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Chi salverà la «legge dei semi»

di Paola Desai - 04/11/2007

 

E' chiamata la «legge dei semi», perché tratta di come difendere e conservare il «germoplasma» che sta alla base delle specie vegetali, ma il nome completo è «Trattato internazionale per le risorse genetiche vegetali per il cibo e l'agricoltura» (International treaty on plant genetic resources for food and agricolture). Si occupa, in teoria, di governare lo scambio di sementi per la ricerca sulle specie vegetali e garantire una equa condivisione dei benefici che ne derivano: evitando quei fenomeni di appropriazione indabita che vanno sotto il nome di «biopirateria». Proprio in questi giorni presso la Fao a Roma è riunito l'organismo «di governo» di questo trattato, cioè i rappresentanti dei paesi che vi aderiscono. La riunione però non ha avuto grande risonanza: anche perché il trattato medesimo è «silenziato» (leggi: bloccato, reso vano) dal fatto che i 115 paesi firmatari non sono riusciti a mettere, tra tutti, i 4,9 milioni di dollari necessari a renderlo operativo. Non sono neppure riusciti a finanziare la creazione di «banche dei semi» per la conservazione in situ dei patrimoni genetici nei paesi del Sud, accusano molte organizzazioni di agricoltori presenti al vertice della Fao.
«Il trattato sui semi è in pericolo», dice una nota del Etc Group, rete internazionale di ricercatori e gruppi di attivisti per la conservazione della «diversità umana ed ecologica» (l'acronimo sta per «erosione, tecnologia e concentrazione»), che rende conto dei commenti di molte ong e organizzazioni di «società civile» intervenuti presso la Fao.
La signora Ibrahima Coulibaly, ad esempio, è intervenuta all'assemblea della Fao a nome di una trentina di organizzazioni contadine dell'Africa occidentale riunite nella rete Roppa: «Il trattato deve sospendere lo scambio di germoplasma di colture agricole, e la sospensione deve rimanete in forza finché i governi non saranno in grado di ottemperare ai loro obblighi, inclusi gli arrangiamenti finanziari necessari», per far funzionare il meccanismo dei controlli. «Siamo di fronte al più grande caso di biopirateria istituzionale mai visto», rincara Andrew Mushita a nome del Community Biodiversity Development and Conservation Network («Rete delle comunità per lo sviluppo e la conservazione della biodiversità», che lega 21 programmi di conservazione in diversi paesi). In assenza di un efficace governo degli scambi di sementi per la ricerca, dice, «i governi di fatto permettono alle imprese multinazionali delle sementi di imporre regimi vincolanti sul piano legale che forzano gli scambi delle sementi usate dagli agricoltori senza beneficio reciproco».
Un'altra rappresentante «della società civile» invitata alla Fao, Wilhelmina Pelegrina, di searice (rete che ha sede nelle Filippine), se l'è presa con il «Gruppo consultivo sulla ricerca agricola internazionale», il Cgiar, influente centro di ricerca sponsorizzato dalla Banca mondiale: «deve sospendere i suoi scambi di germoplasma, per rimanere nello spirito del Trattato». Gli 11 istituti che fanno parte del Cgiar hanno distribuito centomila campioni di riso quest'anno nell'ambito del Trattato: «Speriamo che una temporanea sospensione faccia rinsavire i governi».
I negoziati sul «Trattato dei semi» erano cominciati a metà degli anni '90 per mettere fine a una situazione selvaggia: per anni istituzioni scientifiche e istituti di ricerca delle aziende multinazionali avevano raccolto e usato specie originarie di paesi esotici (di solito del Sud del mondo) per poi brevettare i risultati della propria ricerca; in reazione molti paesi di Africa Asia e America Latina avevano cominciato a chiudere l'accesso al proprio patrimonio genetico. Sullo sfondo, un dato: l'industria globale dei semi ha vendite annuali per 23 miliardi di dollari, e le 10 maggiori aziende controllano il 57% del commercio. Mentre i maggiori «conservatori» dei semi sono gli agricoltori stessi. Gli scambi di sementi sono necessari, è il messaggio che viene dalla Fao: ma a beneficio di tutti, non di poche aziende.