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Il dibattito sulla sicurezza. Sociologia della violenza o della minaccia?

di Carlo Gambescia - 05/11/2007

 

Il confronto politico che si è aperto sulla necessità di drastiche misure di sicurezza nei riguardi dei migranti e della criminalità in genere, ci spinge a proporre qualche riflessione sul rapporto tra violenza e minaccia.
L’argomento proposto può apparire troppo “alto” e lontano dalle questioni più urgenti. E invece no. Al lettore chiediamo solo la pazienza di seguirci fino alle nostre conclusioni.
Una prima distinzione, generica, va fatta tra forza e violenza. La forza è una forma di violenza legalizzata mentre la violenza è una forma di forza non legalizzata. Ovviamente, nel mondo moderno, la legalità dell’uso della forza, è sancita dalle leggi (il cosiddetto stato di diritto). Va da sé che coloro che non condividono “quelle” leggi (che autorizzano l’uso della forza), parificano “quella” forza alla violenza. Il che significa che ogni distinzione tra forza e violenza è soggettiva ( o comunque ideologica) e riguarda il grado di accettazione individuale delle leggi che ne autorizzano l’uso. Di qui la necessità di parlare concettualmente, soltanto di violenza.
Una seconda distinzione riguarda le finalità della violenza. Per alcuni la violenza è soltanto un mezzo per ottenere altri fini. Si pensi alla violenza rivoluzionaria, per istaurare una nuova società; oppure alla violenza bellica, quella che si dispiega in guerre che "dovranno mettere fine a tutte le guerre". Per altri, sbrigativamente, la violenza è sempre fine a se stessa. Quest'ultima, curiosamente, è la posizione di coloro che non accettano o adorano la violenza: dei pacifisti come dei guerrafondai.
Una terza distinzione concerne la violenza collettiva e individuale. Di regola la violenza individuale viene punita dai codici mentre quella collettiva resta più difficile da individuare e punire. Perché? La violenza del singolo è sempre più individuabile e gestibile fisicamente, mentre quella collettiva no ( si pensi al concetto, assai vago, di “violenza delle istituzioni”…). Il fatto è che l'uomo tende ad attribuire ai fenomeni collettivi cause collettive, spesso astratte. Di qui però la conseguente difficoltà di mettersi d’accordo sulle cause concrete e sulla legislazione penale relativa... Il che tuttavia non significa che non esistano situazioni sociali (collettive) di sofferenza. Come pure, non vuol dire che non sussistano cause sociali (collettive), alla base di singoli atti di violenza.
Insomma, la violenza (anche sotto forma di forza legalizzata), piaccia o meno, è una componente dei rapporti sociali. Non vogliamo qui entrare nel merito della questione se l’aggressività nell'uomo sia eliminabile o meno. Anche perché, di fatto, le società, da sempre, limitano la violenza (illegale) ricorrendo ad altra violenza (legale), fondandola sui valori più differenti (religiosi, morali, giuridici). Certo, l’educazione, soprattutto nelle società moderne, può condizionare, culturalmente, il ricorso individuale e sociale alla violenza… Ma fino a un certo punto. Vediamo perché.
In primo luogo, spesso l’educazione implica l’introiezione nel singolo, del concetto sociale della violenza (legale) come deterrente della violenza (illegale). Quindi l’educazione finisce per basarsi sulla “minaccia” di altra violenza. Su questo concetto torneremo più avanti.
In secondo luogo, le società moderne, pur respingendo pubblicamente la violenza ne sono in realtà intrise: o la propongono direttamente elevandola a valore (si pensi al concetto di guerre giuste, esplicitato a suon di bombe), o indirettamente attraverso la produzione, rappresentazione e sublimazione mediatica. Di qui, quella schizofrenia sociale, oggi sotto gli occhi di tutti, che ritroviamo nei comportamenti di soggetti, anche collettivi, che per un verso predicano la pace e per l’altro praticano la violenza. Con il sorriso sulle labbra.
In questo contesto di sovraesposizione della violenza, tentare di contenerla non può essere facile. Anche perché il vero punto della questione è il concetto di minaccia: "promettere" all’altro qualcosa che susciti in lui preoccupazione, timore, paura… Un atto, che pur non essendo in se stesso “violento”, si appella all' uso possibile della violenza. E che - attenzione - si tratta di una pratica che caratterizza le più diverse forme di relazione sociale, sia individuali, sia di gruppo: da quelle contrattuali ( se non pagherai, eccetera) a quelle educative (se non farai il buono, eccetera) a quelle politiche ( se non pagherai le tasse; se invaderai, la mia patria, eccetera).
Pertanto la violenza rinvia sempre alla minaccia: un’azione che racchiude in sé "l’idea" di violenza. E la minaccia, che in certo senso è violenza virtuale, è come abbiamo visto una componente pratica, ineludibile, di tutti i rapporti i sociali. In primis quelli politici.
Concludendo, la violenza rinvia alla minaccia, la minaccia alla paura. Ma come liberare la nostra società dalla paura, se quest’ultima viene usata così massicciamente, tanto che oggi si parla, e perfino benevolmente, di società della sorveglianza? Una società dove tutti vogliono essere rassicurati, anche a costo di perdere la libertà?