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Le ragioni per cui la Fiat è diventata socialdemocratica

di Marco Ferrante - 31/10/2007

Può un imprenditore europeo fare l’imprenditore

senza essere un po’ socialdemocratico?

Questo tema è presente nei

discorsi dell’amministratore delegato della

Fiat, Sergio Marchionne, almeno dallo

scorso anno. Ben prima, cioè, del suo intervento

a Mattinata, in provincia di Foggia,

il 22 settembre scorso a una riunione

di economisti industriali, raccolti intorno

alla rivista l’Industria, diretta da Fabio

Gobbo, consigliere economico della presidenza

del Consiglio. Il discorso di Marchionne

ebbe una certa eco. Fu subito ripreso

dal Corriere della Sera (che ne pubblicò

ampi stralci) e commentato il giorno

successivo da Piero Fassino, il quale si

compiacque di vedere in Marchionne, appunto,

un vero socialdemocratico.

L’attenzione intorno a Marchionne è inevitabile.

E’ un italiano, nato in Abruzzo, figlio

di un maresciallo dei Carabinieri trasferitosi

in Canada dopo la pensione per cominciare

una nuova vita. Si laurea un paio di volte,

e dopo aver cominciato a lavorare in Canada

si ritrova in Svizzera, a causa della fusione

che ha coinvolto la sua società. Lì conduce

due eccellenti operazioni manageriali, prima

alla guida di Alusuisse, produttrice di alluminio,

e poi con una società di servizi di

controllo, Sgs, partecipata dagli Agnelli. Un

socio degli Agnelli, August von Finck, lo suggerisce

come possibile successore di Giuseppe

Morchio alla Fiat. Cosa che accade. Prima

di morire Umberto Agnelli lo indica come

guida per il tentativo estremo di salvare il

poco che a Torino si potesse salvare. Insomma,

Marchionne è per anagrafe, cultura esistenziale

e carattere un personaggio che si

presta all’interpretazione ed eccita le speculazioni,

soprattutto in un paese come il nostro

incline alle adozioni dei potenti.

Ma che cosa pensa Marchionne, qual è il

suo profilo culturale di manager industriale?

Che cosa emerge dai suoi interventi pubblici?

Già nel dicembre del 2006, ospite del

top management di General Electric a Crotonville,

Marchionne aveva posto un accattivante

problema di cultura economica al suo

uditorio. Il senso del ragionamento – poi ripreso

successivamente – era il seguente: i

modelli di capitalismo sono molti, ne conosciamo

almeno tre, quello americano, quello

europeo, quello asiatico. Questi tre capitalismi

hanno un solo fattore comune: il

mercato, cioè un sistema di concorrenza su

qualità e prezzo. Per il resto i tre capitalismi

corrispondono a modelli profondamente differenti.

Quello americano è caratterizzato da

una cultura del merito e del reddito come ricompensa

del lavoro, dell’attivismo, della

volontà. Quello asiatico è fatto di grandi

chaebol, strutture di stato, fondi sovrani, regole

selvatiche che si vanno organizzando.

Infine, quello europeo, il modello più complesso

in cui – secondo Marchionne – la differenza

è data dalla responsabilità sociale,

cioè dalla quota di spesa pubblica che viene

convogliata sul sistema di welfare (quota di

spesa che a metà degli anni Settanta cresce

e si separa dalla dinamica americana, anche

a causa della crescita del potere del sindacato).

Questa quota di spesa pubblica si ottiene

mediante prelievo fiscale. Il prelievo è

un dato strutturale con cui cittadini e imprese

devono fare i conti.

Questa premessa è importante per capire

come ha fatto Marchionne a gestire l’avvio

del risanamento di Fiat senza entrare in

conflitto con il sindacato. Se si vive in un sistema

in cui il prelievo fiscale è sostanzialmente

incomprimibile, l’unico modo per

neutralizzare il costo è recuperarlo laddove

va a finire, le casse dello stato. E’ la tesi so-

stenuta su Libero da Mario Unnia: la vera

ragione per cui il capo della Fiat faceva il

socialdemocratico andava cercata nella necessità

dell’azienda di trattare con il governo

il problema di Termini Imerese – stabilimento

in cui il costo del lavoro è eccessivo

rispetto ad altre aree europee dove si potrebbero

sviluppare investimenti. Certo, in

questo tipo di riflessioni c’è un tic culturale:

chi nei confronti della Fiat conserva una forma

di ostilità costruita sul rigetto dell’egemonia

economica e di potere esercitata da

Torino sul sistema industriale italiano, finirà

prima o poi col dire che da questo punto

di vista non c’è differenza tra marchionnismo

e romitismo. Ma non è vero (lo stesso

Romiti lo sa, e ha contestato la ricostruzione

fatta da Marchionne sul risanamento della

Fiat in una conversazione con Ferruccio de

Bortoli, dopo il discorso di Mattinata). Per

Romiti, erede della cultura di Valletta e del

senatore Agnelli, le dimensioni del sistema

pubblico, delle sue pretese, delle sue esigenze,

corrispondevano al perimetro nazionale

in cui principalmente si svolgeva l’attività

della Fiat. La Fiat dava impiego a

250.000 persone, forniva un contributo cospicuo

al gettito fiscale, in cambio chiedeva

protezioni di mercato (ma tutti i mercati nazionali

erano protetti) e contributi pubblici.

Per questo Romiti non ha mai considerato

centrale il prodotto (come del resto Gianni

Agnelli), e ha sempre considerato centrale

lo scambio politico azienda-stato.

Il marchionnismo è un’altra cosa. Al centro

dell’azione c’è un prodotto da vendere su

un mercato domestico privo ormai di protezioni,

e sui mercati internazionali in cui la

quota di mercato è ridotta della metà rispetto

ai bei tempi. Marchionne ritiene che in un

mondo ideale non dovrebbe esserci rapporto

di scambio con il sistema pubblico. Ma essendoci,

va limitato a un equo rapporto di

ragionevole contrattualismo. Non si può intervenire

drasticamente sulla parte fiscale

né sul costo del lavoro. Bene. Allora, sulla

prima questione con i suoi uomini cerca di

trattare quanto possibile: per esempio, un

emendamento alla Finanziaria chiede la

proroga del regime della rottamazione per

le auto a emissioni inquinanti (che comunque

è un provvedimento la cui ricaduta non

è solo un vantaggio per la Fiat, il vantaggio

vale per tutti i produttori, e da un punto di

vista ambientale dovrebbe concorrere al bene

pubblico), e c’è da risolvere la questione

Termini Imerese. Sul costo del lavoro, invece,

Marchionne cerca di stabilire relazioni

sindacali fondate sulla fiducia nella leadership

(finché la leadership ha successo), sulla

capacità di mantenere le promesse e sulla

contropartita economica, come ha fatto a

partire dal contratto integrativo firmato anche

dalla Fiom lo scorso anno.

Il tema della leadership è ricorrente

nello schema del discorso-tipo dell’a.d. di

Fiat, sin dal novembre del 2006, quando all’assemblea

generale dell’Anfia, spiega

per la prima volta che i successi raggiunti

sono il risultato di una nuova idea di leadership

fondata su cinque pilastri: la nuova

Fiat è una meritocrazia, ha capacità di

guidare il cambiamento, ha introiettato il

concetto di competizione, raggiunge risultati

in linea con la concorrenza, sa mantenere

le promesse. Questo approccio deve convincere

i mercati, ma anche il sindacato

con cui il nuovo capo della Fiat riesce a

stabilire un clima partecipativo. Spiega a

più riprese – anche con una certa dose di

furbizia – che il peso del costo del lavoro

in fondo può essere sopportato. Quando

decide di ridurre il personale, simbolicamente

lo fa da sinistra: liquidando alcune

centinaia (il numero esatto non è mai stato

reso noto) di manager intermedi. E’ come

se un serio processo di riforma liberale

delle corporazioni cominciasse dai notai

e non dai tassisti. Anche da questo punto

di vista, Marchionne si comporta in un

certo senso da socialdemocratico, perché

sa governare un fase di dura ristrutturazione

ribaltando gli schemi: qui sono i manager

burocratizzati ad andare via. La mossa

gli guadagna benevolenza sociale nella fase

di avvio del risanamento e la rincorsa

dell’establishment di sinistra, spiazzato

dalla fine del vecchio sistema di relazioni

industriali, che presiedeva al rapporto con

la Fiat (sistema reso più complesso dall’aura

torinese e dalla regalità sostitutiva).

L’imprenditore schumpeteriano

E qui arriviamo alla terza declinazione

del socialdemocratismo di SM, quella individuata

in una conversazione con Daniele

Manca del Corriere della Sera da Piero Fassino,

dopo il discorso di Mattinata. Secondo

Fassino quando Marchionne sostiene “che

va accettata la sfida dell’innovazione e del

nuovo, senza abbandonare al suo destino chi

subisce le conseguenze del cambiamento”,

si serve di “una forte impostazione riformista,

direi socialdemocratica”. In realtà c’è

una forzatura. Il senso del ragionamento che

l’intervistatore induce in Fassino va inquadrato

nella discussione pubblica sul nuovo

orizzonte culturale di una forza di sinistra

moderata. Marchionne è intervenuto a Mattinata

proprio mentre uscivano due pamphlet

– “Il Partito democratico per la rivoluzione

liberale” di Michele Salvati” e soprattutto

“Il liberismo è di sinistra” di Alberto Alesina

e Francesco Giavazzi – entrambi destinati

a incidere nel dibattito sull’ispirazione

economica del nuovo partito. La frase di

Marchionne sul senso del liberalismo come

protezione degli esclusi – elemento di base

del liberalismo (strumento in sé, cioè né di

destra né di sinistra) – sembrava andare nella

direzione del liberalismo compassionevole

di Alesina-Giavazzi e sembrava concorrere

alla definizione di un liberalismo compatibile

con l’ethos di sinistra.

Ma chi lo conosce bene ritiene che Marchionne

non abbia simili preoccupazioni. E’

un solido liberale cresciuto in una educazione

anglosassone. Nel discorso all’Unione

industriale di Torino del giugno 2006, che

viene considerato il suo discorso programmatico

– l’unico su cui si era sviluppato un

dibattito, prima di quello di Mattinata – la

principale citazione è, insieme con quelle

di un paio di eroi del sogno americano

(Mark Twain e Warren Buffet), una frase di

Joseph Schumpeter: “Il processo del cambiamento

industriale rivoluziona continuamente

la struttura economica dal suo interno,

distruggendo continuamente la vecchia

e creando continuamente una nuova. Questo

processo di Distruzione Creativa rappresenta

l’essenza stessa del capitalismo. Il capitalismo

è questo, e le aziende che operano

secondo le sue regole si devono adeguare”.

E’ vero, Shumpeter, economista di formazione

giuridica, fu un liberale anomalo,

riteneva che i prezzi si potessero fissare attraverso

equazioni come nella teoria dell’equilibrio

economico generale. (La circostanza

gli guadagnò la disistima di Mises

che lo malsopportava perché, dopo essere

stati quasi amici, avendo frequentato insieme

il seminario di Eugen von Böhm-

Bawerk, Schumpeter ebbe più successo in

vita.) Ma, checché ne pensasse Mises, c’è

una parte dell’opera schumpeteriana, questa

sullo sviluppo e la distruzione creatrice,

fondamentalmente liberale. Marchionne se

ne serve per definire la sua filosofia.

Dunque, nessun socialdemocratismo – se

non con riguardo all’equità prodotta dalle

politiche liberali. Persino lo scaltro intervento

sulla trattativa sindacale, l’aumento di

30 euro unilateralmente anticipato da Marchionne

non va guardato come un’operazione

di segno ideologico: non c’è socialdemocrazia,

né paternalismo (o maternalismo secondo

la versione del Manifesto che ha commentato

“Mamma Fiat”). C’è il pragmatismo

(liberale) di chi intende risolvere problemi

legati alla produzione: sono disposto a fare

delle concessioni salariali, voglio in cambio

elasticità e disponibilità sulla produzione

(per esempio la gestione degli straordinari).

Ora, succede che per impadronirsi di un

modello di successo, alcuni nel dibattito italiano

cerchino di piegarlo ai loro schemi.

Marchionne è diventato oggetto di inseguimento

da parte di leader riformisti sindacali

e politici (da Epifani a Fassino) che non

volevano restare spiazzati dallo spostamento

del confronto fuori dai confini culturali

del vecchio patto tra produttori. Per il sindacato

che opera sul campo, a cominciare dalla

Fiom, la questione è ancora più delicata.

C’è in ballo l’identità e il ruolo. Come ha detto

una volta il segretario della Fiom torinese

Giorgio Airaudo: “Marchionne è il nostro

peggior concorrente”.

E un’analoga sensazione di disagio e

spiazzamento si può ravvisare in un pezzo

di dirigenza confindustriale. Il pragmatismo

di Marchionne e dei suoi uomini rischia

di andare più lontano nella riforma

del sistema di relazioni industriali, nel

rapporto con il sindacato, nella struttura

dei contratti di quanto non sia riuscito all’ideologismo

militante e antisindacale

nella battaglia sull’articolo 18.