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Nella lotta con l'Angelo deforme è in gioco la salvezza della nostra anima

di Francesco Lamendola - 06/11/2007

 

 

 

Nello straordinario romanzo di Iginio Ugo Tarchetti, Fosca, vi è un pensiero di eccezionale  profondità (facciamo riferimento all'edizione della Einaudi, Torino, 1971, p. 8):

 

"Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d'equilibrio.

"Il difficile è trovare il centro della propria anima!".

 

Pensiero che si è rivelato anche profetico perché l'Autore, nel lontano 1869 (quando il romanzo usciva a puntate sul giornale Il pungolo), sembra aver avuto la geniale intuizione della direzione spirituale che avrebbe preso la civiltà europea con l'avvento, che allora si cominciava appena a percepire - e in certe zone meno che in altre -, del prodotto più caratteristico della modernità: la cosiddetta società di massa. Se dovessimo indicare, infatti, l'aspetto più vistoso della nostra crisi attuale, sicuramente punteremmo il dito sul disagio intimo, corrosivo, paralizzante che pone così diffusamente le persone in conflitto con se stesse, con il mondo, con la vita. Se, poi, dovessimo suggerirne la causa fondamentale, senza esitare punteremmo sull'ignoranza di se stesso che affligge particolarmente l'individuo della società di massa; unita, peraltro, a un confuso e velleitario desiderio di emergere, di distinguersi, di uscire dal gregge in un modo o nell'altro - magari prendendo la scorciatoia di qualche espediente che altro non fa se non riprodurre, su un piano di maggiore visibilità (vedi il Grande Fratello televisivo), la stessa disarmonia interiore e la stessa umiliante omologazione dalle quali si vorrebbe, in teoria, fuggire.

Come tutti sanno, Fosca narra la storia di una passione morbosa e terribile fra un capitano ventottenne, Giorgio, e la cugina malata del colonnello che comanda la guarnigione ove quegli è stato trasferito: la venticinquenne Fosca, appunto. La sua malattia è una specie di summa di ogni malattia possibile, fisica e psichica; un rompicapo che i medici hanno rinunciato a tentar di comprendere, non che di curare; un qualcosa di mezzo fra l'isteria, l'epilessia e la depressione cronica. Ma non è la malattia, bensì la bruttezza, il tratto più immediato col quale Fosca si presenta al protagonista maschile (e ai lettori): una bruttezza che non deriva da disarmonia di forme o da difetti di costituzione, poiché anzi ella è alta, proporzionata, ha una bella voce, dei bei capelli e uno sguardo incantevole, oltre a sensibilità, intelligenza e cultura; ma che è tutta concentrata nell'orribile magrezza del corpo, e specialmente del viso, che richiamano immediatamente l'idea di uno scheletro, di un teschio, insomma di un cadavere.

Giorgio  è l'alter ego ideale di Tarchetti, che fu realmente ufficiale di carriera - prima di mollare tutto per unirsi alla vita degli Scapigliati milanesi - e che ebbe davvero una passione "maledetta" e scandalosa con una certa Carolina, o Angiolina, bruttissima e infelice parente di un suo superiore. L'aspetto originale e profondamente coraggioso della sua opera consiste nel fatto che egli sa analizzare con estrema lucidità le radici dell'attrazione disperata e straziante che il protagonista prova, fin quasi dall'inizio, per Fosca, non appena superato l'impatto scioccante con la bruttezza di lei: e cioè che egli la desidera non a dispetto della sua malattia e dell'aspetto spaventoso, ma, al contrario, proprio per quello. Segreto inconfessabile e ancor più spaventoso dell'aspetto di Fosca: egli in lei non è attratto dalle sue virtù e dai suoi pregi, che potrebbero fargli porre in secondo piano la malattia e la bruttezza; no: egli se ne sente attratto appunto perché è così brutta e malata, in un groviglio di impulsi e sentimenti da cui emerge una inconscia volontà di degradazione e di autodistruzione. La tragica passione fra i due, infatti, culminerà in una notte d'amore, al termine della quale Fosca morirà e Giorgio si allontanerà, distrutto nell'anima, sentendo crescere in se stesso la medesima malattia di lei.

Fosca, pertanto, è in parte la donna-vampiro del Romanticismo nordico (e della Scapigliatura milanese), in parte una donna-angelo dalle ali spezzate, che vorrebbe dare e ricevere amore e che chiede aiuto disperatamente, che cerca in modo sempre più affannoso una ragione per vivere; e in parte, infine, la donna-vittima che soccombe sull'altare di un desiderio maschile proibito e oscuramente necrofilo, se è vero - come è vero - che Giorgio, in lei, ha visto sin dall'inizio - e sia pure inconsciamente -  un semi-cadavere, un corpo da possedere nell'ebbrezza dell'abbandono totale, un corpo inerte da manipolare come un oggetto senza vita.

Ha scritto Enzo Siciliano (su La Repubblica del 28 dicembre 2004):

 

"Ma Tarchetti  sembra essersi accanito sui propri spiriti romantici per rinnovarli. La sua è stata una strenua lotta con l'angelo - un angelo che aveva fattezze funeste, prima fra tutte la fattezza erotica; e di questa il narratore di Fosca, il suo miglior racconto lungo, aveva soggezione e insieme terrore.

"Perciò il suo insistere sull'immagine della donna malata, appunto priva di fascino fisico, ma alla quale è impossibile sfuggire, liberarsene. Sono donne possessive, viraci, che della propria disperazione sentimentale sanno farsi un'arma bianca. Portano dentro il petto il torbido sentore dell'attrazione fatale, quindi della morte.

"Sembra che l'amore sia cosa che non possa resistere alla prova del tempo - perciò è preferibile distruggerlo subito, incenerirlo, in un orizzonte dove Dio appare e scompare. Non c'è scala di valori in questo mondo - anzi, si può dire che tutti i valori siano sospesi. Si profilano casomai trasporti di pietà, di 'affetto universale', e un rifiuto alla giustizia se la giustizia è soltanto controllo impositivo, un anelito alla vita semplice pur essendo la semplicità di vita un'utopia."

 

Quest'ultimo aspetto, l'impossibile anelito alla vita semplice, sarebbe stato ripreso, di lì a qualche decennio, dai crepuscolari, e particolarmente da quell'altro geniale scrittore piemontese (Tarchetti era nato a San Salvatore Monferrato nel 1839 e morì a Milano, appena trentenne, nel 1869) che fu Guido Gozzano. Molto acuta anche l'osservazione che Fosca si è forgiata, con la sostanza della sua stessa malattia, una pericolosa arma bianca, con la quale sottomettere l'uomo dalla complessa e fragile personalità; fin dal primo incontro, infatti, è lei a prendere l'iniziativa di saltare i preamboli convenzionali e di fargli capire che vorrebbe spingere sempre più avanti la loro amicizia.

Tuttavia, l'aspetto che maggiormente ci interessa, ora, dell'analisi di Siciliano, è l'aver riconosciuto nella lotta di Tarchetti con l'angelo il nucleo del suo dramma umano e, ciò che qui maggiormente ci preme, del suo dramma di scrittore. Ma chi è, propriamente, l'angelo funesto col quale Tarchetti ha lottato per tutta la vita? Non è semplicemente l'ossessione erotica, e nemmeno il binomio Eros-Tthanatos, che pure percorre come un filo rosso tutta la sua opera narrativa; se così fosse, non ci troveremmo di fronte a nulla di particolarmente originale. Che amore e morte siano passioni complementari, la poesia lo sapeva già da millenni: da Saffo, da Catullo, da Virgilio; solo la scienza - la  psicologia  - se n'è accorta  quando ormai era il segreto di Pulcinella. No: Tarchetti non ha semplicemente gettato un fascio di luce sulla zona oscura dell'amore; ha fatto molto di più: ha mostrato come i meccanismi assurdi della modernità spingano verso la luce le creature delle tenebre che si agitano nelle zone più basse del nostro subconscio.

Tarchetti, che - col suo metro e ottantaquattro di statura e coi suoi occhi azzurri, profondi e malinconici - avrebbe potuto far innamorare quasi qualsiasi donna, soffriva della impossibilità di avere con la donna un rapporto felice, armonioso, costruttivo; così come la poetessa Renée Vivien (di cui ci riserviamo di parlare in altra sede), che dietro l'aspetto sano e robusto celava una natura fragile e morbosamente attratta dalla morte, soffriva dell'impossibilità di amare gli uomini- amava, infatti, novella Saffo della belle époque - solo le donne, ma di un amore che non le dava gioia né pacificazione. Iginio UgoTarchetti e Renée Vivien (al secolo Pauline Mary Tarn, di nascita inglese ma francese di elezione): le due facce del malessere moderno dell'uomo e della donna; le due facce di una medesima ossessione erotica, senza speranza di redenzione: l'incapacità maschile di amare la donna e l'impossibilità femminile di amare l'uomo.

Dunque, l'originalità di Tarchetti sta appunto nell'aver lottato a lungo, incessantemente, disperatamente, con l'angelo della deformità, sentendo (sia pure in modo oscuro) che ne era inspiegabilmente attratto, non a dispetto della sua bruttezza, ma precisamente per essa. E che l'angelo, in realtà, era dentro di lui; anzi, era lui: era la sua parte più profonda, più vera - e più orribile. In un cerro senso, egli fa morire Fosca per liberarsi della sua parte masochista e necrofila, proprio come farà Verga in Tigre reale; ma., più onesto con se stesso di Verga, non la fa morire perché Giorgio viva e torni ai "buoni sentimenti" (un po' come Michael Douglas dopo che, in Attrazione fatale, ha ucciso la strega-mantide Glenn Close), ma perché Giorgio possa portarsi nella carne e nell'anima, per tutto quel che gli resta da vivere, una terribile piaga e un terribile rimorso. Un po' come dovettero essere gli occhi di Lazzaro dopo essere uscito dal sepolcro, col corpo già puzzolente per la decomposizione incominciata: occhi sbarrati sull'Abisso, perché avevano visto ciò che gli umani non possono vedere senza restarne folgorati.

Ebbene: Tarchetti è stato - lo abbiamo accennato - molto più profeta di quanto lui stesso non immaginasse. Tarchetti, anzi Giorgio, siamo noi, figli della società di massa, post-moderna e del "benessere". Anche noi siamo in lotta con l'angelo della deformità: ne siamo orripilati e, al tempo stesso,  segretamente affascinati. Siamo affascinati dalla nostra stessa degradazione e dalla nostra tendenza all'autodistruzione, pur avendone, contemporaneamente, paura. Ma è solo l'istinto di conservazione che ci trattiene sull'orlo dell'abisso, non la forza di valori profondamente radicati, di valori positivi e biofili quali l'aspirazione alla verità, alla bontà e alla bellezza. Anche se le apparenze parrebbero indicare il contrario; anche se il dinamismo, l'efficientismo, l'edonismo ci rappresentano (agli altri e a noi stessi) come persone innamorate della vita, la verità è che non ci vogliamo bene; che non abbiamo stima di noi stessi né fiducia in noi stessi; che la nostra parte oscura, repressa e negata, ci trascina lentamente a fondo, verso la distruzione, percorrendo i meandri tortuosi e allucinati del deforme, del grottesco, del macabro.

In effetti, vi sarebbe da stupirsi del contrario. I nostri bambini crescono passando ore e ore a guardare, alla televisione, orribili cartoni animati popolati da mostri, demoni, scene di violenza spaventosa. I nostri ragazzi leggono avidamente storie a fumetti che parlano di vampiri, lupi mannari, fantasmi spaventosi e si intontiscono nel frastuono di concerti rock che esaltano il satanismo e incitano a praticare il male, la crudeltà, l'assassinio. Negli Stati Uniti d'America, da almeno quattro decenni, furoreggia il mercato clandestino di film sadici nei quali vengono torturate e uccise delle persone non per finzione scenica, ma nella realtà: persone che sono state appositamente rapite oppure ingaggiate con false promesse. E i potenti della terra si ritrovano nelle blasfeme cerimonie del Bosco Boemo (nella contea di Sonoma, in California) ove, all'ombra di un gigantesco gufo di legno e, forse, suggellando il loro patto infernale con il sangue di vittime umane, decidono delle sorti di centinaia di milioni di persone. Intanto, nei laboratori militari e in quelli di molte società multinazionali, si praticano mostruosi esperimenti di guerra chimica e batteriologica e d'ingegneria genetica, secondo le direttive di una piramide occulta di potere al cui vertice vi sono i misteriosi Maestri Sconosciuti, entità non umane il cui scopo è l'asservimento totale del genere umano ai loro perversi disegni. È, alla lettera, un mondo ipnotizzato dal Male, come il serpente a sonagli lo è dalla musica del flautista.

Un romanzo come Fosca costituisce un campanello d'allarme. Ci mostra la direzione sbagliata che la nostra civiltà ha imboccato e ci ammonisce sugli esiti disastrosi che ci attendono al termine della nostra marcia insensata verso l'Abisso.

Mezzanotte si sta avvicinando. È ora di destarci da questo sogno angosciante, da questo incubo che abbiamo evocato noi stessi con la viltà, l'opportunismo e la misera furberia delle nostre scelte basate sull'avere e non sull'essere: in una parola, sul tradimento e sull'oblio della nostra chiamata e della nostra vocazione. Forse, nonostante tutto, c'è ancora una speranza di ripresa, di redenzione, di perdono (a cominciare dal perdono di noi stessi). Dovremmo solo lasciar cadere le maschere della superbia, della presunzione, dell'arrogante autosufficienza, per aprirci all'aiuto della Grazia.