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La religione alla svolta del millennio

di Edward Goldsmith - 30/10/2007

 

 

 

 

 

Otto anni fa, durante un convegno svoltosi su una nave che ci conduceva a Patmos, dove San Giovanni scrisse l’Apocalisse, sua santità il Metropolita Giovanni di Pergamo dichiarò che la distruzione dell’ambiente doveva essere considerata un peccato. Era incoraggiante vedere dignitari delle Chiese anglicana e cattolica romana dichiararsi subito d’accordo –  come, in realtà, fecero anche i relatori indù, giainista e zoroastriano. Ma probabilmente nessuno di loro aveva compreso le profonde implicazioni di questa dichiarazione che era, in realtà, un atto di accusa contro la nostra stessa società industriale moderna.

Infatti, la distruzione del mondo naturale, che avanza a una velocità sempre più grande, è l’inevitabile conseguenza di tutta l’avventura alla quale la moderna società industriale si è così sinceramente consacrata e di cui il “progresso” – in altri termini, lo sviluppo economico – è la caratteristica dominante. Questo processo è stato raramente definito, ma comporta soprattutto la sistematica sostituzione del mondo naturale – il mondo reale frutto di 3000 milioni di anni di evoluzione biologica ed ecologica – con un mondo di manufatti umani.

L’idea secondo la quale “distruggere l’ambiente è un peccato” pone un altro problema. Affinché questa idea non resti puramente formale e le sue implicazioni siano prese concretamente in considerazione, è necessario che essa permei la nostra visione del mondo. Questo è vero per tutti, artisti di strada, teologi o scienziati, anche se questi ultimi dicono di riconoscere come “scientifica” solo una proposizione verificata (o falsificata) nelle condizioni controllate del laboratorio. In effetti, si tratta di un’illusione perché la verificazione o falsificazione servono solo a razionalizzare o legittimare delle credenze già acquisite con l’intuizione, credenze meglio corrispondenti al nostro paradigma e alla nostra visione del mondo. Per dirla con il grande epistemologo Michael Polanyi: “Il test di convalida o di invalidazione è in realtà non pertinente per quanto concerne l’accettazione o il rifiuto delle credenze fondamentali e sostenere che vi asterrete rigorosamente dal credere in qualcosa che sarà stato confutato equivale a esibire una falsa pretesa a una severa autocritica”[1].

 

 

La scienza come religione

 

Gli scienziati ortodossi, come tutti gli altri, faranno qualunque cosa per preservare il loro paradigma o visione del mondo di fronte a una conoscenza che sembri minarlo e dunque rigetteranno ogni proposizione che sia in conflitto con esso. L’idea che distruggere l’ambiente è un peccato è non soltanto inconciliabile con l’effettiva religione secolare che è alla base della visione del mondo dell’umanità industriale, ma rischia di minare il suo più fondamentale principio e cioè che scienza, tecnologia e industria – forse alleate col libero commercio – creeranno sulla terra un paradiso materiale e tecnologico dal quale tutti i problemi che ci hanno assillato per secoli come povertà, malattia, disoccupazione, mancanza di alloggio, criminalità, tossicodipendenza – e, come ci hanno addirittura assicurato alcuni scienziati, persino la morte stessa – saranno definitivamente eliminati.

Ne deriva che tutti i benefici sono visti come opera dell’uomo, come un prodotto dello sviluppo economico. Così la salute è vista come qualcosa che è dispensata negli ospedali, o almeno dalla professione medica, con l’ausilio delle ultime apparecchiature tecnologiche e delle droghe farmaceutiche. La legge e l’ordine sono forniti dalla nostra polizia insieme con i tribunali e il sistema carcerario, e così via. Ma nessun valore è attribuito agli insostituibili benefici derivanti dal normale funzionamento del mondo naturale, che assicura la stabilità del nostro clima, la fertilità del nostro suolo, il rifornimento delle nostre scorte d’acqua e gli altri elementi vitali di un pianeta funzionante. Ne consegue che essere privati di questi non-benefici non può costituire un “costo” economico – e i sistemi naturali che li forniscono possono perciò essere distrutti con una quasi totale impunità.

Questo atteggiamento è inoltre razionalizzato da scienziati ortodossi che si propongono sistematicamente di denigrare i processi naturali. Darwin descriveva la natura come “goffa, dissipatrice e fallibile”, e Sir Peter Medawar, premio Nobel, parlava disperatamente delle “ingenue improvvisazioni della natura”[2].

La scienza ortodossa vede altresì il mondo naturale come individualistico, aggressivo e spaventosamente crudele. Per Darwin, “tutta la natura è in guerra”, e il suo più eminente discepolo, T. H. Huxley, era d’accordo. “Dal punto di vista del moralista”, sosteneva in una sua famosa conferenza del 1890, “il mondo animale è quasi allo stesso livello dello spettacolo di gladiatori. Le creature sono trattate abbastanza bene e destinate al combattimento, per cui le più forti, veloci e astute vivono per combattere il giorno seguente. Lo spettatore non ha nemmeno bisogno di volgere i pollici in basso perché nessuno viene mai graziato” – una dichiarazione che afferma chiaramente quella che è stata definita una visione “gladiatoria” del mondo naturale[3].        

Per il sociologo americano Lester Ward, i terribili difetti del mondo naturale sono, come dice Donald Worster, “come un invito per l’uomo a diventare un ingegnere della natura e a creare, in base ai suoi stessi progetti, un paradiso terrestre il cui funzionamento egli può organizzare e dirigere in ogni dettaglio”[4].

Darwiniani e sociobiologi sono d’accordo. Secondo loro, è possibile creare un mondo buono dove i reciproci rapporti siano ispirati a criteri etici, ma per fare questo dobbiamo dichiarare guerra al malvagio mondo naturale. Come dice Huxley, “il progresso etico della società non dipende dall’imitazione del processo cosmico, e ancor meno dalla fuga di fronte ad esso, bensì dal fatto di combatterlo”[5]. Questo è uno dei più importanti principi di quello che è in effetti un secolare culto religioso, derivante direttamente da un certo numero di ben documentati culti religiosi che fiorirono all’inizio della storia dell’Occidente. Uno dei più conosciuti è quello  degli gnostici, il movimento “eretico” del primo cristianesimo che, come gli scienziati ortodossi, considerava il mondo naturale inefficiente, anzi positivamente malvagio. Essi non negavano che nel cosmo ci fosse ordine e legge, ma pensavano che fosse “un ordine rigido e ostile, una legge tirannica e malvagia, priva di senso e di bontà, estranea alle intenzioni dell’uomo e alla sua essenza interiore”[6].

Dunque, per gli gnostici, Dio e il cosmo non erano più intimamente legati, come nel mondo classico, ma erano diventati estranei l’uno all’altro – per meglio dire, opposti. L’uomo era così condannato alla solitudine cosmica[7] come è condannato anche dalla scienza ortodossa. Il premio Nobel Jacques Monod ammette, d’altronde, che l’uomo animistico poteva considerarsi parte integrante di un mondo naturale. Egli dice infatti che “l’animismo stabiliva un patto tra l’uomo e natura, una profonda alleanza, al di fuori della quale sembra esserci solo una terrificante solitudine. Ma oggi la scienza ci ha rivelato la terribile verità, l’antica alleanza è stata infranta. L’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’universo, nel quale non ha una funzione, non ha doveri, e nel quale è emerso per puro caso”[8]. Si tratta di un dogma sorprendente largamente basato su un altro dogma – quello della casualità dei processi naturali, in particolare dell’universale processo della vita: l’evoluzione. Entrambi sono inconciliabili con qualunque vera conoscenza della struttura e della funzione del mondo vivente.

Tuttavia, c’è una grande differenza tra la posizione degli gnostici e quella dei tipici scienziati di oggi. Per i primi, Dio esigeva che l’umanità fuggisse dal mondo malvagio e limitasse la vita alla dimensione spirituale. I secondi, pur accettando le stesse premesse, arrivano a una conclusione molto differente. Essi ammettono che il mondo è inefficiente e fatto male – ma la risposta non consiste nella fuga, bensì nel rifarlo e trasformarlo secondo il loro progetto, di gran lunga migliore. Questa è la suprema arroganza e anche la suprema bestemmia. L’Homo scientificus si è deificato. Ricreare il mondo è un suo dovere.

La cruciale importanza della conservazione dell’ordine del mondo vivente comincia solo ora a diventare un’evidenza per quella che è ancora una minoranza di scienziati, in buona misura grazie al lavoro di James Lovelock e Lynn Margulis, i quali hanno dimostrato che la biosfera, ovvero il mondo delle cose viventi, insieme con il suo sostrato geologico e il suo ambiente atmosferico, costituisce un unico essere, al quale Lovelock allude chiamandolo “Gaia” – la dea greca della terra. Lovelock sottolinea la cruciale importanza della conservazione dell’ordine di Gaia. Se la dose di ossigeno dell’atmosfera fosse troppo bassa, allora alcune specie non sarebbero capaci di respirare, mentre se fosse troppo alta, l’atmosfera della terra diventerebbe così infiammabile che una sola scintilla potrebbe far scoppiare incontrollabili incendi. Se i suoi livelli di diossido di carbonio fossero a loro volta troppo bassi, la terra sarebbe troppo fredda, e se troppo alti la sua temperatura supererebbe quella che la maggior parte delle forme di vita potrebbero sopportare – un principio che gli scienziati hanno trascurato a spese dell’umanità e del mondo naturale. Solo ora lo stiamo comprendendo; abbiamo sistematicamente cambiato la composizione dell’atmosfera, e siamo coinvolti in quella che sembra essere una reazione a catena nei confronti di una destabilizzazione climatica sempre più grave.

 

 

L’importanza dell’olismo

 

Alla luce di quanto detto finora, la nostra tesi è la seguente: contrariamente a quanto ci dicono gli scienziati ortodossi, ho costantemente sostenuto che i sistemi naturali, a differenti livelli di organizzazione, cercano, coscientemente o no, di conservare l’ordine degli insiemi di cui fanno parte. Il biologo Ludwig von Bertalanffy era colpito dal “carattere complessivamente conservativo” dei processi vitali al livello dell’organismo biologico[9]. Allo stesso modo, il biologo austriaco Ungerer era così impressionato dalla “funzione complessivamente conservativa dei processi vitali” da decidere di sostituire la nozione di “finalità” con quella di totalità[10].

Che le parti costitutive di ogni sistema naturale debbano lottare per conservare il suo ordine complessivo è evidente, perché si sono evolute per compiere le loro specifiche funzioni all’interno di esso, e perciò il loro benessere e quindi la loro sopravvivenza dipendono totalmente dalla preservazione del sistema. Eugene Odum, il cui Fundamentals of Ecology è stato per decenni il libro di testo standard nelle università americane, nota che “l’individuo non può sopravvivere a lungo senza il suo gruppo, così come nessun organo potrebbe sopravvivere a lungo come unità in grado di auto-perpetuarsi senza il suo organismo”[11]. Così, bambini allevati in una famiglia sfasciata, come confermerà ogni assistente sociale, tendono spesso ad essere affettivamente instabili e hanno una possibilità molto più grande di diventare disadattati sociali, delinquenti e criminali.

La famiglia, tuttavia, non può crescere bene come piccola oasi di ordine in un mare di disordine sociale, ma deve essere parte di una comunità coesa, che nel mondo tradizionale ha una importanza tale da non poter immaginare la vita al di fuori di essa. Naturalmente, non possono sopravvivere nemmeno i singoli, le famiglie e le comunità, se viene distrutto l’ordine del mondo naturale o dell’ecosfera, come presto comprenderà persino il più fanatico adepto del culto dell’egoismo.

Purtroppo, questo principio chiave diventa evidente solo quando i processi vitali sono considerati dal punto di vista del loro rapporto con l’insieme di cui fanno parte. Gli scienziati ortodossi che insistono a studiare i processi vitali isolandoli dall’insieme – la cui reale esistenza la maggior parte di loro scelgono di ignorare – continuano a vederli come casuali, malleabili, senza scopo e auto-referenziali. La migliore illustrazione di questa idea è rinvenibile negli scritti del professor Richard Dawkins della Oxford University, per il quale non c’è “un vantaggio selettivo nel mostrarsi preoccupati per la stabilità e l’integrità dell’insieme”[12].

Se il comportamento è considerato riduttivamente, allora non c’è alcuna possibilità di poter affermare la sua funzione tendente alla conservazione dell’insieme, e quindi alcuna possibilità di distinguere tra comportamento che serve alla conservazione e quello che serve alla distruzione dell’ordine del mondo vivente. Questa distinzione chiave, estranea alla scienza ortodossa, è tuttavia cruciale nelle primitive religioni arcaiche come il giudaismo (si veda in particolare, più avanti, il contributo di Margaret Barker).

 

Perché le religioni tradizionali hanno trascurato la terra

 

Se è impossibile riconciliare l’idea che la distruzione dell’ambiente è un peccato con la scienza ortodossa e la religione gnostica, è altresì difficile – sebbene niente affatto impossibile –  riconciliarla con le tipiche religioni moderne. Anche se non considerano il mondo naturale ed anzi il cosmo come malvagio, esse mostrano tuttavia uno scarso interesse nei suoi riguardi.

In verità, oggi queste religioni sono sempre più orientate verso il mondo ultraterreno, e hanno smesso di svolgere il loro originario ruolo di legame tra le persone e la loro società, il mondo naturale e l’onnicomprensivo cosmo. Nella società atomizzata che abbiamo creato, hanno senso solo i rapporti interpersonali, e la religione diventa addirittura poco più di un rapporto personale tra un uomo ora asociale e insensibile ai valori ecologici e un Dio al quale sono attribuite queste stesse caratteristiche.

La religione tradizionale ha smarrito la sua strada e ha bisogno di tornare alle sue radici, andando anche oltre e imparando dalla saggezza dei popoli primitivi, tesi sostenuta con forza da padre Bede Griffith (cfr. “Ritorno al centro”). L’articolo di Darryl Wilson “La storia di mio nonno” conferma questa stessa tesi mostrandoci come un popolo indiano ha visto il suo rapporto con il cosmo.

L’importanza delle religioni tribali risiede nel fatto che sono totalmente riconciliabili con l’idea che la distruzione dell’ambiente è un peccato – questo è anzi spesso il loro più fondamentale insegnamento. Ad esempio, Robert Parsons, nel suo libro sulla religione dei Kono della Sierra Leone, mostra che la loro religione “non è soltanto un’organizzazione dei rapporti umani, ma include anche i rapporti del popolo con la terra nel suo insieme, con il territorio e il mondo invisibile delle forze costruttive e degli esseri nei quali essi credono. La religione li inserisce in un insieme coerente”[13].

Per i Kono, “la terra è più di un composto di particelle inanimate del suolo; è un essere vivente, la sposa di Dio, dalla illimitata potenza procreatrice, che produce l’abbondante vegetazione tropicale. La principale preoccupazione dei Kono, come di tutti i popoli tribali, è di conservare l’armonia cosmica”[14].

L’antropologo Henrick Kraemer[15] osserva anche come, nelle società primitive, “l’interesse dominante è di preservare e perpetuare l’armonia sociale, la stabilità e il benessere. I culti religiosi e le pratiche magiche si prefiggono principalmente questo scopo”. Chiunque abbia vissuto con un “popolo primitivo” e abbia cercato di comprenderlo, conosce il radicato terrore nei confronti di ogni disturbo dell’armonia e dell’equilibrio universale e sociale. Se questa armonia viene violata nella sfera cosmica – ad esempio, a causa di un insolito evento naturale – o in quella sociale, a causa di una trasgressione della tradizione o di un evento sconvolgente, questo suscita una comune e vigorosa attività religiosa per restaurare l’armonia e quindi salvare la fertilità dei loro campi, la loro salute, la sicurezza delle loro famiglie, la stabilità e il benessere della loro tribù dall’incombente pericolo.

In effetti, quasi tutte le attività dei popoli tribali sono finalizzate a questo stesso obiettivo, si tratti delle loro attività agricole, delle loro tecnologie, della costruzione delle loro case, dei loro templi, dei loro villaggi o della esecuzione dei loro rituali sacri. Al di là della loro funzione pratica, esse servono, ai loro occhi, a conservare l’ordine del cosmo. Infatti, violare questo principio, e in particolare trascurare l’esecuzione di questi rituali sacri, equivale a violare ogni genere di tabù – e, secondo Roger Caillois, “un atto è tabù perché infrange l’ordine universale, che è al contempo quello della natura e della società”. Cos’ facendo, “la terra potrebbe non dare più un raccolto, il bestiame potrebbe essere colpito da infertilità, le stelle potrebbero non seguire più la loro traiettoria prestabilita, morte e malattia potrebbero infuriare sulla terra”[16]. Violare un tabù significa essere colpevoli di un peccato cosmico.

Ed in effetti, ciò può essere considerato vero. Le recenti tempeste e alluvioni a Orissa e in Vietnam, e l’aumentata incidenza di devastanti siccità ovunque nel mondo, sono il risultato della deforestazione e della trasformazione chimica dell’atmosfera che assomiglia così sempre meno a quella di cui avremmo bisogno per conservare l’equilibrio dell’ecosfera. Ci piaccia o no, la cultura religiosa dei popoli tribali dice loro la verità sul loro rapporto con il cosmo. E lo fa, naturalmente, dal loro particolare punto di vista – quello che essi meglio comprendono e in cui credono – non solo intellettualmente, ma con il cuore e l’anima. Dice loro la verità sulla via che con tutta probabilità deve essere percorsa.

 

 

Religione ed ecologia

 

Il grande antropologo Roy Rappaport fa notare che l’importante problema relativo alle credenze o “modelli cognitivi” dei popoli primitivi “non è il loro grado di adesione a quella che gli analisti affermano essere la realtà, ma il modo in cui il loro comportamento è appropriato al benessere degli attori e degli ecosistemi ai quali essi partecipano”[17]. Egli avrebbe potuto aggiungere: “e all’integrità dell’ecosfera nel suo insieme”. “Il criterio dell’adeguatezza per un modello non è la sua precisione, ma la sua efficacia di adattamento”[18] nel vero senso solistico del termine. Se le credenze primitive o “modelli cognitivi” soddisfano questo criterio, allora esse sono chiaramente “vere” nel senso più pieno della parola, nonostante il fatto che queste credenze possono essere formulate nel linguaggio degli dèi e degli spiriti la cui esistenza fisica potrebbe essere negata dai nostri scienziati che, in questo modo, si lascerebbero sfuggire l’essenziale. Perché non ha alcuna importanza stabilire se si tratta o no di figure storiche. Essi sono anzitutto degli archetipi. Lo stesso vale per le grandi religioni tradizionali. È irrilevante chiedersi se il diluvio di Noè descritto nel Vecchio Testamento è veramente avvenuto. Potrebbe benissimo essere successo, ma non è questo il punto. Il diluvio simboleggia le forze del caos che si scatenarono quando il popolo smise di osservare l’alleanza cosmica. Il diluvio di Noè era un archetipo, non necessariamente un evento storico, e il suo ruolo in quanto archetipo è incomparabilmente più importante, nella determinazione del comportamento adattativo umano, di ogni possibile ruolo che esso può svolgere in quanto verità scientifica o storica.

Questo ci porta al nostro vero scopo, che è soprattutto quello di mostrare che queste idee occupavano un posto di primo piano nella teologia delle nostre prime, grandi religioni, ma che le abbiamo perse di vista. Se è così, allora dobbiamo recuperarle, perché soltanto in questo modo la religione può ispirare gli uomini a unirsi contro le forze del caos che minacciano la loro stessa sopravvivenza.        

 

 

NOTE

 

[1] Michael Polanyi, Personal Knowledge, Towards a Post-Critical Philosophy, Routledge and Kegan Paul, London 1978.

 

[2] Sir Peter Medawar, The Hope of Progress, Wildwood House, London 1974, p. 244.

 

[3] T. H. Huxley & J. Huxley, Evolution and Ethics, The Pilot Press, London 1947.

 

[4] Lester Ward, citato da Donald Worster in Nature’s Economy, Sierra Club, San Francisco 1977.

 

[5] Op. cit., p. 3. 

 

[6] Hans Jonas, The Gnostic Religion, Beacon Press, 1958, p. 250.

 

[7] Ibid.

 

[8] Jacques Monod, Chance and Necessity, Collins, London 1972.

[9] Ludwig von Bertalanffy, Modern Theories of Development: An Introduction to Theoretical Biology, Harper Torchbook, New York, p. 123.

 

[10] Ibid.

 

[11] Eugene Odum, Fundamentals of Ecology, W. B. Saunders, Philadelphia 1953, p. 5.

 

[12] Richard Dawkins, The Selfish Gene, Oxford University Press, Oxford 1989.

 

[13] Robert Parsons, Religion in an African Society, Leiden 1964, p. 176.

 

[14] Ibid.

 

[15] Henrick Kraemer, The Christian Message in a Non-Christian World, Harper, New York 1938.

 

[16] Roger Caillois, L’Homme et le Sacré, Gallimard, Paris 1950, p. 24.

 

[17] Roy A. Rappaport, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge University Press, Cambridge 1999, p. 364.

 

[18] Ibid.