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Dopo la morte di Giovanna Reggiani. La cultura del “migrante”. Al di là degli stereotipi.

di Carlo Gambescia - 02/11/2007

 

La tragica morte di Giovanna Reggiani deve invitare alla riflessione e non a sposare posizioni o atteggiamenti di tipo razzista. Anche in circostanze così gravi deve sempre prevalere la forza della ragione. Soprattutto a livello intellettuale. Ma entriamo nel merito.
Il problema, purtroppo, è grosso. Ed è quello di come gestire l’immigrazione straniera in Italia. E purtroppo la nostra carenza non riguarda solo le risorse, ma soprattutto la totale mancanza di un adeguato approccio socioculturale al problema. Un approccio, la cui individuazione, deve procedere qualsiasi scelta organizzativa.
Sostanzialmente, finora, hanno avuto la meglio due culture: quella dell’accoglienza indiscriminata e quella della tolleranza zero. Entrambe sono errate. Vediamo perché.
La cultura dell’accoglienza indiscriminata, dà per scontato e facile l’inserimento del migrante nel nuovo contesto socioculturale, grazie a un lavoro, a una casa, eccetera. O comunque grazie all’impiego di strutture che ne possano favorirne l’inserimento - ma attenzione - non socioculturale ma economico-sociale. In certo senso, si tratta di un approccio universalistico, che considera ininfluenti le differenze socioculturali. O comunque superabili, attraverso la meccanica creazione di un’area franca di fedeltà repubblicana, da parte dell’immigrato alle istituzione di adozione. Pertanto si tratta di un approccio che giustappone all’universalismo il particolarismo del patriottismo costituzionale. E che così finisce per provocare nel migrante reazioni identitarie.
La cultura della tolleranza zero, dà invece per scontato che il migrante sia presuntivamente pericoloso. Di qui l’impossibilità di inserirlo, in quanto “cellula” potenzialmente “patogena” all’interno di un tessuto economico e sociale “sano”. In certa misura si tratta di un approccio particolaristico, che considera determinanti le differenze socioculturali. Differenze - attenzione - che sono rapportate, spesso in chiave quantitativa, alla natura criminogena, per nazionalità, dei migranti. I quali, pur essendo considerati tutti ugualmente pericolosi, di solito sono classificati, anche a livello politico “alto”, come appartenenti a nazionalità con “potenziali” criminogeni diversi. In questo senso il filippino sarà sempre più “addomesticabile”(ma comunque mai “nazionalizzabile”) dell’albanese e del rumeno. Insomma, il particolarismo implica spesso il razzismo.
Ora, che cosa significa porre la questione immigrazione sul piano socioculturale? Vuole dire intervenire con politiche sociali - e dunque non meramente repressive - sul “brodo” socioculturale in cui vive il migrante. Ovviamente, per ragioni di spazio semplificheremo, accorpando formalmente, culture, tra di loro differenti nei contenuti storici (come l’ucraina e la nigeriana). Cosa di cui ci scusiamo subito.
Il migrante, quando arriva in Italia, di regola, si trova già inserito in un circuito socioculturale di connazionali: persone con cui divide valori, desideri, ma anche bisogni e paure. Si tratta in genere di strutture claniche, parentali, familiari, che spesso vanno a intersecarsi con strutture illegali che gestiscono l’immigrazione, in patria e all’estero, indirizzandola verso specifici settori (dalla prostituzione allo spaccio di droghe, ma anche all’accattonaggio e al lavoro nero). Pertanto il migrante che giunge in Italia, viene subito cooptato all’interno di tali strutture, che talvolta, per i paesi extraeuropei, godono anche di appoggi consolari. Spesso perché il migrante deve ripagare il “viaggio” oppure perché più facile "socialmente". Dal momento che trova connazionali ( i suoi "simili") coi quali divide un vischioso ma confortante “brodo” socioculturale composto di sentimenti, tradizioni, bisogni, ma anche di “riconoscenza”, gerarchie e, purtroppo, conseguente, sfruttamento.
In genere 2 migranti su 3 - parliamo del caso italiano - tendono a restare immersi in questo “brodo”, o perché vogliono ritornare presto nel paese di origine, o trasferirsi, più avanti, in una nazione terza. Ecco perché è corretto definirli migranti e non immigrati.
L’universo psico-sociale e culturale del migrante è perciò sottoposto a pressioni fortissime: è qui, in Italia, ma vorrebbe essere altrove… Da ciò discende la difficoltà istituzionale di stabilire un “contatto”. Siamo davanti all’antico problema del complesso rapporto tra culture nomadi ( o mobili), quelle dei migranti, e culture sedentarie ( o stabili), le nostre.
Servirebbero strutture flessibili (in termini giuridici, sociali, culturali) di accoglienza, ancora da inventare. In grado di recepire i bisogni in divenire di chi ancora non abbia deciso che fare della propria vita; ma anche di intervenire, e rapidamente, nelle situazioni di illegalità e di sfruttamento, senza però ricadere nel razzismo spicciolo. Considerando, appunto, che il migrante vive all’interno di vischiose ma "confortevoli" (e dunque non troncabili con un netto colpo di spada) strutture claniche, parentali e familiari. Non “troncabili” con la spada, perché tenute insieme, talvolta dalla sola forza, ma spesso anche dall’invisibile gioco degli interessi reciproci e delle antiche fedeltà.
In ultimo - ma non in ordine di importanza - va ricordato che il mercato capitalistico, con i suoi alti e bassi, per un verso non facilita l’integrazione culturale del migrante, ridotto appunto a puro lavoro-merce. Mentre per l’altro, favorisce le migrazioni imponendo, quando occorre, al lavoratore-migrante di trasferirsi seguendo le necessità produttive. Insomma, il mercato capitalistico, cui spesso ci si appella elogiandone le virtù salvifiche, non ha alcuna capacità di capire l’importanza degli effetti di ricaduta di quel “brodo socioculturale”, cui abbiamo accennato: il mercato, essendo basato sullo scontro e/o l’alleanza degli interessi, può ricorrere, al massimo, alle gerarchie delle “manovalanze criminali”: le varie mafie, che funzionano, e pare bene, in alcuni settori di confine, come terminali del mercato capitalistico.
In questo senso la cultura dell’accoglienza indiscriminata favorisce, in un clima già alterato dagli inesorabili meccanismi utilitaristici del mercato, la riproduzione per reazione - anche a causa del suo universalismo-particolarismo repubblicano - degli elementi più vischiosi di tale “brodo socioculturale” comunitario. Facilitando i “movimenti” della criminalità “terminale” ma anche la marginalizzazione culturale del migrante. Mentre la tolleranza zero, si limita soltanto a reprimere, svolgendo il ruolo di “Guardia Bianca” del capitalismo designando nell’immigrazione, di volta in volta, o un fattore “lavorista” o un agente patogeno. Provocando, in quest’ultimo caso, la diffusione di reazioni razziste a livello collettivo. E di controrisposte identitarie dal parte delle comunità, più stabili, di migranti.
Comunque sia, entrambi gli approcci sono funzionali allo sviluppo capitalistico.
Perciò anche in tema di immigrazione, serve una Terza Via.
Ma quale? E come? La parola ai lettori.