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La regina degli scacchi

di Fabio Stassi - 30/10/2007

   
 

Autore: Walter Tevis
Titolo: La regina degli scacchi
Edizioni: Minimumfax, Roma 2007
Pagine: 377

[fonte: minimumfax.com]
America, 1961. Bianco e nero straziante. Poco fuori dall’aria spessa e fumosa del bar di un porto, un gruppo di canaglie aggredisce il giovane Eddie Nelson detto lo svelto, che sullo schermo avrà per sempre la faccia di Paul Newman. Devono impartirgli una lezione. Per la dissimulazione del suo talento. Per avere ingannato qualche pesce più grande di lui. E non c’è lezione migliore per un misero baro che vive giocando a biliardo che rompergli i pollici. Dopo, non potrà stringere una stecca in mano per molto tempo se non per sempre.
Ogni volta che ci ripenso, a quella scena, mi si chiude lo stomaco. Non è soltanto per la sua violenza. È per qualcosa di più, che ancora non ho capito sino in fondo.
Per un giocatore di biliardo, le mani sono tutto. Come per un musicista. Come per uno scrittore. Come per un ladro. Modi diversi, in fondo, verrebbe da dire, per truffare la vita.
Quando ho cominciato a leggere La regina degli scacchi, il penultimo romanzo dello stesso americano insicuro e gentile che aveva scritto Lo Spaccone e che si chiamava Walter Tevis, i pollici di Paul Newman sono stati la prima cosa che mi è tornata in mente. Perché anche gli scacchi hanno a che fare con le mani. Sono le mani che spostano i pezzi; che spingono il pulsante dell’orologio di gara; che sorreggono la testa alla ricerca di una combinazione imprevedibile.
Ma a differenza delle mani callose dello Spaccone, quelle di Betty Harmon, la piccola protagonista della storia di Tevis, sono le mani di un’orfana di otto anni. Piccole. E sgraziate. Com’è lei. Con la sua faccia insignificante, tonda e lentigginosa, i capelli scialbi.
La sua storia ha inizio in un seminterrato, come nelle favole, che hanno sempre un legame con un sottosuolo, con le pance delle balene, con i corridoi delle miniere, e sono un affare di candele steariche, di panni smessi, di padri e figli da cercare… La caverna di Betty è il seminterrato di un orfanotrofio, la Methuen Home di Mont Sterling, in Kentucky. E la sua candela una lampadina senza paralume, accanto alla caldaia. Betty siede sulla cassetta del latte. Osserva Shaibel, il custode, giocare a scacchi da solo. Toccherà a lui insegnarle questo gioco antico che riassume così bene ogni cosa: la lotta tra i sessi; quella interna a una famiglia, a un esercito, a un istituto, dove basta l’errore di uno; e persino la lotta sociale, l’avanzamento dei pedoni proletari verso l’ottava traversa, l’ultima, e il loro sogno di essere promossi nel pezzo più potente della scacchiera, la regina.
Sarà con questo custode grasso che sapeva di muffa che Betty oserà la sua prima mossa. Gambetto di regina, come vuole il titolo originale del libro. La più audace.
Ma un campione di scacchi può anche giocare alla cieca, con le ombre proiettate sul soffitto, di notte, senza muovere un muscolo del suo corpo, come fa anche Betty nel suo orfanotrofio. E uno scrittore fragile come Tevis serbare nei suoi silenzi il romanzo che non ha ancora scritto; un musicista orchestrare una sinfonia sulle labbra; il giovane Paul Newman immaginare a occhi chiusi le prossime carambole e un ladro vagheggiare la rapina del secolo… sempre di colpi si tratta… Ma sono le mani che li tentano, che compiono le mosse sul tavolo, che segnano le parole o le note, sono le mani che alla fine accettano la sfida con il mondo. Sono loro il ponte levatoio tra un uomo o una bambina sola e il fuori. Rischio e pericolo; confronto e misura. Tutto in un gesto.
Per Betty, la prima mossa del destino era stata la scomparsa violenta dei suoi genitori. Un furto subito e senza ritorno. Una mancanza definitiva.
Ecco allora che si affaccia un’ipotesi: il talento, qualsiasi talento, è l’unica maniera di imbrogliare la vita, dopo esserne stati derubati. Viene il sospetto che giocare a scacchi o a biliardo, scrivere o rubare siano solo differenti risposte a un comune destino. La necessità di un risarcimento. Di una riparazione.
Betty è brava a ricordarsi le cose: la sequenza delle varianti, i finali. Ha una strepitosa inclinazione tattica, per la quale in Russia i vecchi la chiameranno affettuosamente e con rispetto Lizaveta. Ha la capacità di capire la forza silenziosa dei pezzi su un tavolo da gara, la loro tensione, di indovinare la trama dei rapporti umani che disegnano con spietato rigore. Gli scacchi sono il suo alfabeto. Ma prima di affrontare il mondo adulto e maschile che la circonda e che le impone delle pillole verdi per renderla più disciplinata e mansueta, “per regolarle due volte al giorno l’umore”, Betty dovrà liberarsi dall’ostilità verso sé stessa, quella che riduce l’esistenza a uno stallo rancoroso e sterile, che le impedisce di cambiare natura, di vincere il sortilegio della propria solitudine. Ma dovevamo immaginarlo. Soltanto una bambina come Betty, con la sua volontà, e il suo estro, avrebbe potuto sanare i pollici fratturati di Paul Newman. È il più coerente epilogo della carriera di Tevis. Il pudore di una speranza presa finalmente per mano.