Per un pensiero della Terra
di Gerardo Picardo - 23/12/2005
Fonte: Arianna Editrice
Quale rilevanza ha la geofilosofia nei vari ambiti disciplinari della ricerca umana nel tempo Il quadro che risulta da un significativo contributo scritto a più mani –sono le belle intuizioni tra gli altri, di Luisa Bonesio, Quirino Principe e Caterina Resta- (Autori Vari, «Orizzonti della Geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione», a cura di Luisa Bonesio, Arianna Editrice, Casalecchio (BO), pp. 135, € 10,33) tratteggia un panorama di questioni filosofiche che acquistano particolare rilievo nel quadro della attuale mondializzazione. Se “geofilosofia” è un pensiero della terra che dispone la riflessione ad un confronto transdisciplinare, in un radicale ripensamento dell’abitare dell’uomo nella storia umana, allora essa, insieme alla frontiera dell’identità, contrassegna il nostro passaggio epocale, sostanziando un pensiero della terra, uno di quei concetti, scrive la Bonesio, che stanno passando dalla dimenticanza a una ricorrenza sempre più frequente. La Terra rappresenta la dimensione della custodia, della celatezza, del provenire delle cose. La Modernità ha limitato il suo pensiero al mondo (altra componente della celebre coppia heideggeriana), teatro di civiltà. L’Occidente ha così assimilato la Terra alla logica del mondo, non riconoscendone l’alterità e così la terra ha finito col non essere immaginabile al di fuori delle schematizzazioni scientifiche, economiche e tecniche. La feconda Terra madre ha finito per trasformarsi in quel deserto crescente annunciato con sgomento da Nietzsche, e il “tenero viso dell’erba” per usare un’espressione di Alce Nero, ha lasciato il posto al paesaggio da cantiere e da officina.
Se vogliamo è il richiamo ai rischi di una “topologia del politico” analizzata da Carl Schmitt, per la quale la terra può diventare un fenomeno di Entortung, di manipolabilità infinita nel seguire i dettami della religione del progresso tecnico. Il radicale sovvertimento del nomos della terra non a caso ha il suo luogo di provenienza nel mare: svellere le Radici è la logica del mare. La proporzione tra semina e raccolto è estranea alla illimitazione del mare, alla sua natura aperta, per statuto genetico, all’avventura, al nomadismo, al commercio. Questo tipo di perdita del luogo” ha ripercussioni di grande portata, anche in considerazione del tragico immiserimento simbolico della vita umana. Oggi, come sottolinea Latouche, non viviamo più in una ecosfera, ma in una tecnosfera. Il sogno di Cartesio di sostituire all’intrico delle selve l’ordinata geometria dell’artificialità si è infine realizzato, ma i suoi effetti hanno allungato le unghie su tutto il sistema, graffiandolo di dubbi. Ad essere messa in pericolo è soprattutto l’Identità e la Memoria.
L’universale, pensato senza il singolare, diventa sbiancamento ed eliminazione del limes, del confine che significa sì delimitazione, ma anche co-appartenenza, l’incontro di due bordi che si fa soglia, ingresso, comunicazione. Differenza e limite sono essenziali, perché laddove la differenza fa difetto, è solo la violenza che minaccia l’abitare. Le potenzialità di un approccio che sappia interpretare le proprietà simboliche dei luoghi, comprendendone l’espressività naturale si esprime ad esempio nella fisiognomica del paesaggio di Herbert Lehmann, che coniuga geografia ed estetica.
L’Occidente non ha saputo proporre, anche sul piano dell’immaginario, alcun sostituto alla crescita materiale, informando la “cultura” a tutto ciò che si può quantificare. Il disincanto moderno, quello che viene definito “l’orologio intellettualistico dei Lumi”, è ermeneutica del mondo secondo i criteri dell’utile, interpretazione per la quale il “di più” sostituisce il “bene” e l’economico esilia lo spirituale. In questo modo, l’Europa subisce il contraccolpo dello slang universale, divenendo una provincia della sua antica colonia. Uno stato di cose che somiglia più ad una quadratura di conti che a uno scenario di spiriti e di idee.
Occorre essere attenti al fenomeno che ormai è realtà. Come ha scritto tempo fa J. L. Nancy, “Gli dèi possono sempre venire, ma mai tornare”. Il ri-appaesamento culturale vuol dire riappropriarsi di identità abrase dal progressismo di maniera. Il folletto del “genius loci” deve continuare a danzare una fedeltà alla Terra che non è chiusura ma salvaguardia e futuro. Se vogliamo era l’antico motivo di Spengler del “paesaggio materno” della cultura, preservandone l’irripetibile fisionomia anche a livello geosimbolico. Il cyborg che ci attende dietro lo specchio può ancora essere esorcizzato. Perché ogni paese è Destino. Bisogna cominciare col rispondere. Umanizzare sarà il verbo delle bandiere ritrovate.
L’uomo della postmodernità ha sempre più bisogno di mappe. Il contenuto apotropaico della territorialità può e deve continuare a parlare per “non perdere la carne del mondo e di noi stessi”. La contemporaneità si riferisce più che a Ulisse, che ritorna a casa, alle ossa di Giuseppe che ritornano senza flauti a Canaan. E’ un viaggio senza terra promessa né latte e miele. La perdita di dimora a favore di una località nomade altera il mito del viaggio. L’esodo è solo il viaggio di chi sta per via. L’ultimo uomo prefigurato da Zarathustra, “come la pulce sulla terra”, è quello “che campa più a lungo di tutti”.
Perciò occorre recuperare quella che Kerouac definiva “la purezza della strada”. Territorializzare vuol dire dare senso e non possesso ad una Terra, perché la Terra è la memoria degli uomini e dei loro destini, il suo paesaggio è la mappa delle epopee e il bacino dei saperi. E’ Lei che i canti e i racconti narrano in una delicata “topofilia” che è sentimento di appartenenza e familiarità, ritrovando, contermini al viaggio, il volto delle cose che, riannodandosi, si presentano e ci parlano ancora.