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L'ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte

di Francesco Lamendola - 31/10/2007

 

 

Una delle affermazioni più sconcertanti e, al tempo stesso, più affascinanti del Nuovo Testamento è, a nostro avviso, quella in cui Paolo definisce la morte come "l'ultimo nemico che (alla fine dei tempi) verrà distrutto". Sconcertante perché la morte, in una prospettiva puramente umana, non è affatto un "nemico", bensì il naturale e inevitabile compimento della vita: tutto ciò che nasce deve morire, questa è una legge di natura che non ammette eccezione alcuna. Affascinante perché ci insinua un dubbio sottile e tuttavia carico di speranza, nel senso teologico del termine: qualche cosa che una parte di noi crede dal profondo del cuore e che costituisce parte essenziale della nostra struttura ontologica, nel senso che vita e speranza sono pressoché sinonimi: dove c'è vita c'è speranza, dove non c'è speranza non c'è nemmeno vita (o, al massimo, c'è qualche cosa che si sforza di contraffarla, ma che ne ha solamente l'apparenza esteriore).

Vale la pena di riportare tutto il brano in questione (1 Corinzi, XV, 12-28), per cercare di coglierne il significato profondo con l'aiuto del contesto in cui è situato:

 

"Noi dunque predichiamo che Cristo è risuscitato dai morti. Allora come mai alcuni tra voi dicono che non vi è risurrezione dei morti? Ma se non c'è resurrezione dei morti, neppure Cristo è risuscitato! E se Cristo non è risuscitato, la nostra predicazione è senza fondamento e la vostra fede è senza valore. Anzi finiamo per essere falsi testimoni di Dio, perché, contro Dio, abbiamo affermato che egli ha risuscitato Cristo. Ma se è vero che i morti non risuscitano, Dio non lo ha risuscitato affatto. Infatti se i morti non risuscitano, neppure Cristo è risuscitato.  E se Cristo non è risuscitato, la vostra fede è un'illusione, e voi siete ancora nei vostri peccati. E anche i credenti in Cristo che sono morti sono perduti. Ma se abbiamo sperato in Cristo solamente per questa vita, noi siamo i più infelici di tutti gli uomini.

"Ma Cristo è veramente risuscitato dai morti, primizia di risurrezione per quelli che sono morti. Infatti per mezzo di un uomo è venuta la morte, e per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione. Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo.  Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni Principato, Dominazione e Potenza, e consegnerà il regno a Dio Padre: allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Tutto ha posto sotto i suoi piedi» [quest'ultima citazione si riferisce al Salmo 110, 1, e al Salmo 8, 7].

"Ma quando dice che tutto gli è stato assoggettato, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha assoggettato ogni cosa. E quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti."

 

Si tratta di un brano teologicamente complesso e non è questa la sede per esaminarlo in tutti i suoi aspetti, pertanto ci limiteremo alla questione che ci eravamo posta. Che vuol dire, ad esempio, che per mezzo di un uomo (cioè Adamo) è venuta la morte? Forse che gli uomini, per il fatto di essere uomini, e cioè creature viventi, non sono sempre stati soggetti alla morte? E perché, come ci domandavamo all'inizio, Paolo chiama la morte l'ultimo nemico e afferma che esso verrà distrutto dalla potenza di Cristo, affinché Dio sia tutto in tutti?

Partiamo dalla prima questione. È chiaro che, quando Paolo dice che la morte è venuta nel mondo per mezzo di un uomo, non bisogna intendere questa affermazione in senso cronologico, ma metafisico. Non c'è stato un tempo in cui l'uomo, in quanto tale, non moriva; non si tratta di un "prima" e di un "poi" misurabili lungo la freccia del tempo. "Non morire" significa che  le creature sono state portate all'essere da un atto di amore e, pertanto, che il loro destino ultimo è sempre e comunque la vita. Quella che noi chiamiamo morte è, in realtà, un cambiamento di stato: si lascia una veste vecchia e logora per indossarne una nuova e splendente; o, se preferiamo, per assumere il nostro vero aspetto, non più velato dalle illusioni spazio-temporali.

C'è un bellissimo pensiero del filosofo Gabriel Marcel che esprime nella forma più intensa e commovente questo grande mistero (ne Il mistero dell'essere, Torino, Borla Editore, 1971, 2 voll., II, pp. 131-32):

 

"Cercherò di essere molto concreto; ricorderete la frase di un mio personaggio: «Amare qualcuno significa dire: Tu non morrai'. Qual è il significato ed il valore di questa affermazione? Indubbiamente essa non è né un voto né un'esclamazione ottativa; direi piuttosto che si tratta di un'assicurazione profetica. Ma su quali garanzie si potrà basare tale assicurazione? Per l'empirico o il positivista, essa deve essere considerata assurda in quanto contraddice formalmente i dati dell'esperienza; l'essere che io amo è esposto a tutte e vicissitudini cui sono soggette  le cose, ed in quanto egli è partecipe della loro stessa natura è soggetto alla morte. Ma la questione è un'altra; si tratta cioè di sapere se questa distruzione raggiunge anche ciò per cui questo essere è proprio un essere; infatti è questa misteriosa qualità dell'essere amato, in quanto essere, che sostiene il mio amore. Ammetto che l'uso del termine qualità è, a questo proposito, inadeguato perché la qualità è un predicato ed io ho detto e ripetuto svariate volte che l'ontologia trascende la logica predicativa; d'altra parte è comprensibile che il linguaggio, a questo punto, si dia scacco da sé. L'essere che io amo non è solo un tu ma soprattutto un oggetto proposto al mio sguardo e su cui posso compiere tutte le operazioni possibili alla mia condizione di agente fisico. In quanto quel tale, egli è una cosa; in quanto tu, invece, egli sfugge alla natura delle cose; nulla di ciò che io posso dire delle cose riguarda te.

"Non mancano comunque le difficoltà; potreste infatti notare che in tal modo io ristabilisco ,in condizioni equivoche e precarie, la tradizionale distinzione fra fenomeno e noumeno concludendo che il fenomeno è sottoposto alla morte, mentre il noumeno è immortale. In realtà il noumeno è ancora quel tale, tanto che potremmo chiederci se non si tratti ancora di una pura finzione elaborata dal pensiero astratto, sulla base del dato empirico. Non si afferma l'indistruttibilità dell'essere amato da un punto di vista noumenico: l'indistruttibilità riguarda un certo legame, non un oggetto. Possiamo formulare nel modo seguente l'assicurazione profetica di cui parlavo poco fa: quali siano i cambiamenti di ciò che io ho sotto gli occhi potrà subire, io e te resteremo insieme; l'avvenimento accidentale che può sopraggiungere non può rendere caduca la promessa d'eternità inclusa nel nostro amore…"

 

Il lettore, a questo punto, riporti alla memoria quello che avevamo sostenuto nel precedente articolo E se Lara e Jurij Živago avessero avuto il telefonino?, in cui criticavamo l'impostazione implicita del libro di Maurizio Ferraris Dove sei? Ontologia del telefonino. In quella sede, avevamo - tra l'altro - sostenuto che due persone, se si amano davvero, sono unite per sempre. Nulla e nessuno le potrà separare. Forse le vicende della vita le divideranno, e magari per sempre; si cercheranno, ma non riusciranno a ritrovarsi fisicamente; non importa: sono già insieme; non si sono mai separate. Solo il più rozzo materialismo può pensare che un amore finisce perché due persone sono fisicamente separate. Se così fosse, la morte sarebbe comunque la sconfitta definitiva e irrimediabile dell'amore e della vita stessa, che è - essenzialmente - amore.

Dunque, dire a qualcuno: ti amo, significa in realtà dirgli: saremo insieme per sempre; ossia, il nostro legame non morirà mai. Ma se noi esistiamo, o siamo frutto del caso, oppure di un progetto ben preciso; ed è molto improbabile che il caso abbia potuto produrre il fenomeno "vita", anzi il fenomeno "mondo". Se le cose esistono, vuol dire che sono uscite dal non-essere; diversamente bisognerebbe ipotizzare l'eternità del mondo, ma questo non farebbe che spostare il problema del passaggio dal non-essere all'essere in una regressio ad infinitum. Resta l'altra ipotesi, che le cose siamo pervenute all'essere per un atto di amore. In tal caso, è come se l'Essere avesse promesso loro: Voi non morrete; in senso metafisico, naturalmente, e non puramente fisico. Diversamente, bisognerebbe pensare che l'Essere ha portato le cose all'esistenza solo per illuderle e, poi, precipitarle nel nulla. Ma se così fosse, di dove proverrebbe quell'intima speranza che ci pervade come un anelito d'infinito e che è un elemento reale, non meno di quanto lo sia - ad esempio - il nostro corpo fisico? Elemento reale ma, al tempo stesso, trascendente: esprime un movimento dello spirito che, tuttavia, urta contro i limiti del finito: come una scintilla di Assoluto che brilla nel regno del relativo. Ora, questa scintilla fa parte dell'essere umano: dunque è, essa medesima, essere. Pertanto  l'essere è, al medesimo tempo, condizione del nostro esistere, garanzia della nostra speranza e manifestazione dell'Amore che ci ha tratti dal non-essere.

Se tutto questo è vero, allora noi siamo fatti per la vita e non per la morte; anzi, tutte le cose che esistono, per il solo fatto di esistere, sono fatte per la vita e non per la morte; e sono tutte vive, tutte pervase da un anelito d'infinito, tutte trasfigurate dalla nostalgia dell'Essere. Tutte le cose pregano; tutte esistono per pregare; nulla esiste che non preghi e che non sia preghiera di lode e di ringraziamento (cfr. il nostro articolo Un mondo ricco di significato è un mondo incantato che prega in ogni fibra). Vi è un'unica eccezione in questo quadro generale, ed è costituita dalla persona: la parte autocosciente della creazione. L'essere umano, per quanto ne sappiamo, è - in quanto dotato di libertà - l'unico ente che possa rifiutarsi a questa legge universale; l'unico ente che possa rifiutarsi di pregare; l'unico che possa preferire la bestemmia, ossia il rifiuto dell'Essere e il rifiuto dell'Amore.

E vi sono, di fatto, delle anime perse che preferiscono il rifiuto radicale dell'Amore e il perseguimento deliberato del Male, come abbiamo visto in un precedente articolo (cfr. L'anima criminale come problema filosofico).Se la persona è, come altra vola l'abbiamo definita, sostanza spirituale incarnata e dotata di libera volizione, individui come Pichushkin (un abitante di Mosca che negli ultimi anni ha assassinato, senza un movente, molte decine di persone), che cosa sono, esattamente? Sono ancora persone, o appartengono a un altro genere di creature? Sono forse creature demoniache? Da un punto di vista filosofico e teologico, che è quello che qui ci interessa, si tratta di una questione decisiva sapere se queste creature demoniache diventino tali in seguito a una serie di libere scelte o se siano dominate, sin dall'infanzia, da forze più grandi di loro, che praticamente le trasformano in ciechi schiavi di una malvagità insensata e senza limiti. Di fatto, nonostante la nostra convinzione sulla fondamentale libertà morale della persona, lo sguardo duro e impenetrabile di un uomo come Aleksandr Pichuiskin, che non prova alcun rimorso o rammarico per i suoi innumerevoli delitti, è destinato per noi a rimanere un grande, insondabile, pauroso mistero.

Nemmeno realtà raccapriccianti e difficili da accettare come queste, tuttavia, possono smuoverci dall'intima convinzione che l'orizzonte ontologico proprio all'essere umano è quello della speranza; che la speranza è una forma di trascendenza; che la trascendenza è una preghiera che gli enti levano all'Essere. E la preghiera degli enti allo splendore dell'Essere è la prova del fatto che ogni cosa è fatta per la vita e che la vita, non la morte, è la condizione normale di tutto ciò che esiste. Questo, forse, è ciò che voleva dire Paolo nella prima lettera ai Corinzi. La vittoria della morte è solo apparente, non tocca l'essenza delle creature. Dov'è allora la tua vittoria, o morte? Dov'è il tuo amaro pungiglione?