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Uomo, natura e cosmo nell'India vedica

di Krishna Chaitanya - 04/11/2007

 

 

La visione del mondo dell’umanità moderna ci ha lasciato in piedi sulla riva di oceani di inquinamento, o presso il cratere dell’esplosione di una bomba nucleare. Questa visione del mondo è iniziata con una fisica della particella inerte, che non aveva una capacità di movimento autonomo, ma si muoveva solo quando veniva spinta o attratta da una forza completamente esterna a essa. Su questa base, è stata costruita una biologia della reazione riflessa, che ha fatto diventare gli organismi delle semplici marionette di casuali mutazioni genetiche. Siamo allora passati alle leggi della materia inerte, e di un’accanita lotta per la sopravvivenza che approva una competizione micidiale.

Abbiamo poi continuato, creando una psicologia dell’irrazionale e dell’inconscio, che ha fatto di ogni ragionamento un’abile razionalizzazione di un io egocentrico. Con logica inevitabilità, da tali supposizioni sono sorte l’economia dell’interesse personale divinizzato e la politica dei gruppi di pressione e dei blocchi di potere. Il risultato finale è stato tutt’altro che felice, ed aumenta il numero di persone che si chiede persino se l’umanità resisterà per più di qualche decennio.

 

 

Il patto faustiano

 

L’uomo moderno ha – o aveva – una fede illimitata nella sua capacità di risolvere ogni problema. Oggi, i compiaciuti discorsi sulla “bomba pulita” e il fall-out “innocuo”, e le audaci parole sulla “praticabilità” della costruzione di bunker nucleari per milioni di persone – pronunciate allo scopo di rassicurare la popolazione – cominciano a suonare grottescamente non risibili anche a coloro che se ne rendono garanti. Molti seri intellettuali sono ormai convinti che un radicale cambiamento di prospettiva sia la sola via progressista per l’umanità.

Herman Daly, decano dell’economia ecologica, respinge “il modo di pensare meccanicistico, riduzionistico, positivistico, che è stato identificato con una certa fase dell’evoluzione della scienza”[1]. Egli è convinto che non sarà possibile alcun riscatto finché non recupereremo “i concetti, un tempo dominanti, di teleologia e finalità”. A questo scopo, dobbiamo riconoscere e correggere “l’errore di omissione che abbiamo commesso in passato nel trattamento dei mezzi ultimi e del Fine Ultimo”.

Lo psicologo Lifton sottolinea che il movimento ecologico avrà successo solo se un nuovo rapporto con la natura diventerà “parte di un più generale rinnovamento psichico”[2]. Molti credono che una parte di questo rinnovamento dovrà avere un carattere religioso.

Aldo Leopold, il grande profeta del moderno movimento ecologico, era pessimista circa il movimento di tutela dell’ambiente, perché “nessun importante cambiamento etico è stato mai realizzato senza un cambiamento interno del nostro vigore intellettuale, delle nostre lealtà, affezioni e convinzioni”[3]. Per dirla con Ophuls: “Se la società umana sarà riorganizzata, quasi certamente avrà una base religiosa, qualunque essa sia: l’eccellenza politica e civica aristotelica, la virtù cristiana, la rettitudine confuciana, la compassione buddista, l’amore per la terra degli indiani d’America, o qualcosa di simile, vecchio o nuovo”[4]. Soprattutto, è necessario “restaurare la categoria del sacro, la categoria più accuratamente distrutta dalla cultura scientifica”[5].

 

 

 

 

La concezione del mondo degli indù     

 

L’arte della creazione di miti procede dal visibile all’invisibile. Ma anzitutto essa valuta il visibile, e rileva che tutte le cose relative al mondo generalmente cooperano per un fine benevolo, favorendo l’emergere della vita, sostenendo la sua crescita e il suo vario sviluppo. Nell’Atharva Veda indù, troviamo una preghiera ai venti di inviare nubi cariche di pioggia per colmare i fiumi e far crescere il grano nei campi. Ancor più sottile è l’azione dei venti sulle acque. “Quando soffiate su di esse, tutte le acque diventano di gradevole gusto e le erbe medicinali ottengono potenza”[6]. Questo principio metafisico di un “essere” immutabile dietro i mutevoli fenomeni è derivato da una percezione poetica, non da un riduzionismo matematico.

L’alba è antica quanto il tempo, ma nell’induismo la dea dell’alba è radiosamente giovane ogni volta che appare. “Immortale, si muove con la sua energia incorrotta”[7]. Anche Agni, il fuoco, è un’antica, ma sempre giovane divinità, poiché arde con costante luminosità quando ogni giorno viene acceso. Inoltre, sebbene sia un dio, ha stabilito la propria dimora tra i mortali – nel loro focolare domestico. È definito l’“ospite”, il “signore” della casa. L’energia del fuoco si manifesta in numerose forme che suggeriscono che dietro la pluralità del mondo c’è una unità. Infine, Agni fa da mediatore tra l’uomo e tutti gli dèi, dal momento che è lui a portare il burro purificato e il succo delle foglie di Soma, simboli entrambi della fecondità della terra, offerti nel semplice, antico rituale, allo spazio circostante che è così nutrito e rinvigorito.

Questo rafforzamento della vitalità della natura è necessario non soltanto per il continuo benessere degli uomini, ma anche dell’intera famiglia delle cose create. Poiché tutti sono parte del grande progetto e la divinità si preoccupa anche del loro benessere. A ogni ordine della creazione la divinità ha assegnato un certo ambito. “Tu hai fissato il loro regno nell’acqua per la vita acquatica. Hai diffuso le bestie selvagge sopra le steppe. I boschi appartengono agli uccelli”[8]. Come nota Aldo Leopold, “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica. È sbagliata quando la tendenza è opposta”.

 

 

Il peccato di avidità

 

Gli strani suoni provenienti dal cuore dei boschi, specialmente al crepuscolo, le forme indistinte che l’occhio sembra percepire nelle profondità della foresta, generano quel misterioso timore che Rudolf Otto[9] considerava il fondamento originario dell’idea del sacro. Questo, come pure la percezione della vita fluttuante della natura, che cresce in modo lussureggiante senza l’aiuto di un coltivatore o dell’aratro, possiamo vederlo nell’inno vedico a Aranyani, la dea della foresta. “La foresta di sera cigola come un carretto. Colui che indugia nella radura della foresta, pensa dentro di sé: ‘Ho sentito un grido’. Allora ho lodato la Divinità della Foresta, dolcemente profumata, fragrante di balsamo, colma di cibo, ancora non coltivata”[10]. Nell’induismo, dunque, l’insensata distruzione della foresta non è solo qualcosa di meramente inopportuno, ma un sacrilegio.

Nel Santi Parvan (Libro della Pace) del Mahabharata, che è un ampio discorso sul diritto di vivere in tutti i suoi aspetti, Bhishma, il precettore, narra una leggenda. Quando Indra uccide Vrita, Brahmahatya, una terribile apparizione punitiva, come le Erinni o le Furie del mito greco, lo perseguita. Indra cerca rifugio presso il dio Brahma, che tenta di porre un freno all’apparizione assegnandole una specifica dimora, una delle quali è la flora della terra – alberi, arbusti ed erbe. Ma essi lo supplicano dicendo che questo fardello è troppo terribile e che egli avrebbe dovuto autorizzarli a trasferirlo su qualcun altro. Allora Brahma decreta che tutte le volte che gli uomini tagliano alberi fuori stagione o per avidità, il peccato si trasferirà automaticamente si di loro[11].

Nello stesso poema epico, c’è un discorso del saggio Markandeya sui quattro Yuga – o epoche – dell’umanità. Una caratteristica dell’epoca di Kali, quando la natura dell’uomo toccherà il punto più baso della volgarità, sarà che egli si abbandonerà all’insensata distruzione della flora della Terra[12]. Ora siamo nell’epoca di Kali. Il poeta vedico comprese, in definitiva, che la pace che egli agognava per l’uomo era indivisibile – che doveva essere condivisa con il mondo. “Pace del cielo, pace della terra, pace delle acque, pace delle piante, pace degli alberi, pace dell’universo, pace della pace: venga a me questa pace”[13].

 

 

Il mito come realtà ecologica

 

Questo ci fa pensare a un altro fatto della leggenda poetica – un alto mito corroborato da una realtà ecologica. Shiva è la divinità dell’Himalaia. Quando il Gange, fiume celeste, doveva scendere sulla Terra, si temeva che la forza della sua discesa avrebbe sconvolto la Terra stessa. Ma le arruffate ciocche di capelli di Shiva interruppero la caduta, e l’impeto delle acque non distrusse la Terra. In questo mito, le ciocche di capelli indicano le foreste dell’Himalaia che spezzano la furia delle piogge tropicali e conservano sia l’acqua sia il terriccio dei pendii in forme vantaggiose per tutti.

In questa leggenda c’è nascosta anche una ulteriore e profonda intuizione. Bhagiratha è il re leggendario la cui devozione ha reso possibile che il Gange scendesse sulla Terra. Ma egli, fondamentalmente, fece venire il fiume non per sostenere la vita materiale del popolo, bensì per affidare le ceneri dei suoi antenati alle sacre acque e liberarli dal sacrilegio che avevano commesso. Questo genere di prospettiva è per noi piuttosto difficile da assimilare. Ma forse possiamo cominciare a percepire la sua profonda validità se richiamiamo alla mente i versi di Keats:

 

Le mobili acque nel loro puro ufficio

Sacerdotale di lavacro intorno

Ai lidi umani della terra.* 

 

È tempo che la nostra epoca inizi a riflettere sull’intellettualità di cui è smodatamente orgogliosa. La scienza ecologica è, per principio, anti-isolazionista. È la scienza delle totalità. La psiche indiana è stata in grado di poter comprendere la totalità perché ha indagato con tutte le energie della persona umana, sia cognitive che affettive. Ha visto il sistema-mondo come Vangmaya, ovvero come discorso dotato di senso; come Rita, ordine cosmico, corrispondente al Logos o Tao di altre culture.

Il “saldo punto d’appoggio sulla dimensione verticale”, la perdita della quale è stata sottolineata da Theodore Roszak, è stato ottenuto dal pensiero indiano attraverso la sua analisi della realtà come verità in evoluzione. La parola Sat è realtà in senso metafisico. La realtà non è il fatto brutale, dissimile, isolato. La divinità, realtà ultima, si manifesta come Rita, l’ordine eterno[14]. In natura, quest’ordine stabilisce il diretto, teleologico ritmo dei processi. È questo ritmo che rende possibile la vita organica e, in definitiva, la vita sociale dell’uomo. Di conseguenza, nella sfera della vita umana, Sat, il reale, diventa Satya – verità, o integrità morale.

Come Platone, il poeta vedico ha visto la realtà come incarnazione dei tre valori ultimi: verità, bontà e bellezza. “Saldi sono i fondamenti di Rita. Nelle sue graziose forme risiedono molte splendide bellezze. Per mezzo della legge Eterna, ci danno un cibo perenne. Attraverso la legge Eterna, i mondi sono entrati nell’ordine universale”[15]. Satya è stata continuamente rafforzata ricordando il progetto complessivo del mondo, e il ruolo dell’uomo nel favorirne l’esecuzione; e una profonda fiducia nell’ecologia intesa nel senso più nobile è stata espressa con l’ausilio di un’immagine dalla forza surrealistica – un albero con le radici in alto e i rami che crescono in basso. “Nella regione sconfinata, Varuna, il potente, tiene in piedi un tronco d’albero. La radice è in alto e i rami fluttuano in basso. Possano essi penetrare nei segreti recessi del nostro essere!”[16].

La stessa aspirazione e lo stesso impegno possono essere visti nel grande “Inno alla Terra” vedico[17]. Il poeta inizia esprimendo la sua ardente fiducia in ciò che sostiene la Terra, e che è l’opera dell’ordine eterno e della vita santificata dell’uomo. Egli contempla la perfezione di quell’ordine che ha connesso “la roccia, il suolo, la pietra e la polvere” in modo tale che “gli alberi, signori delle foreste, stanno sempre saldamente in piedi”; di quell’ordine che sostiene “giorno e notte l’inesauribile flusso della acque comuni a tutti”, e ha creato “campi di grano che nutrono quadrupedi e bipedi”. Il suo appello è tanto una preghiera quanto un impegno: “Qualsiasi cosa io tragga da te, o Terra, possa crescere di nuovo rapidamente! O purificatrice, possiamo noi non ferire mai i tuoi organi vitali o il tuo cuore!”. E conclude: “Terra, Madre mia, dammi protezione e felicità in pieno accordo con il Cielo!”.

 

 

La poesia della redenzione

 

Dopo esperienze amaramente deludenti con una scienza degenerata in scientismo e una filosofia che con enorme serietà dibatte di cose futili, abbiamo forse cominciato a capire che la poesia stessa può procurare redenzione. James Lovelock, presentando la sua “ipotesi Gaia”, sottolinea il bisogno di andare oltre la mentalità utilitaristica, verso un senso del sacramentale. La composizione della Terra, in tutte le sue ricchezze, forma un sistema organico che conserva condizioni ottimali per la fioritura della vita.

Schumacher[18] ha detto che la vita umana nel suo insieme è un dialogo tra l’uomo e il suo ambiente. Attraverso ciò che facciamo, noi poniamo domande all’universo, e l’universo, con la sua risposta, ci fa sapere se le nostre azioni sono in armonia con le sue leggi o le violano. Se persisteremo nelle nostre violazioni, nonostante i ripetuti ammonimenti, allora le conseguenze saranno inevitabili.

Il poeta vedico ha voluto intendere la stessa cosa quando ha detto che Rita, benché benevola, può essere “severa e feroce”, riguardo alle trasgressioni. Brihaspati conduce il terribile carro di Rita per distruggere i malvagi[19]. Ma i malvagi qui periscono perché si sono infranti contro il trono della Legge Eterna. La sistematica unità dell’incredibile progetto del mondo fa comprendere al poeta vedico che, se deve beneficiare della generosità della natura, da lui ci si attende in cambio una condotta ideale. Ed è per questo che egli prega. “Possa la notte essere dolce per noi, e dolci le albe; e dolce la polvere della terra! Possa essere dolce per noi il cielo, nostro padre!”. La preghiera, tuttavia, inizia con un riconoscimento dell’obbligo del poeta: “Per colui che vive in conformità con la Legge Eterna, i venti sono pieni di dolcezza, i fiumi scorrono dolci. Possano le piante essere piene di dolcezza, i fiumi scorrere dolci. Possano le piante essere piene di dolcezza per noi!”[20].

 

 

 

NOTE

 

[1] H. Daly, Steady-State Economics, Freeman 1977.

 

[2] R. J. Lifton, Harpers Magazine, aprile 1973.

 

[3] A. Leopold, A Sand County Almanac, Oxford University Press 1949.

 

[4] W. Ophuls, Ecology and the Politics of Scarcity, Freeman 1977.

 

[5] H. Jonas, Technology and Responsibility, Social Research, primavera 1974.

 

[6] Rig Veda, X 168.

 

[7] Rig Veda, I 113.13.

 

[8] Rig Veda, II, 38.

 

[9] R. Otto, The Idea of the Holy, Oxford University Press 1950.

[10] Rig Veda, X 146.

 

[11] Mahabharata, Santi Parvan, cap. 282.

 

[12] Mahabharata, Santi Parvan, cap. 190.

 

[13] Yajur Veda, 36, 17.

 

* Versi tratti dalla poesia Bright star (Fulgida stella) [N. d. T.].

 

[14] Rig Veda, VIII 100.4.

 

[15] Rig Veda, IV 23.9.

 

[16] Rig Veda, I 24.7.

 

[17] Atharva Veda, XII, 1.

 

[18] E. F. Schumacher, “Modern Pressures and Environment”, Manas, 28 febbraio 1973.

 

[19] Rig Veda, II, 23.3.

 

[20] Rig Veda, I 90.6-7.