Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / La vocazione alla vita degli esseri si realizza attraverso il paradosso della morte

La vocazione alla vita degli esseri si realizza attraverso il paradosso della morte

di Francesco Lamendola - 04/11/2007

 

 

Nel precedente articolo L'ultimo nemico ad essere sconfitto sarà la morte abbiamo iniziato una riflessione sul mistero della morte e sull'apparente paradosso degli esseri che, chiamati alla vita, corrono tuttavia incessantemente verso la morte. Avevamo anche posto attenzione a quel passo enigmatico di San Paolo (1 Corinzi, XV, 12-28), che culmina nella affermazione:

 

"Come tutti gli uomini muoiono per la loro unione con Adamo, così tutti risusciteranno per la loro unione a Cristo.  Ma ciascuno nel suo ordine. Prima Cristo che è la primizia, poi, quando Cristo tornerà, quelli che gli appartengono. Poi Cristo distruggerà ogni Principato, Dominazione e Potenza, e consegnerà il regno a Dio Padre: allora sarà la fine. Perché Cristo deve regnare, finché Dio abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi. L'ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte. Infatti la Bibbia afferma: «Tutto ha posto sotto i suoi piedi.» Ma quando dice che tutto gli è stato assoggettato, è chiaro che si deve eccettuare colui che gli ha assoggettato ogni cosa. E quando avrà assoggettato a lui tutte le cose, allora il Figlio stesso farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, affinché Dio sia tutto in tutti."

 

Ci eravamo domandati che voglia dire, in particolare, che per mezzo di un uomo (cioè Adamo) è venuta la morte. Forse che gli uomini, per il fatto di essere uomini, e cioè creature viventi, non sono sempre stati soggetti alla morte? E perché, come ci domandavamo all'inizio, Paolo chiama la morte l'ultimo nemico e afferma che esso verrà distrutto dalla potenza di Cristo, affinché Dio sia tutto in tutti? Ci eravamo rivolti per aiuto alla filosofia di Gabriel Marcel, e vi avevamo trovato il profondo concetto che:

 

 «Amare qualcuno significa dire: Tu non morrai'. (…) Non si afferma l'indistruttibilità dell'essere amato da un punto di vista noumenico: l'indistruttibilità riguarda un certo legame, non un oggetto. Possiamo formulare nel modo seguente l'assicurazione profetica di cui parlavo poco fa: quali siano i cambiamenti di ciò che io ho sotto gli occhi potrà subire, io e te resteremo insieme; l'avvenimento accidentale che può sopraggiungere non può rendere caduca la promessa d'eternità inclusa nel nostro amore…"

 

è giunto ora il tempo di approfondire questo concetto e di domandarci come avvenga che la vita, emanazione dell'Essere, abbia come destino naturale la morte; che cosa significhi la morte in tale prospettiva; se la morte, infine, sia ontologicamente legata alla struttura della vita, o se non ne sia un elemento accidentale, sopraggiunto a posteriori come risultato di un allontanamento, di una infedeltà della vita stessa nei confronti dell'Essere.

Secondo il teologo Ghislain Lafont (La morte, vocazione soprannaturale, nel volume antologico La morte e l'Aldilà, Vicenza, Edizioni Paoline, 1956, pp. 84-86), che si rifà al pensiero di sant'Agostino,

 

"L'anima, di per sé e per natura immortale, trae dal commercio con Dio non solo la partecipazione alla natura divina, ciò che evidentemente è la cosa principale, ma anche un rafforzamento, un consolidamento della sua condizione, propria di realtà creata, in qualche modo un supplemento di essere, e questa forza nuova le permette dio dominare interamente ogni realtà carnale, cominciando dal suo proprio corpo. L'anima, trasportata verso la sorgente di vita che è Dio, riceve da lui quanto occorre per comunicare al corpo una perennità che naturalmente gli sarebbe estranea. Dio dà all'anima, volta verso di lui, un perfezionamento che supera i limiti della sua propria natura e le permette di neutralizzare i germi naturali di corruzione latenti nella materia. Essa lotta efficacemente contro la mutabilità della carne. La perfezione umana dell'uomo, il cui primo grado è evidentemente la stabilità nell'essere, si trova dunque strettamente legata a un problema di vita spirituale: la soggezione ontologica del corpo all'anima, dei sensi allo spirito ha per condizione la soggezione psicologica dell'anima a Dio. Aprire l'anima a Dio, accogliere la grazia divina è esattamente l'attuazione perfetta dell'uomo.

"Sotto questo aspetto, il problema della morte appare in piena luce teologica. Sant'Agostino l'ha esposto in modo mirabile nel libro XIII della Città di Dio. La morte, egli dice, è innanzitutto la morte dell'anima: «L'anima muore, quando Dio l'abbandona, e il corpo cessa di vivere, quando l'anima la lascia. L'uomo muore quando l'anima, abbandonata da Dio, abbandona il corpo: allora infatti essa non vive più di Dio e il corpo non vive più di lei» (13, 2). Ora questo abbandono da parte di Dio che per l'uomo è cagione di morte, non dipende dall'arbitrio divino, ma dall'uomo stesso e dal demonio. «La morte di cui è detto: morrete di morte (Gen., 3, 3) è quella che ha luogo quando l'anima è abbandonata dalla sua propria vita che è Dio stesso. Non che sia abbandonata perché Dio l'abbia abbandonata, se Egli l'abbandona è perché prima, essa lo ha abbandonato » (13, 15).

"La ribellione della carne, che il primo uomo e la prima donna hanno provato subito dopo il peccato, non è che il segno della rottura tra l'anima e Dio, attuata dalla colpa. Allontanata dal suo principio, l'anima non ne riceve più le forze vive che le permettevano di dominare la propria carne e il mondo dei corpi. La materia reagisce tosto nel suo proprio senso, ma solo la caduta dell'anima ha permesso questo movimento di autonomia: «L'anima peccatrice ha reso il corpo corruttibile» (14, 2). Qui siamo lontani dalle prospettive puramente filosofiche. Lo stato di morte è naturalissimo all'uomo teorico, all'«animale ragionevole», non è connaturata alla creatura di Dio. La morte del corpo ha avuto origine dal fatto che il principio della sua vita, l'anima, si è distaccata da Dio. Essendo abbandonata da Dio, l'anima non può più fornire al copro l'immortalità. Le leggi di pura natura, scoperte dal filosofo, che mai avrebbero dovuto agire, entrano in esercizio e la vita dell'uomo non è più che il conflitto tragico di due forze ciascuna delle quali riprende, mediante la morte e nella morte, la sua autonomia a pezzo dell'unità dell'essere.

"Dunque, la morte corporale è una semplice conseguenza della orte dello spirito, della sua separazione alla Vita. Ne è anche il segno.  Le numerose morti di cui siamo testimoni, tutte le forze di morte che dolorosamente sperimentiamo in noi e che, ben lo sappiamo, saranno vittoriose, sono le stimmate del peccato dell'umanità. Il loro compito primordiale è quello di permetterci di valutare la realtà spirituale del peccato. Imprimono nei nostri sensi e nella nostra carene la verità di una separazione infinitamente più terribile di quella che operano: il rigetto dell'anima da parte di Dio consecutivo alla disubbidienza."

 

Non svilupperemo tutte le implicazioni di questo discorso, estremamente complesso dal punto di vista teologico. Ci limiteremo a soffermare la nostra attenzione sul concetto che l'anima umana che si rivolge all'Essere ne riceve un potenziamento straordinario, superando i limiti della propria natura e neutralizzando i processi degenerativi della materia; e che, se l'allontanamento da Dio rende il corpo corruttibile, il ritorno a Lui ripristina le condizioni di vita connaturate alle Sue creature. Sarà forse per questo che, nel corpo degli esseri umani che hanno raggiunto i vertici della santità, sembra che le stesse leggi naturali dell'invecchiamento e della corruzione vengano, per così dire, contrastate e sospese? La tradizione cristiana abbonda di vicende legate all'incorruttibilità delcorpo dei santi defunti; mentre, nella tradizione induista (e in quella taoista, ma partendo da altri presupposti e con altre prospettive) si parla addirittura di uomini "risvegliati" che possono padroneggiare le funzioni vitali del proprio corpo anche per centinaia di anni.

Ne abbiamo già parlato in un precedente articolo, Babaji e i santi immortali dell'Himalaya, del quale riportiamo i punti essenziali. Da tempi immemorabili le popolazioni indiane e nepalesi che vivono nelle solitarie vallate pre-himalayane parlano di santi uomini che vivono ad alta quota, in perfetta solitudine, dediti alla meditazione e alla preghiera. Non hanno fuoco per scaldarsi nelle gelide notti, anzi sono soliti fare il bagno nelle acque freddissime del sacro Gange, vicino alle sorgenti. Non hanno neanche scorte di cibo, e loro unico riparo sono anfratti e grotte naturali. Pochi li hanno visti, sebbene molti ne parlino; pellegrini diretti alle sorgenti del sacro fiumi, contadini e pastori, di tanto in tanto, ne danno notizia.

Quello che più colpisce, in tali venerabili eremiti, è l’estremo vigore fisico, la giovinezza senza età, talvolta una sorta di alone luminoso che sembra risplendere loro sulla fronte e che pare emani dal loro capo; e la bruciante intensità dello sguardo. Spesso sono poco vestiti, eppure paiono sopportare il rigido clima montano con particolare naturalezza; si dice che possano asciugare una tunica bagnata nell’acqua fredda in pochi minuti, semplicemente indossandola, col calore che si sprigiona dal loro corpo.

Ma la cosa più stupefacente e, per una mente occidentale, più difficile da credere è che a questi santoni (che, a parere di alcuni, potrebbero anche essere diverse manifestazioni di un’unica persona) viene attribuita un’età molto, ma molto più avanzata di quella che dimostrano; anzi, molto più avanzata di quella di un comune essere umano. Si parla di cento anni, ma anche più; si sussurra che alcuni  di essi sono stati visti a intervalli di decenni, perfino di secoli, e sempre col medesimo aspetto vigoroso e giovanile. Di tutto questo si parla ampiamente nell'Autobiografia di uno Yoghi di Paramahansa Yogananda, una delle figure spirituali più affascinanti del XX secolo, apostolo del dialogo interculturale fra Oriente e Occidente.

Una possibile spiegazione del fenomeno dei "maestri immortali" dell'Himalaya potrebbe essere appunto quella sopra accennata. Oltre a particolari tecniche di sospensione volontaria delle funzioni vitali, a cominciare dal battuto cardiaco (per cui certi yogin possono farsi seppellire vivi per intere settimane, e uscirne poi ripristinando pienamente le attività vitali) e, più in generale, di assoluto dominio del corpo da parte dello spirito (levitazione, chiaroveggenza, telecinesi, viaggio astrale, ecc.), ci sembra possibile ipotizzare che il segreto ultimo di tali maestri consista in un pieno, totale, fiducioso abbandono dell'anima in Dio, dopo un lungo apprendistato di purificazione effettuato per mezzo di digiuni, penitenze, preghiera e meditazione. Anche Plotino e la sua scuola insegnavano che quando l'anima, resa pura e trasparente da una vita di ascesi e di ardente aspirazione al divino, si libera da ogni residuo di impurità dell'ego, essa è pronta per ricongiungersi con il piano delle realtà celesti, ossia la sua patria originaria della quale aveva conservato, anche nel mondo terreno, un ricordo e una nostalgia più o meno consapevoli.

Se tutto questo è vero, o se contiene almeno una parte di verità, allora ne consegue che la morte è quel paradosso attraverso il quale l'essere umano realizza la sua vocazione originaria alla vita e ripristina il suo legame ontologico con l'Essere. Lungi dall'essere una fine, essa è il vero principio; anche se, umanamente, succede che la sua realtà ci incuta paura, così come incute paura al neonato l'uscita dal grembo materno, nel mondo della vita terrena.

Scrive in proposito paolo (2 Corinzi, V, 1-5):

 

"Noi sappiamo infatti che la tende nella quale abitiamo, cioéil nostro corpo terreno, viene distrutta. Sappiamo però di avere in cielo un'altra abtazione costruita da Dio, che dura per sempre. Finché siamo in questa condizione, noi sospiriamo per il desiderio di avere quell'abitazione che viene dal cielo. Speriamo così di esserne rivestiti e di non essere trovati nudi. Mentre viviamo in questa tenda terrena, gemiamo oppressi da un peso. Infatti non vogliamo essere privati della tena terrena, ma ricevere anche quella celeste. Così, quello che è destinato alla morte sarà assorbito dalla vita. Dio ci ha preparati per questo, e come caparra ci ha dato il suo spirito."