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Essere è cercare un segno nelle cose e sui volti delle persone

di Francesco Lamendola - 31/10/2007

 

 

 

 

Se l’essere umano è, come altrove abbiamo sostenuto, un “viandante con la doppia cittadinanza”, quella del relativo e quella dell’Assoluto, ne consegue che il senso e l’essenza profonda della sua vita consistono in una continua ricerca dell’oltre, del proprio trascendimento ontologico. Egli è alla ricerca di segni che gli permettano di orientarsi, nella fitta foresta del relativo, verso l’Assoluto: è per questo che non può accontentarsi di usufruire della superficie delle cose. In lui vi è una fame di qualche cosa d’altro, di un segno, appunto, che lo guidi verso il piano dell’Essere; ma non esiste un criterio di autenticità che gli permetta di distinguere i segni autentici da quelli falsi. Sente, tuttavia, di avere in sé una nostalgia e come una vaga reminiscenza dell’Essere e spera che essa possa aiutarlo nella sua ricerca, che possa svolgere la funzione di un filo di Arianna nel labirinto del molteplice e dell’illusorio.

Nell’articolo Un mondo ricco di significato è un mondo incantato che prega in ogni fibra abbiamo affermato che, se ogni cosa promana dall’Essere, che l’ha tratta dal nulla del non-essere, allora ogni cosa ha un senso, uno scopo; e che ogni cosa altro non è che una differente manifestazione di un unico movimento spirituale: la preghiera di lode e di ringraziamento. Le cose ringraziano l'Essere per il fatto di esistere e gli rendono lode perché nulla esiste fuori dell'Essere. Tutte le cose che esistono, esistono per pregare; e tutte le cose che pregano, levano in coro un'unica preghiera, quella rivolta all'Essere.

Al tempo stesso, abbiamo osservato (nell’articolo L’ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte) che esiste una sola, ma significativa eccezione in questo quadro generale, ed è costituita dalla persona: la parte autocosciente della creazione. L'essere umano, per quanto ne sappiamo, è - in quanto dotato di libertà - l'unico ente che possa sottrarsi a questa legge universale; l'unico ente che possa rifiutarsi di pregare; l'unico che possa preferire la bestemmia, ossia il rifiuto dell'Essere e il rifiuto dell'Amore. 

La conseguenza di quanto detto sopra è che, mentre tutte le cose del mondo non-umano pregano e, pregando, lasciano trasparire chiaramente dei segni che rimandano all’Essere, l’uomo è l’unica creatura che possa non lasciar trasparire alcun segno sul suo volto.

Avete mai osservato i volti degli operai che escono dalla fabbrica, al termine della loro giornata lavorativa? Non esprimono semplicemente stanchezza, o stravolgimento, o esasperazione; esprimono soprattutto alienazione. Sono totalmente opachi, privi di segni. E, dal momento che tutto il mondo - oggi - tende a riprodurre i meccanismi alienanti e disumani della catena di montaggio, perfino nel cosiddetto tempo libero, sempre più ci vediamo circondati da volti inespressivi - specchi del nostro stesso volto -, totalmente chiusi alla dimensione della trascendenza e della speranza. Sono volti di-sperati, nel senso pieno dell’espressione; volti dai quali traspare tutta la disperazione di un orizzonte esistenziale che si è chiuso alla trascendenza e si è illuso di poter essere autosufficiente.

“Siete come tutta la gente, tutta la gente che si incontra. Sul vostro viso non v’è nessun segno…”, dice con amarezza Christiane, la protagonista del dramma Le monde chassé (Il mondo in frantumi) di Gabriel Marcel.

E ancora:

 

“Tu non hai a volte l’impressone di vivere – se questo si può chiamare vivere – n un mondo in frantumi?Sì, in frantumi, come un orologio rotto. La molla non funziona più; in apparenza nulla è cambiato, tutto è a posto., Ma se si porta l’orologio all’orecchio, non si ode più nulla.  Capisci: il mondo, ciò che noi chiamiamo il mondo,  il mondo degli uomini… una volta aveva un cuore, ma si direbbe che questo cuore abbia smesso di pulsare.”

 

Su questi volti spenti, opachi, inespressivi, disperati, noi cerchiamo invano un segno; oppure vi cerchiamo non un segno, ma piuttosto dei segnali – che sono tutt’altra cosa. Dei segnali di disponibilità sessuale, per esempio: spiandoli e fiutandoli con quel sesto senso del cacciatore che si è posto sulle tracce della selvaggina, pronto a sfruttare il sia pur minimo segnale di incertezza o debolezza da parte della preda. Vi sono dei filosofi moderni, come Jean Paul Sarte, che a questo riducono la possibilità di interazione fra gli esseri umani: un commercio sessuale, prevalentemente a sfondo sadico o masochista. Niente agape, niente philia: solo l’eros più brutale; per il resto, l’altro non è che una minaccia alla sfera della mia libertà. La conclusone logica di una tale concezione è, in perfetta coerenza, che “l’Inferno sono gli altri”.

Sì, è vero: l'Inferno sono gli altri, quando gli esseri umani non cercano nell'altro che il possesso, il dominio o  - situazione opposta ma complementare - il bisogno e la dipendenza. Platone, nel Simposio,  faceva dire a Socrate che Eros è figlio di Povertà e di Acquisto: nel senso che nasce da una mancanza, da una povertà e sfocia in un arricchimento e in un potenziamento dell'essere. Ma l'eros, l'amore passionale, checché se ne dica rimane una forma di relazione fra due soggetti terribilmente ambigua, sospesa com'è sul crinale a fil di rasoio proteso contemporaneamente su due abissi: l'abisso del dominio e quello della dipendenza. Anche se i suoi cantori stonati e sfiatati continuano a esaltarlo come la forma più sublime di esperienza umana (cfr. il nostro articolo L'amore passionale: una invenzione della modernità?), esso rimane molto al di sotto sia dell'amicizia, sia dell'amore spirituale; perché basato sempre, anche quando è più profondo e sincero, su un desiderio di reciprocità, su una aspettativa almeno parzialmente egoistica. Ciò significa che, se non riesce ad evolvere verso le sfere superiori dell'amicizia e dell'amore spirituale, esso contiene già in se stesso le premesse della propria nemesi e del proprio tradimento, con tutto il suo triste seguito di delusione, amarezza e sofferenza.

D'altra parte, il viandante che cerca sul volto dell'altro i segni che lo aiutino a  dirigersi verso la dimora dell'Essere finisce spesso per confondersi del tutto, allorché scambia il contenitore per il contenuto e si ferma alla superficie del volto. Ad esempio, è frequente che egli si lasci abbagliare dalla bellezza; è anche normale, in un certo senso: ma, se tale folgorazione si riduce ad una idolatria della bellezza chiusa in se stessa, paga di sé e autosufficiente, invece di trovare dei segni egli non troverà altro che dei segnali che non lo aiuteranno affatto a seguire la giusta via, anzi lo spingeranno a smarrirla.

Lo abbiamo già detto (cfr. Le piante e la bellezza): la bellezza è una forma di potere e, come tutte le cose che hanno una parentela ontologica col potere, comporta una grande responsabilità ed esige il possesso di un chiaro senso della misura. Vi sono molte, troppe persone che non sanno indossare la propria bellezza, così come non saprebbero indossare un vestito realmente elegante; la ostentano nel modo più volgare e banale, vanificando il dono che la natura ha fatto loro. Così pure vi sono moltissime persone che non sanno apprezzare l'altrui bellezza, perché si fermano ai suoi aspetti più vistosi e superficiali e non sanno compiere il più piccolo movimento verso la verità interiore, di cui la bellezza - se c'è - non è che una naturale prosecuzione. Insomma la bellezza è una porta sulla strada che conduce all'Essere e non un tempio pagano ove prostrarsi e adorare una divinità capricciosa e tirannica; sul volto di una persona bella non è detto vi siano dei segni più che sul volto di chiunque altro. Ora,  sono proprio i segni ciò di cui, come viandanti, abbiamo realmente necessità; non i segnali di seduzione o di disponibilità erotica.

Ad ogni modo, è certo che nessun uomo è un'isola e che l'ambiente sociale e culturale in cui si vive opera un profondo influsso sulla realtà interiore delle persone e, di conseguenza, sui loro volti. Abbiamo fatto l'esempio di una fabbrica al momento dell'uscita degli operai e abbiamo aggiunto che tutta la società occidentale moderna, per come è organizzata e per i fini che si è dati, somiglia a una grande industria di tipo tayloristico, ove il lavoro è organizzato scientificamente tagliando tutti i tempi "morti" e ponendo gli esseri umani nell'obbligo di seguire i ritmi delle macchine. Quindi in una società, come la nostra, brutalmente protesa all'affermazione del profitto economico e alla celebrazione di tutto ciò che è téchne, una società che ha fatto del suo meglio per sopprimere l'esigenza del trascendente o anche, semplicemente, della autenticità degli esseri umani, ormai incapaci di riconoscersi e di scegliersi, i volti sono diventati inespressivi e privi di segni. Ciò è accaduto ai volti delle persone così come ai volti delle cose: delle abitazioni, delle strade, dei luoghi di lavoro, delle città; perfino delle chiese!

Ovunque si osserva lo stesso fenomeno, sui volti delle persone come sui volti delle cose: quando l'anima si spegne, quando l'anelito alla trascendenza muore, si reagisce con una quota aggiuntiva di interventi artificiali per rendere più seducente l'apparenza: magari ricorrendo a mille trucchi e a mille espedienti inconfessabili. Giova ripeterlo: le cose hanno un volto significativo, ossia ricco di segni dell'Essere, nella misura in cui possiedono un'anima. Un'autostrada a cinque corsie, un grande viadotto che perfora una valle alpina con i suoi giganteschi piloni di cemento, un aeroporto e un grande centro commerciale saranno forse dei luoghi utili, ma non hanno un'anima e, quindi, non hanno alcun segno da offrirci - se non, forse, nell'umile piantina che cresce in una spaccatura dell'asfalto, nel merlo che canta fra i rami di uno striminzito alberello, nella pozzanghera che riflette l'arcobaleno dopo la pioggia. Le cose che hanno un'anima, pregano; e le loro preghiere sono appunto i segni che ne caratterizzano il volto.

La stessa cosa vale per le persone. Se una persona ha perduto la sua anima, nessuna preghiera sale più da lei verso l'Essere e nessun segno traspare dal suo volto, per quanto possa abbagliare il prossimo con l'ostentazione di una bellezza sensuale e provocante. Anche una persona di tal genere è divenuta una macchina, come tutte le altre macchine che abbiamo costruito per servirci ma che, alla fine dei conti, ci hanno imposto i loro ritmi e la loro logica; è una macchina sessuale, né più né meno. La si ammira con la stessa concupiscenza grossolana con la quale i fanatici delle automobili contemplano l'ultimo modello di auto sportiva. Tuttavia la bellezza umana, per quanto si giovi degli espedienti della cosmesi o della chirurgia estetica, finirà per svanire, mettendo a nudo rughe impietose e altri difetti dell'invecchiamento; perciò la persona-macchina risulterà sempre perdente nel confronto con la macchina vera e propria. Giungiamo così alla Nemesi di una società che, adorando la tecnica e l'esasperazione sensuale, si stanca prima delle persone che non delle macchine; che continua ad andare in estasi davanti a quattro pezzi di metallo, mentre relega in un cantuccio i simboli erotici dell'umanità ipersessuata che non riescono più a tenere il passo del modello imperante di efficienza ed eterna giovinezza.

Dobbiamo pertanto riscoprire l'anima delle cose e riscoprire il senso della preghiera, qualunque significato vogliamo dare a questa parola. Dobbiamo allontanarci dal chiasso e dalla competizione per poter riudire la voce interiore, la voce della chiamata, dove quel che ci viene chiesto è non di avere, ma di essere: di essere fedeli a noi stessi e, di conseguenza, fedeli all'Essere che ci ha voluti per amore. Dobbiamo riscoprire, reagendo all'uniformità e all'omologazione oggi dilaganti (anche nel regno della bellezza), l'unicità e l'irripetibilità di ciascun essere umano, caratteristiche che ne farebbero di per sé una creatura affascinante e ricchissima di segni, se egli stesso non facesse di tutto per imbruttirsi e rendersi anonimo - credendo, per giunta, di migliorarsi.

Solo così potremo essere un ponte, l'uno per l'altro, verso un più alto livello di realtà. Solo così potremo tornare a far battere il cuore del mondo; a spalancare, nei nostri stessi volti, la porta dell'Essere.