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1917, anno-sfinge di enigmi irrisolti

di Guido Ceronetti - 04/11/2007

 
Umarmung, un abbraccio: il quadro di Egon Schiele custodito a Vienna
 
Cento anni sarebbero la distanza ideale – ma mi è vietato aspettare fino al 2017 per spruzzare col mio innaffiatoio filosofico le piante rinsecchite e morte del 1917, l’anno della Crudeltà, l’anno-sfinge degli enigmi irrisolti del secolo in cui ho passato più di settant’anni d’intensa esistenza da cimice.

Ma novanta sono già, per fare histoire conceptuelle di quegli eventi in un piccolo saggio di ricordo evocante, una discreta lontananza. Del resto, la tendenza mediatica è di anticipare tutto.

Per la guerra 1939-1945 c’ero, però il legame più forte ce l’ho con la Quattordici-Diciotto, di cui ancora non si è capito perché sia cominciata: l’altra vi è contenuta e come anticipata e ne sono meno oscure le cause. Per l’Italia e il suo tremendo fronte dell’Isonzo il Diciassette è l’anno di Caporetto, un nome che anche gli ignorantissimi di storia patria conoscono. Caporetto, nell’alambicco semantico, ha assunto il significato di grande disfatta ed è passato così nel lessico d’uso. Arriva fino al seno femminile invecchiante! Una giornalista che dava consigli alle donne diceva: «Quando ci guardiamo e ci palpiamo, e troviamo una Caporetto...». Si va perdendo, tuttavia. Quando saranno cent’anni, la parola sarà probabilmente tornata al senso originario di fatto storico. Concettualmente i làsciti dello sfondamento del 24 ottobre sarebbero due: uno militare, che mai più un così massiccio esercito messo in campo dall’Italia unita avrebbe subito una Caporetto perché mai più, nonostante i furori imperiali successivi, una forza simile di coatti guidati da volontari giovani sarebbe stata impegnata in guerre. Caporetto velò di lutto e cambiò spirito e dimensioni dei futuri eserciti italiani come Stalingrado segnò sulla Volga il Mai Più dell’esercito tedesco.

Caporetto, associato per risollevamento d’uditorio al Piave e al 4 novembre (imparavamo alle elementari il bel pezzo di prosa del Bollettino della Vittoria di Armando Diaz) ha anche – oggi più evidente che mai, volendo pensare – un significato occulto, come tutti i maggiori eventi nel tempo storico-lineare: l’anno successivo, la disfatta che si fa marcia vittoriosa (contro un altro enorme esercito ormai alla fame e lambito dalla spagnola) manda alle stelle ufficialmente l’ideale patriottico e, come infallibilmente accade, dà principio alla sua dispersione e alla lunga marcia del suo cessare del tutto. Entro i non-confini dell’Unione Europea una nazione debole come l’Italia è la più smurata, la più negata a essere una patria, mentre l’Europa delle patrie è prossima a farsi Asia fino all’Atlantico, fino all’estremo nord della Gran Bretagna.

Asia - come assoggettamento alla penuria di patria, alla sua pericolosa assenza. (Le dipendenze energetiche ne sono uno dei molti specchi). Asia futura che schizza via come un demone, per l’Italia, da Caporetto, suo Anno Zero, in cui verrà risucchiata la numerazione romana fascista (E. F. I-XXII) come un ritmo marziale che svanisce: dopo quell’esasperazione-doping del sentimento patrio, eccoci di celebrazione in celebrazione sempre più figli di nessuno, rutto di digestioni asiatiche, Deserto di Buzzati senza fortezza di guardia.

Ed è dal 1917 databile la più discussa delle patrie, di fatto l’impossibilità di patria per chi più disperatamente la cerca: Israele. Per propiziarsi la speranza sionista e rinforzare il morale delle truppe di Allenby in marcia dal Cairo verso la Palestina, l’Intesa emette la Dichiarazione Balfour, promessa di «un focolare ebraico», l’undici novembre 1917 - e un mese dopo, evento da brivido della storia simbolica, Allemby entra a Gerusalemme: nella sua armata c’è un contingente arabo e al suo fianco entra per la porta di Giaffa il colonnello Lawrence, seminatore del risveglio nazional-religioso della ùmma araba orientale, e le due oscure sfingi, l’araba e l’israeliana, cominciano ad uscire dai veli in vista di una implacabile guerra escatologica senza esito, dove le volontà umane contano zero. Su quali basi effettive (certamente non visibili) si costruisca, espanda e tiri ad esistere Israele resta per me un mistero del secolo: ma in tutto è decifrabile il segno erinico, spietato, del 1917.

E in una Russia che da febbraio vomitava imperiali e di popoli sfaceli, arriva l’Octiabr di Lenin e Trotzskij, e con loro i Demoni di Dostoevskij si abbrancano ferocemente, gettando tutte le maschere, a un potere religioso anticristico, che si voleva universale e messianico, orribile pozzo magnetico d’indicibili sofferenze umane.

«In Russia c’è un subbuglio spaventoso, e tra breve ci sarà il più orribile dei terrori» (Léon Bloy, Diario, nota 6 giugno 1917). Il Bloy degli anni della Grande Guerra fu di una torrenziale impressionante lucidità profetica... Mentre Bloy stava morendo, di una crisi d’uremia, a Bourg-la-Reine, Lev Trotzskij – dietro ordini di Lenin, che mai fu visto in quei giorni – preparava per il 7 novembre (25 ottobre del calendario russo di allora) il colpo di Stato rivoluzionario del Soviet di Pietrogrado, guidato dai bolscevichi, contro il governo di Kerenskij. Chi ricorda la morte di Bloy, il cristiano ultrascomodo, lo Spirituale feroce, avvenuta giusto novant’anni fa, il 3 novembre, alle 6,15 della sera? Oggi, forse, io solo, e la colloco tra gli eventi silenziosi di quell’anno di storia crocifissa, di storia madre delle sciagure del secolo... «Faccio osservare a Valentine, che ne pare stupefatta come d’una rivelazione, che i rivoluzionari dell’89, nonostante le loro illusioni o i loro crimini, erano pur sempre uomini nelle cui anime c’era la cultura cristiana di molti secoli, ciò che ai Russi manca – schiavi che la repentina emancipazione renderà simili a bestie feroci» (Diario, 20 maggio 1917). Particolare curioso: ai funerali di questo Pellegrino dell’Assoluto, che nei fatti della storia visibile sempre vide la mano divina e demoniaca dell’Invisibile, partecipò una delegazione di anarchici, venuti a rendere omaggio – tutti ateissimi – ad uno scrittore povero.

Il 1917 pone al pensiero uno straripamento di motivi di riflessione, e ciascuno racchiude un enigma. Fu sfiorato l’abbandono contagioso di tutti i fronti, per oltrepassati limiti della capacità di resistenza umana, i fanti trasformati in pasta di uomo e fango, l’uomo delle trincee che ne emerge per diventare, da sepolto vivo, un bersaglio facile per mitragliatrici. Dopo quasi quattro anni di una simile inaudita cancellazione della realtà vivente, cosa resta di un uomo? Senza la promessa di «pace subito, ad ogni costo» i comunisti di Lenin avrebbero visto fallire il loro golpe di ottobre: il soldato russo era dappertutto, spontaneamente, in rivolta. Cedere a Caporetto, proclamare soviet di soldati in Russia, era lo stesso che ammutinarsi in Francia, dove le offensive fallivano una dopo l’altra e il fronte fu tenuto per la smisurata volontà di un vecchio carismatico (Clemenceau assume il potere il 19 novembre 1917), di idee giacobine, e coi plotoni «amici» d’esecuzione. Léon Bloy lo detestava, ma inviare d’urgenza alle trincee la sua Madonna della Salette, chissà quale Caporetto mistica, colossale, dalla Manica ai Vosgi, avrebbe prodotto!

Interrogare il 1917 e il suo contorno ed epilogo di Grande Guerra, è interrogare il secolo XX, culmine del Tragico Storico, anticamera di un tempo senza più patria né consistenza e figura di storia autentica, perché di là non siamo usciti che tutti vinti, e attori e spettatori sazi, ben disposti a diventare dhimmi d’Islam e a leccare i fumi di Pechino, sacrificando un’altra volta quel «resto» d’Isaia, rianimato dalla Dichiarazione Balfour. Umarmung: un abbraccio. Egon Schiele dipinge questo soggetto erotico stupefacente a Vienna, nel 1917. (È esposto là, nella Österreichische Galerie). Vedi, in quella rappresentazione unica dell’essenza dell’amore umano, della coppia umana, qualcosa dell’Eros eterno attraversante in quel momento, in un letto di retrovie, tutto il dolore dei fronti sconfitti. Il sepolto vivo delle trincee si leva per tuffarsi in un lenzuolo bianco dove lo attende, sollievo di disperati, dentro la propria nudità strizzata, contorta, pancino affamato, una donna. Sono la vita e la morte nella loro inestricabilità, che l’artista riassumeva con le parole: «Tutto è morte-che-vive». E tutto, sui fronti in agonia, era morte vivente... Bisogna vederle, quelle mani, quelle mani strette-costrette del 1917. Forse sono un aiuto a capire meglio che cosa è arte, che cosa è (o fu) storia.