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L'essere si manifesta anche nello stormire di una fronda

di Francesco Lamendola - 01/11/2007

 

 

 

Preoccupazioni. Già, e chi non le ha? Di salute; familiari; di lavoro. E cento cose da fare; e la stanchezza che risale come un velo di nebbia.

Una grande finestra spalancata sul giardino, e la luce di un bellissimo mattino di ottobre che piove discreta giù dal tetto e incendia le chiome dei tigli, facendo avvampare le mille tonalità di verde, di giallo, di ocra, di arancio, di marrone in un tripudio di vita.

Una fronda, più vicina, si protende fino a sfiorare le grandi vetrate, oscillando lentamente nella brezza mattutina: par quasi di toccarla.

Monti e colline vi acclameranno e tutti gli alberi dei campi di batteranno le mani, scrive il profeta Isaia, che è stato anche (come giustamente faceva notare un personaggio dei Miserabili di Victor Hugo) un grande, grandissimo poeta.

Sì, pare proprio che quella fronda di tiglio, gialla e arancio sullo sfondo terso del cielo azzurro, stia battendo le mani e stia facendo dei cenni di saluto: festosi, annunciatori di bene. La mente si concentra ad osservarla, ma non analizzandone i particolari, bensì penetrando di slancio verso il suo cuore, la sua essenza riposta.

Ed ecco, di colpo la porta misteriosa si socchiude e non vede più, davanti agli occhi, quella fronda, di quell'albero e di quel giardino, in quel giorno e in quell'ora e in quella luce, bensì vede soltanto e semplicemente la fronda, la fronda che stormisce e si culla nel vento, la fronda che accenna e che saluta e che annunzia il bene; e poi la fronda e basta, la fronda in se stessa. Non è più una fronda di tiglio né una fronda ottobrina, non è più una fronda dai colori dorati dell'autunno e non è più una fronda che fa venire in mente Isaia, Victor Hugo o magari un quadro di Gustav Klimt o di Andreas Zorn. No: è la fronda, e basta.

La fronda, in tutta la sua gloria.

In tutta la sua bellezza, in tutto il suo splendore.

È la fronda: è lei, un qualche cosa che esiste perché ha una sua ragione di essere al mondo, in sé e per sé; che è stata chiamata all'esistenza e ha detto alla chiamata, generosamente.

È la fronda assoluta, la fronda platonica, forse; eppure, allo stesso tempo, è anche qualcosa d'altro da sé, qualcosa di non individuale e di non individuato.

È una manifestazione dell'Essere, una rivelazione dell'Essere: sacra rivelazione, ierofania, cui bisogna accostarsi in punta di piedi.

E infine non è più una manifestazione dell'Essere, ma è l'Essere. Perché l'Essere è ovunque, ovunque ci sia una chiamata all'esistenza e una risposta affermativa alla chiamata. E, come dicono i saggi Zen, tutto l'universo è racchiuso nel più piccolo granello di sabbia o nella più piccola goccia del mare.

Così la mente, contemplando la fronda, finisce per non vedere più la fronda, ma ciò che la fronda - come ogni altra cosa - occulta e rivela al tempo stesso: il segreto dell'Essere, il nostro, ineffabile segreto.

Si spalanca una nuova prospettiva. L'oggetto perde la sua opacità, la sua inerzia, la sua pesantezza e diventa vivo, luminoso, ineffabile.

Non è più un oggetto; è divenuto l'Essere - al di fuori dello spazio, al di fuori del tempo.

 

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Forse è proprio questo il segreto dei bambini, la naturalezza con cui accedono alla dimensione altra del mondo - come Alice attraverso lo specchio. I bambini, davanti alle cose, non valutano, non calcolano, non giudicano. Non si chiedono, davanti a una fronda che ondeggia piano nel vento, se sia una fronda di tiglio oppure di platano o magari di acero. È una fronda e basta. Ma proprio perché è solo e semplicemente una fronda, è anche qualcos'altro. Più precisamente, è una porta socchiusa su un altro piano di realtà.

Possiamo formulare questo concetto nei seguenti termini: quando le cose sono assolutamente se stesse, non si esauriscono mai nella loro mera inseità, ma si trasfigurano nella dimensione dell'essere e si espandono fino ad abbracciare il mondo intero (come il granello di sabbia o la goccia d'acqua dei maestri Zen).

Per le cose, tutto questo è naturale. Le cose sono se stesse e, quindi, sono anche altro da sé: sono l'immagine dell'Essere da cui provengono. Un bosco, una cascata, una nuvola, un cielo stellato, un fiore che si ripiega al tramonto sono se stessi e nient'altro che se stessi. Di conseguenza, il loro essere si espande, si dilata, ingigantisce e al tempo stesso sfuma e si tramuta in qualche cosa di diverso da sé.

È il grande mistero della rivelazione, o meglio della ierofania: la rivelazione del sacro. Tutti i grandi mistici la conoscono bene; è di essa che parla san Francesco nel Cantico delle creature, ove ripete con slancio e fervore: Laudato sie, mi Signore, cum tucte le tue creature.

Vi è una creatura, tuttavia, che può non essere se stessa, perché possiede la facoltà di decidere se esserlo e di assumersene la responsabilità; e questa creatura è l'uomo. Di fatto, molti esseri umani scelgono di non essere se stessi, di camuffarsi, di apparire come altro da sé. Una tale scelta li rende opachi e pesanti, come la vetrata di una chiesa in rovina, abbandonata da anni: una vetrata sporca e coperta di ragnatele, al punto che la luce più intensa non arriva se non come un debolissimo e vago chiarore. Si intuisce che fuori splende un bel sole, tuttavia è come essere nella semioscurità di una profonda cantina.

Da ciò derivano due conseguenze.

La prima è che quei rari esseri umani che sono capaci di riconoscersi e scegliersi, rispondendo alla chiamata e avendo il coraggio di essere pienamente se stessi, divengono a loro volta delle preziose porte dischiuse sul mistero dell'Essere. Da essi filtra la luce, la luce che illumina il cammino a tanti viandanti, smarriti o incerti sulla strada da prendere.

La seconda è che solo gli esseri umani che scelgono di essere pienamente se stessi, divenendo con ciò stesso delle persone nel vero significato della parola, sono in grado di vedere le cose nella loro intima dimensione ontologica. Solo loro sanno vedere le cose in se stesse e, di conseguenza, come altrettante porte socchiuse sull'Essere.

I poeti vi riescono, a volte; per questo, con un po' di esagerazione, si dice che saranno i poeti a salvare il mondo - se il mondo si può ancora salvare. Ma i poeti vi riescono solo per un istante e, subito dopo, precipitano dalle altezze della ierofania all'angoscia e alla disperazione di un brusco ritorno alla grigia e piatta dimensione quotidiana. Il loro punto d'appoggio, infatti, è costituito unicamente dalla sensibilità: appoggio sempre elusivo e sempre sfuggente, che nasce dal desiderio, cioè - ancora - da una forma di attaccamento alle cose.

Questo, infatti, è il grande segreto della ierofania: che solo liberandosi dall'attaccamento alle cose si diventa degni di goderne tutto lo splendore; di penetrare fino alla numinosità dell'Essere attraverso di loro.

Un autentico mistero: come dire che solo divenendo ciechi si riesce a vedere realmente le cose. E un po' è proprio così; anche Platone affermava che noi cominciamo a vedere davvero le cose solo quando chiudiamo gli occhi del corpo.

Perciò non saranno i poeti a salvare il mondo.

I poeti, come i bambini, sfiorano il mistero dell'essere, ma senza mai penetrarvi: vi girano intorno, struggendosi di nostalgia. Però la strada che scelgono per giungervi è la strada del sensibile, dunque del relativo. Dal piano del relativo non si può passare su quello dell'Assoluto, se non a patto di oltrepassarlo con uno stacco netto, con un salto. Il sensibile non può mai trascendersi veramente, pertanto non può offrire che un pallido surrogato della ierofania: qualche cosa che vi somiglia, ma molto da lontano.

La musica si colloca già su un gradino più alto. La musica è fatta di suoni, cioè di un elemento sensibile molto rarefatto, molte tenue, che tende a sfumare nell'immateriale. Anche la parola, la parola poetica, è un elemento tenue, almeno in confronto alle arti figurative; però essa tenta di evocare direttamente le immagini della dimensione spirituale, mentre la musica lo fa solo indirettamente. La poesia tenta di raffigurare le cose; la musica rimanda a un piano di realtà ove le cose non sono più cose, ma pure emozioni.

Eppure anche la musica è inadeguata a introdurre il mistero dell'Essere. Non mediante le emozioni, ma mediante la contemplazione equanime e totalmente disinteressata è possibile tentare di avvicinarvisi. In altre parole, occorre recidere l'ultimo legame con il mondo dell'ego, del desiderio, dell'attaccamento. Come quando si sale in montagna: bisogna alleggerirsi di tutta l'inutile zavorra. Nello zaino deve esservi posto solamente per l'essenziale.

Non si interroga il mistero dell'essere come se fosse una gita di piacere. E non si può improvvisare, barare, bluffare: proprio come quando si va in montagna. L'allenamento, la preparazione, la disciplina o ci sono o non ci sono. Bisogna costruirli un poco alla volta, umilmente, giorno dopo giorno.

In realtà, avvicinarsi al mistero dell'Essere è più facile di quel che non si creda: come lasciarsi sostenere dall'acqua, anche da parte di chi non sappia nuotare. Ma ciò richiede un livello di semplicità, di confidenza, di apertura coscienziale che, normalmente, non s'improvvisa. Se non avessimo reciso il nostro legame con le cose e con la nostra stessa interiorità, sapremmo che le cose sono lì per accoglierci, per sostenerci, per rivelarci l'Essere.

Ma noi, quel legame, lo abbiamo perduto. Perciò vaghiamo come pellegrini che non conoscono la strada: ricchi, ci siamo resi indigenti per pura e semplice ignoranza. Non sapevamo il tesoro incalcolabile che portavamo in noi.

E anche la strada, in realtà, la conosciamo; anzi, la conoscevamo. D'istinto: come i bambini. Poi, però, ci siamo distratti; ci siamo lasciati distrarre da tante cose che non sono l'essenziale, ma alle quali abbiamo accordato eccessiva importanza.

Forse è per questo che qualcuno disse: Se non ritornerete come questi bambini, non entrerete nel Regno.

 

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Ed ora eccoci qui: viandanti smarriti, incapaci di scorgere e riconoscere i segni che dovrebbero guidarci verso il piano dell'Assoluto.

Da dove cominciare, allora, per ritrovare la strada di casa, la strada verso la dimora dell'Essere?

In verità, da qualunque punto: purché il movimento nasca dall'amore. Non dalla passione-desiderio che sempre brama e sempre mira al possesso, ma l'amore disinteressato. L'amore disinteressato è preghiera di lode e di ringraziamento.

A quel punto qualsiasi cosa, anche una fronda d'albero che si dondola nel chiaro mattino d'ottobre, diventa una rivelazione del sacro, una rivelazione dell'Essere. Si spalanca davanti a noi, come una immensa finestra sull'azzurro.

Ci offre il mistero dell'Essere come premio della nostra fedeltà.