Gli argentini votano i Kirchner perché voltano le spalle al Fmi
di redazionale - 30/10/2007
L’Argentina commissariata
alla famiglia Kirchner perché nessun’altro
si vuole accollare la responsabilità di fare
quello che gli argentini chiedono, a partire
dal crac del 2001: tenere le spalle voltate al
Fondo monetario internazionale. Potrebbe
essere questo il commento al risultato che
ha portato Cristiana Fernández a prendere
il posto del marito Néstor alla Casa Rosada.
In campagna elettorale gli spot della Kirchner
mostravano bambini del tutto ignari dell’esistenza
del Fondo: “Vogliamo che i vostri
figli e i vostri nipoti non abbiano nemmeno
un’idea di che sia l’Fmi”. Un appello efficace,
se lo stesso Dominique Strauss Kahn,
che sta per diventarne il capo, in una visita
recente ha detto: “Molta gente in Argentina
crede che l’Fmi sia il diavolo e hanno avuto
buone ragioni per pensarlo”.
Il risultato di Kirchner è in apparenza sostanzioso:
il 44,86 per cento, secondo gli ultimissimi
dati scrutinati, contro il 22,98 per
cento di Elisa Carrió, il 16,94 di Roberto La
vagna e il 7,74 per cento di Alberto Rodríguez
Saá. Tenendo in conto che per vincere
al primo turno bastava il 40 per cento soltanto
a patto di avere dieci punti di distacco sul
secondo, è chiaro che Lady Kirchner ce l’ha
fatta anche per qualche divisione insanabile
all’interno delle opposizioni.
Differenze ideologiche insormontabili?
La Carrió è un’ex radicale che ha scelto come
candidato alla vicepresidenza un socialista
e che era appoggiata da gruppi di ex radicali
ed ex peronisti. Lavagna, ministro dell’Economia
cui Kirchner deve il risanamento
economico dopo il crollo del peso, è un
peronista che ha a lungo lavorato con i radicali
e che era appoggiato da quel che resta
dei partiti peronista e radicale storici, con i
due ex presidenti Eduardo Duhalde e Raúl
Alfonsín. E Rodríguez Saá, appoggiato da
Menem, è a sua volta un peronista. Si aggiunga
il caso del miliardario e presidente
del Boca Junior, Mauricio Macri: un Berlusconi
argentino che la recente, strepitosa vit-
ria
a capo del governo della Città di Buenos
Aires ha consacrato definitivamente a
leader della destra. Pago del successo, non
soltanto non è sceso in campo, così come
d’altronde non aveva fatto nel 2003. Ma non
ha neanche dato indicazioni di voto. Lui, dicono
tutti, si risparmia per il 2011.
Forte è l’impressione che nessuno voglia
in realtà correre il rischio di ritrovarsi a fare
i conti con l’economia e l’Fmi. E’ vero, infatti,
che con Kirchner in questi quattro anni
la crescita è stata forte. La percentuale di
popolazione sotto il livello di povertà è passata
dal 57 del 2002 al 34 del 2005; quella disoccupata
dal 21 al 10; e col default del 2005
il debito è stato drasticamente ridimensionato
da 81 a 22 miliardi di dollari. Ma in
realtà non si è che recuperato il botto del
1998-2002, tant’è che il pil pro capite del 2006
non ha fatto altro che riallinearsi sui livelli
di otto anni prima. Andare avanti davvero
sarà una questione più ardua, anche perché
la spesa pubblica complessiva ha ripreso a
salire: due punti annuali di pil tra 2004 e
2006. Sempre nel 2006 la tassazione ha raggiunto
il livello record di un quarto del pil,
e l’inflazione è tornata al 12,3 per cento. In
sostanza, una volta riportato il peso dalla parità
col dollaro al livello più realistico di un
terzo, il decollo dell’export e il crollo dell’import
sono bastati a reggere l’economia.
Ma il settore pubblico argentino continua ad
avere un costo ben maggiore alle possibilità
di finanziamento del sistema, anche perché
dopo il default è diventato difficilissimo collocare
i nuovi bond. Da una parte, dunque,
c’è il rischio di un nuovo botto. Dall’altra,
l’unica possibilità di rinviarlo è quella di
continuare nel delicato gioco di equilibrio
che Kirchner è riuscito a fare tra Chávez e
Bush. Il governo venezuelano è ormai l’unico
soggetto a comprare massicciamente
bond argentini: ben 5,147 miliardi di dollari
in due anni. Ma il governo americano è quello
che ha aiutato Kirchner nelle trattative
per cancellare il debito con l’Fmi.