La fine di un’illusione
di Eduardo Zarelli - 23/12/2005
Fonte: Arianna Editrice
Non c’è bisogno di seguire la cronaca politica dei prossimi mesi per cogliere la crisi di consenso dell’attuale governo. Non è dato all’oggi conoscere il destino di Silvio Berlusconi, che sembra comunque destinato a sopravvivere a se stesso, cioè al “berlusconismo”. È ancora presto per trarre un quadro obiettivo degli ultimi dieci anni di storia nazionale, ma il magnate di Arcore ha sicuramente intercettato demagogicamente una maggioranza del paese, che ha scommesso su un mutamento delle cinquantennali politiche consociative repubblicane. Sull’onda del pragmatismo imprenditoriale, il sogno di un arricchimento consumistico collettivo a poco prezzo ha veicolato l’ubriacatura di un liberalismo di massa, capace di sostituire i moralismi pauperistici “cattocomunisti”.
Gli italiani, o una maggioranza di loro, hanno pensato realmente che si volesse fare una volta per tutte i conti con il capitalismo protetto, il voto di scambio, le rendite di posizione, la lottizzazione, l’assistenzialismo. In realtà la politica moderna è pratica di potere e rappresentazione di interessi. Indipendentemente dal sistema istituzionale e quindi elettorale, la demagogia edonistica del premier non ha potuto nascondere la preponderanza dei suoi interessi privati, dell’idiosincrasia a qualsivoglia senso pubblico della responsabilità politica. In compenso lo stesso decantato “decisionismo” imprenditoriale si è rapidamente adeguato all’opportunismo “politicante” della mediazione tra interessi contrapposti, tra cui i poteri forti, tendenzialmente oligarchici, che mostrano una volta di più la vulnerabilità e l’ipocrisia delle democrazie occidentali.
La “modernizzazione” promessa s’infrange sulle alte sponde dei nodi strutturali del Paese. Già i governi del centrosinistra, approfittando del ciclo economico internazionale favorevole, avevano azzardato politicamente sulla moneta europea, ma la drammatica eredità del terzo debito pubblico mondiale inchioda ai fondamentali economici l’impudenza nostrana. Siamo di fronte a una classe politica irresponsabile, che riproduce pervicacemente i difetti costitutivi del contratto sociale italiano fondato sul moderatismo: clientelismo e assistenzialismo, unito ad un servilismo senza pari nei confronti dell’atlantismo. Una irresponsabilità aggravata da una intera classe dirigente economica e culturale che ha seguito le sirene della globalizzazione, beatificando le virtù della competizione dei mercati internazionali, della ricchezza finanziaria e la sprovincializzazione cosmopolita, per poi coltivare le politiche redistributive e di rendita garantita. Ben misera fine fa la “socializzazione” nelle mani del ministerialismo della destra sociale, oppure la “socializzazione dei mezzi di produzione” ridotta a “diritto di cittadinanza” del marxismo in cachemire. La “dottrina sociale della Chiesa” è uno slogan per qualsiasi Doroteo di ritorno. Addirittura comico risulta poi il leader nostrano dei verdi, che privo di senso del ridicolo, a pochi mesi dalle presidenziali americane, s’investe dell’autorità morale per trasvolare negli Stati Uniti e convincere gli ecologisti locali a schierarsi con il candidato del partito democratico. L’acquiescenza ai rapporti di forza della democrazia rappresentativa e la subalternità alle meccaniche di potere la dice lunga sull’insipienza dell’ambientalismo, incapace di cogliere l’irriverenza populistica di una figura dai tratti non conformistici come Ralph Nader, l’unica voce politica d’oltre atlantico, che ritirerebbe seduta stante le truppe d’occupazione dall’Irak e che manifesta comunque un tentativo, per quanto contraddittorio, d’indipendenza socio-culturale dagli schieramenti condizionanti di destra e sinistra, esprimendo l’esigenza di una potenziale alternativa al sistema industriale.
In effetti, la nostra argomentazione prende spunto dalla fine sociologica del berlusconismo, ma dimostra contemporaneamente la disarmante pochezza della opposizione ad esso. Specularmente, vi è una desolante assenza nella società e nella cultura italiana di ipotesi teoriche e pratiche capaci di proporre un’alternativa originale e credibile al declino del modello capitalista, accentuato negli ultimi anni dalla crisi recessiva e i ripetuti fallimenti finanziari. Cioè la critica sostanziale di istituzioni logore, separate dal Paese reale, rivelatrice di un sistema politico che non risponde più alla rappresentatività, mostrandosi incapace di assicurare un legame sociale. Una critica che si svincola dal duopolio di una modernità costretta tra Stato e Mercato, rifiutando sia lo statalismo sia l’individualismo liberale e cioè posizione anticapitalista perché consapevole che la mercificazione elimina ogni forma di vita a cui si sovrappone, quindi anche della libertà e dignità della persona.
Geminello Alvi, in un editoriale del Corriere Economia (5 Luglio 2004), recuperando il modello di tripartizione funzionale indoeuropea, denuncia il capitalismo nella sua biarticolazione Stato/Mercato, ipotizzando con Polanyi una sovranità politica che si legittima limitandosi, lasciando alla società un’autogestione in forma di mutue, fondazioni e l’economia, reinserita nel sociale, che si occupa di beni reali e non “prodotti finanziari”. Uno Stato di “eguali”, un’economia “fraterna” e una cultura “libera”. Alvi notoriamente si rifà alla scuola di pensiero di Adriano Olivetti (1), che nel dopoguerra teorizzo senza grande successo pratico il comunitarismo produttivo; ma nel suo eclettismo culturale si è spesso richiamato alla teoria monetaria dell’economista austriaco Silvio Gesell e sulle esperienze di Schwanenkirchen e Wörgl, dove negli anni trenta fu sperimentato con successo il denaro a scadenza, non dissimile dalle veementi teorie antiusuraie e la titolarità politica sull’emissione di moneta di Ezra Pound. Si possono però rintracciare ulteriori antesignani di un comunitarismo antiutilitarista, si pensi alla confraternita dei Preraffaelliti di Dante Gabriele Rossetti, il grande critico d’arte John Ruskin, poi William Morris con cui l’arte simbolista, di fattura artigiana, si specchiava nell’idea del popolo nobilitato dalla bellezza del proprio mestiere. Come i contemporanei Nazareni tedeschi, che erano influenzati dalle teorie di Schlegel e Wackenroder nemiche dell’accademismo e favorevoli a ispirazioni religiose e patriottiche. I Preraffaelliti volevano una sorta di socialismo estetico, antieconomicista, creato sulla base dell’artigianato diffuso, in contrasto all’industrialismo, che stava costruendo il suo potere sullo sfruttamento delle masse sradicate dalle campagne e schiavizzate nelle catene di montaggio delle fabbriche. Toni non dissimili dal d’Annunzio della dissipazione oblativa del bello e la sobrietà di stile francescana, che presagiva una inconsueta dialettica fra “antico” e “nuovo” per cui poeticamente «far della vetustà nota una modernità ignota». Ma ancora Luddisti e cartisti inglesi, agrari americani e populisti russi, sindacalisti rivoluzionari e rappresentanti del socialismo non-scientifico di tipo associativo e mutualista, senza dimenticare alcuni grandi teorici, da Enry George a Bakhounine, da Nicolas Tchernychevski a Pierre Leroux, Sismondi e Proudhon.
Se la contraddizione civilizzazione/natura è all’oggi imprescindibile per qualsivoglia fondata capacità critica del destino razionalistico della modernità e quindi della globalizzazione, l’ambientalismo scientifico e politico si dimostra funzionale al modello di sviluppo industriale liberal-capitalistico, con canali mediatici e di rappresentatività politica compiacente e trasversale tra tutti i partiti politici e i gruppi di potere economici. Il filantropismo naturistico non intacca la pervicacia dell’economicismo e si perpetua in una professione d’intenti divenuta un luogo comune rassicurante, tanto che i partiti marcatamente ecologisti hanno oggi evidenti problemi di identità, di ruolo e di consenso politico: hanno aderenti provenienti da esperienze ideologiche eterogenee, accomunati da un indistinto progressismo individualistico e urbano, che inferisce sulla ingenuità di un promiscuo mondo di militanza associazionistica, naturista e protezionista.
Su tali basi, l’ecologismo ha smarrito il profilo ideologico, che poteva costituire una vera novità nel campo delle estenuate idee della tarda modernità: dimostrarsi ulteriore alla destra e alla sinistra, essendo intimamente conservatore e insieme rivoluzionario, quindi rintracciare il filo storico ideologico capace di declinare la modernità in forme non deterministiche. L’olismo si pone, infatti, in termini di grande mutamento paradigmatico del modello occidentale, riferendosi però non ad utopie prometeiche, ma alla stabilità dei sistemi naturali e ai valori della Terra, al senso del limite. Tutti i modelli economici prospettati nella modernità, infatti, si proiettano spazialmente sulla base di un tempo meccanico, negando prometeicamente la non-reversibilità entropica della trasformazione della energia e della materia. Le conseguenze di tale “tradimento” teorico si riflettono nell’incapacità sociale di radicarsi e di proiettare un’immagine di reale alternativa al modello dominante e, politicamente, di dimostrarsi veicolo di reale conflitto con gli equilibri di potere, di interpretare una concreta frattura amico/nemico in cui identificarsi. Il problema politico ecologico è quindi più generale e riguarda la depoliticizzazione delle “società aperte” liberali. La libertà negativa, che sottrae la persona alla cosa pubblica, confondendosi con l’emancipazione degli scambi economici da ogni vincolo, ha come destino la mercificazione universale di uomini, idee e cose. Solo se, e quando, il “politico” interpreterà forme originali di partecipazione pubblica, potremo assistere a una riconciliazione tra idee e pratica sociale, ad uno “stato nascente” rivoluzionario, che possa tenere conto dei principi ecologici. Sarà cioè possibile un coinvolgimento generalizzato di un pensiero minoritario, che all’oggi può cercare agibilità in termini preferenzialmente metapolitici, influenzando l’immaginario pubblico. In tale prospettiva devono lavorare tutte le energie, che colgono il degrado politico e sociale italiano come epifenomeno locale di una più profonda crisi di fondamento del modello liberal-capitalista, traguardando il presente per un mutamento di paradigma della modernità.