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Inquinamento

di Richard Newbury - 30/10/2007

Richard Newbury recensisce l’ultimo libro di Emily Cockayne, storica dell’ambiente, dedicato alle conseguenze della prima rivoluzione industriale sulla salute dei cittadini inglesi fra il 1660 e il 1770.
La Cockayne mettere in evidenza «i lati peggiori» della rivoluzione industriale e non solo gli aspetti di forte crescita economica ed espansione demografica. Per descrivere lo stato di degrado ambientale in cui vivevano i diversi gruppi sociali in quattro città campione (Londra, Manchester, Oxford e Bath) l’autrice ha utilizzato anche opere letterarie e diari dell’epoca. Secondo Newbury dalla ricerca emerge un quadro paragonabile alle condizioni igieniche di molte zone industrializzate nell’India o nella Cina di oggi.


«La natura non produce rifiuti», sentenzia John Scanlon nel suo saggio On Garbage (Sulla spazzatura). Il nuovo Hubbub, Filth, Noise and Stench in England (Frastuono, sporcizia e fetore nell’Inghilterra del 1660-1770) di Emily Cockayne [...] studiosa dell’inquinamento urbano nei primi anni dell’era moderna, non si discosta di molto da questa opinione. Sono i cittadini delle aree urbane «civilizzate» a produrre l’inquinamento. Emily Cockayne concorda con l’affermazione del sociologo Reiner Grundmann secondo la quale i rifiuti sono soltanto «materiale fuori posto». Questo erano, a Londra in quegli anni, i cimiteri cittadini con le tombe sommerse da montagne, il caos dei mattatoi, le strade invase da scarichi e da maiali alla ricerca di cibo, la cacofonia dei martelli dei fabbri e le litanie infinite dei venditori ambulanti, il fetore della lavorazione delle officine dei candelai e dei conciatori - per tacere della più grande fogna a cielo aperto del periodo, il Tamigi stesso. Ai tempi in cui un bagno annuale veniva considerato «ristoratore» e gli antibiotici non erano stati neppure sognati, tutte le classi sociali avrebbero sottoscritto l’affermazione di Thomas Hobbes secondo la quale la vita dell’uomo era «povera, sgradevole, brutale e corta». Eppure, a partire dal 1700 e nel volgere di appena due generazioni Londra crebbe da 600 mila (oltre il 10% della popolazione del paese) a 750 mila abitanti (sempre il 10% circa). Questa crescita demografica fece diventare Londra la città più popolosa d’Europa, sebbene per avere la prima forza di polizia la città abbia dovuto aspettare gli anni sessanta del secolo. [...] Questa era l’Inghilterra del boom e della deregulation, una nazione ben rappresentata dal motto «birra e libertà», un Paese che fece registrare per un secolo abbondante un tasso costante di crescita del 3%. Questa straordinaria prosperità economica avrebbe poi alimentato l’espansione imperiale in America e Asia e la sconfitta di Luigi XIV e XV nonché quella di Napoleone, il tutto nel bel mezzo della prima rivoluzione industriale. Le immagini di Hogarth ci offrono una eccellente rappresentazione di questa metropoli in piena espansione, ma non possono riprodurre il fetore, il caos, il prurito causato dagli abiti, il dolore e la putrefazione delle malattie, l’inquinamento e i veleni sprigionati dai processi industriali di quella che stava diventando «l’officina del mondo». Linfen in Cina o Sukinda in India sono i paragoni più calzanti, sebbene all’epoca l’inquinamento fosse di tipo organico e non chimico come ai giorni nostri. Nel suo Favola delle api del 1714 il noto filosofo e medico Bernard Mandeville ha descritto «i vizi privati come pubblici benefici». Secondo questa visione le strade luride sono il prezzo da pagare per un’economia florida e ogni lamentela è pura ipocrisia. In effetti, In Defence of Garbage di Alexander Judd indica chiaramente i rifiuti come «l’inevitabile residuo del commercio». Emily Cockayne ammette che «le esperienze presentate nel testo costruiscono una rappresentazione smaccatamente negativa. Ho deliberatamente deciso di non presentare una visione equilibrata della vita dell’epoca - la mia intenzione è quella di presentare i suoi lati peggiori». Il soggetto della sua opera è quindi «tutto ciò che faceva lacrimare gli occhi, fischiare le orecchie, arricciare il naso e chiudere la bocca», questo è il concetto che ispira la sua esplorazione di Londra, Manchester, Oxford e Bath negli anni dal 1660 al 1770. Il percorso è agevolato dalla consultazione dei diari di alcuni cittadini dell’epoca, fra cui spiccano un pubblico funzionario concupiscente, un accademico di Oxford dedito alla maldicenza, una duchessa, uno scienziato universalista, un vegetariano ossessionato dalla pulizia, un esattore delle imposte appassionato di satira, un fabbricante di parrucche di Manchester assiduo frequentatore di pub, uno studente di legge disperatamente timido (e in seguito capo della magistratura), l’opera già citata di Bernard Mandeville, un parroco anglicano terribilmente noioso, un architetto di Londra, un modista di Bath molto osservatore e il romanziere Tobias Smollett. Mentre Oxford era essenzialmente dominata dall’università, Bath era una cittadina di campagna elegante, un luogo abitato da ricchi sfaccendati e il teatro naturale del genere di intrighi matrimoniali tanto cari a Jane Austen. Eppure, persino questo luogo di trame sofisticate avrebbe potuto offendere i nostri sensi e sensibilità di tipo moderno. [...] I titoli dei capitoli dell’opera di Emily Cockayne non sono certo stati scelti per indorare la pillola: Bruttura, Prurito, Muffe, Cacofonia, Oscurità, Lavoro e Sporcizia. Ai tempi, in effetti, la bruttura era la norma tra «le sporcizie e le rovine dei nostri vili corpi». Se teniamo presente che la sifilide faceva perdere il naso e che la cura a base di mercurio di questa malattia faceva perdere i denti, la frase «brutto come il peccato» comincia ad avere un senso. Anche le attività commerciali potevano condurre a deformazioni permanenti, come accadeva a sarti, calzolai e facchini. Ma anche avvelenare l’organismo, basti pensare agli effetti devastanti del piombo su vasai, idraulici e orafi. E neppure professioni come quella del pittore rimanevano indenni da questo fato, con l’ironia supplementare che a loro era affidato il compito di ritrarre l’aristocrazia. Le donne morivano letteralmente avvelenate dai propri cosmetici che contenevano zolfo, arsenico, feci canine e mercurio. Certo, «quando tutti sono maleodoranti, non si annusa nessuno», ma quel mondo per noi incredibilmente fetido era anche un vero e proprio rifugio per i parassiti interni ed esterni. Modaioli e poveri erano veri e propri ecosistemi di ogni tipo di organismo che porta a grattarsi. D’altronde, questo era l’inevitabile risultato del mancato lavaggio di parrucche, abiti, capelli e corpi. Le buone maniere dell’epoca, infatti, prescrivevano di «lavarsi le mani spesso, i piedi raramente e mai la testa». La risposta di una classe media in forte espansione fu quella di costruire le cosiddette London Squares - comunità chiuse a tutti gli effetti - e di creare una divisione in zone della città: il garbato West End riservato alle classi agiate e l’industriale East End, devastato da ogni forma di inquinamento. A dispetto del netto miglioramento della situazione avvenuto già a partire dal 1770, l’autrice nota che l’opinione pubblica continuò, come oggi, a lamentarsi. L’altra conclusione della Cockayne è che: «in generale gli esseri umani riescono ad adattarsi. Forse dovremmo essere grati a questi nostri antenati per aver testato i limiti della capacità di sopportazione del corpo umano».

Emily Cockayne, Hubbub, Filth, Noise and Stench in England, Yale University Press, 2007, pp. 355, 25 sterline.