939 il "terrore" fu rivolto contro la popolazione del paese, largamente ostile al regime (e fino al 1933 capace di un´opposizione massiccia) e da un punto di vista concettuale non si trattò nemmeno di terrore, cieco e teso ad atomizzare la popolazione, ma piuttosto di grandi operazione di chirurgia sociale volte ad eliminare pezzi predeterminati della società. Quello sovietico degli anni Trenta fu insomma un regime molto diverso dal totalitarismo di Hitler, forte d´un consenso quasi religioso. La guerra poi cambiò tutto, legittimando in parte il regime agli occhi della popolazione».
Le nuove carte, trovate dopo la fine dell´Urss, cambiano di molto la lettura degli eventi?
«Ti consentono di cogliere certi passaggi "dall´interno", non più a distanza. Rimane però il problema di fondo e cioè che la stragrande maggioranza dei documenti - per quanto straordinari, come straordinario è il fatto che conservassero le prove di quel che facevano - sono di provenienza ufficiale, dunque asettici, segno del grandioso sforzo di costruire burocraticamente un mondo impossibile. Raramente vi puoi affiancare fonti diverse, come diari, memorie, corrispondenze. Faccio un esempio: se la storia dell´immigrazione a New York può essere fatta anche con le lettere, i giornali, le carte di società e sindacati creati dagli stessi immigrati, quella dell´immigrazione contadina a Mosca si può fare basandosi su carte di polizia, fonti giudiziarie o inchieste di partito. I limiti sono evidenti».
Lei insiste sull´importanza delle questioni nazionali.
«Sì, le carte sottolineano la rilevanza di alcune questioni come quella ucraina, ma anche quella russa - la Russia fu a suo modo sacrificata all´Urss - , quella cecena etc. Solo tenendo conto per esempio della grande rivolta nazionale e sociale delle campagne ucraine nel 1919 o dell´opposizione georgiana si può capire perché Lenin decida nel 1922 di creare un nuovo Stato senza il termine "russo". I conflitti degli anni Venti sui confini tra le repubbliche anticipano quelli successivi al 1991, e la tragica carestia del 1933 non può essere compresa senza tener conto dell´elemento nazionale».
Tragica e imprevedibile, la storia sovietica conosce anche momenti grotteschi. A un certo punto per far fronte alla crisi economica, alla fine degli anni Venti, Pjatakov spinge per vendere all´estero opere di Rembrandt e Raffaello.
«Sì, già nel 1919 qualche dirigente aveva proposto di scambiare Rembrandt con dei trattori. Quando poi nel 1928 si formò la commissione per la cessione dei beni artistici, il suo presidente, abituato a trattare materie prime, non trattenne il suo stupore: "Possibile che si trovino cretini tali da pagare per certe cose?". Negli archivi ho trovato anche una lettera di Pjatakov, assai indicativa. "Sono per la barbarie!", replicò polemicamente a chi l´accusava di vandalismo. Pur di salvare la banca di stato e la valuta convertibile, era pronto a vendere sottocosto i quadri dello "schifoso Botticelli". Sì, dice proprio così, parsivyj Botticelli».