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Il "rosso Trevi" ha colonizzato la blogsfera

di Roberto Alfatti Appetiti - 02/11/2007

 

 
«E’ stata la più formidabile performance artistica che Roma abbia ospitato da molti decenni a questa parte e, con assoluta certezza, la più bella poesia mai scritta sulla fontana di Trevi. La bellezza non ha senso né finalità seconde: perfino il volantino che ha inteso spiegare l’atto in sé si è dimostrato un di più». L’identità dell’autore e le motivazioni politiche diventano dettagli. Optional superflui e inadeguati al cospetto del trionfo dell’immaginario. Miro Renzaglia (nella foto a sinistra), scrittore e – dal maggio 2006 – blogger tra i più letti da destra (il suo sito, mirorenzaglia.com, ha totalizzato oltre 3 milioni di visite), ha centrato al cuore la questione: la potenza suggestiva delle immagini di Trevi rossa, che in poche ore hanno fatto il giro del mondo, ha messo il silenziatore a ogni tentativo (maldestro quanto ipocrita) di speculazione politica, al piccolo cabotaggio delle dichiarazioni stampa usa e getta, della tolleranza zero a targhe alterne.
Ai “progressisti”, che avevano prontamente puntato il dito sul “vandalo”, il cinquantaquattrenne Graziano Cecchini – non senza averne furbescamente annusato la provenienza per “smascherare” fantomatiche contiguità con An – non è rimasta che una mesta e imbarazzata ritirata. Certificata dal New York Times, che mercoledì scorso, citando le entusiastiche opinioni del «blogger italiano» Roberto D’Agostino (papà di dagospia.com) – «E’ risorto Andy Warhol!» – e del «critico mediatico» Gianluca Nicoletti, (scrittore noto anche su Second Life con l’avatar di bitser Scarfiotti) – «Evento magnifico» – chiosava:«Un giorno vandalo, un giorno artista».
Dietrofront, quello della sinistra “istituzionale”, accompagnato dalle pernacchie giubilanti degli intellettuali di riferimento. Se Veltroni aveva parlato a caldo di «offesa a Roma», Ennio Morricone, pure neoeletto all’assemblea costituente del Pd, si era mostrato di tutt’altro avviso: «Idea geniale, quel tizio ha fatto una pubblicità enorme a Roma». E non si riferiva certamente al sindaco. Che poi sull’utilità della festa del cinema – oggetto, ricordiamolo, della protesta neofuturista – si può discutere, ma come non dare ragione a Fulvio Abbate (autore della bella Roma, guida non conformista alla città)? «La cosa più straordinaria di questa seconda edizione, quella che tutti ricorderanno, è la fontana rossa». Tutto il resto è noia, costosissima noia. L’ha ricordato Giampiero Mughini: «Il futurismo andava contro le grandi istituzioni culturali mummificate». E, nonostante la giovane età, la gioiosa macchina da presa veltroniana non sembra così in salute. Rimane il dilemma: futurismo o non futurismo? Le opinioni sulla blogsfera (quella con il cuore che batte a destra) si fanno articolate. Per Giacomo Petrella, animatore del blog Lettera Maltese, «il fantastico gesto della Trevi rossa, che ricorda la toga praetexta del puer divenuto civis e l’album dei King Crimson, non è futurista, non immagina qualcosa di radicalmente nuovo, non innova per il gusto di farlo, ma rappresenta l’incontro tra tradizione e modernità, mito e azione, storia e capacità d'incidere sull’attualità da un punto di vista comunicativo e sociale». Fabrizio Ghilardi, dal sito Action Now, protesta e puntualizza: «E’ subito partita la ricerca della matrice politica. Il solito problema dell’Italietta nostra, bigotta e poliziotta, tutta intenta a ricercare i mandanti. Che abbiano fatto un’azione in stile futurista non c’è dubbio». Adriano Scianca va oltre: «Per me quel tizio può essere anche dell’Azione Cattolica, sai che me ne frega di fronte a un gesto così bello». Qualcuno, invece, prova ad accostare l’iniziativa del tintore alle stampelle storaciane offerte alla Montalcini, provocando l’ira di Renzaglia: «No, quello è becerume, tra le stampelle alla senatrice e l’azione della Fontana di Trevi corre la stessa differenza che c’è tra un verbale di contravvenzione ed una poesia di Majakowskji». Martin Venator (alter ego virtuale di Giampaolo Rossi), sul suo blog dell’Anarca è, come sempre, tranchant: «Ha ragione Veltroni quando sostiene che è stato “un gesto estraneo alla cultura democratica”, mica l’hanno messo ai voti o fatto le primarie per deciderlo». Per poi concludere: «Si è trattato di pura poesia futurista, di fantasia elettrizzante, di ironia e colore... e il vero vandalo è il Veltroni che ha distrutto l'Ara Pacis con l'ecomostro di Meier, arrestatelo!». Roba da far rimpiangere Renato Nicolini, l’assessore romano ad una cultura che non aveva paura di sembrare effimera, consapevole di come la politica si faccia anche e spesso soprattutto con i gesti: «Nel ’67 anche noi della Fgci mettemmo l’anilina proprio nella fontana di Trevi per protestare contro il vicepresidente americano Humphrey. Veltroni, però, ancora non c’era… troppo piccolo». Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti di Roma e paradossalmente, come ha notato ironicamente il filosofo Gianni Vattimo, «l’unica speranza di vedere un po’ di rosso in giro viene da destra». A tal riguardo, Carlo Rienzi, presidente del Codacons, ha azzardato un’alternativa cromatica: «Tingere un giorno a settimana l’acqua della fontana con colori diversi. Il vero danno è rappresentato dai metalli tossici delle migliaia di monetine gettate e poi… l’acqua non zampilla più dalle statute!». E anche le idee non è che zampillino dalle svagate testoline degli amministratori romani. Ma la notizia più sorprendente è un’altra: s’è indignata anche la Ekberg, sì, l’Anitona, proprio lei. Pensare che le sue forme prosperose nell’indimenticabile Dolce Vita felliniana provocarono persino un’interrogazione parlamentare per «l’offesa palese alle virtù e alla probità della popolazione romana e la banale canzonatura dell'alta missione di Roma quale centro del cattolicesimo e di antiche civiltà». Un po’ come il Veltroni che si scaglia contro Miss Italia, “ma anche” contro il buon Cecchini. «Indagato per genio», sostiene Renzaglia, che già si appresta a promuovere una raccolta fondi «per le eventuali spese legali cui, eventualmente, andrà incontro». Perché – per dirla ancora con Miro – c’è chi, «nell’incapacità di vedere il bello, ne pretende la riduzione in un paio di articoli del codice penale».