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La rete della vita

di Eduardo Zarelli - 28/07/2007

Fonte: Arianna Editrice

 

ALMANACCO DI UN MONDO SEMPLICE

Aldo Leopold

Red edizioni – Como – 1997 – pp. 188

 

CON I PIEDI PER TERRA

Wendell Berry

Red edizioni – Como – 1997 – pp. 110

 

LA RETE DELLA VITA

Fritjof Capra

Rizzoli – Milano – 1997 – pp. 338

 

Vi è un fiume carsico che collega il pensiero ecologista americano contemporaneo al ruolo profetico permanente nella storia degli Stati Uniti: quello di chi pensa, pratica e ripropone la buona custodia della terra (steawardship) come componente essenziale della libertà umana e della giustizia sociale. Dalle virtù civiche di Thomas Jefferson al “trascendentalismo” di Henry D. Thoreau, dal naturalisimo pionieristico di John Muir al conservazionismo di Aldo Leopold, c’è tutto l’humus in cui attingono linfa vitale le radici del “paradigma olista” di Fritjof Capra e di Gregory Bateson; il bioregionalismo di Wendel Berry, di Peter Berg e di Kirkpatrick Sale; il ritorno alla selvaticità (wildersness) di Gary Snyder. Forse la vastità e la profonda bellezza dei paesaggi unite ai messaggi altissimi della cultura pelleressa, hanno insinuato fin dalle origini nello spirito americano - prometeica esaltazione della modernità conquistatrice di un “eterno” West trasposto nell’ideal tipo della Frontiera - un particolare richiamo interiore alla natura come riferimento sostanziale della civiltà.

Poiché lo stile di vita statunitense è divenuto il maggior fattore di distruzione degli equilibri naturali nel mondo, il compito di questi pensatori si è fatto più gravoso e contraddittorio rispetto a quello dei loro predecessori. Poichè la cultura americana ha tradito la sua vocazione originaria, essi si rivolgono a riferimenti altri, antiutilitaristi, spiritualisti, come sorgente di una parte importante di quella vocazione.

Seguendo a valle, fino ai giorni nostri, questo fiume carsico possiamo valutare l’importanza della recente traduzione e pubblicazione in Italia di tre testi, così distanti tra loro nel tempo e nell’approccio, ma così simili e fecondi nella sensibilità e ispirazione di fondo.

Per dovere di precedenza storica e di paternità ideologica, bisogna partire da uno dei libri fondamentali nello sviluppo del pensiero ecologista contemporaneo. Aldo Leopold – fondatore, tra l’altro, della Wilderness Society e morto 50 anni fa mentre tentava di domare un incendio nella prateria che minacciava la sua fattoria – nel suo Almanacco di un mondo semplice (in originale, A Sand County Almanac) crea, con la sua prosa evocativa, immagini e metafore semplici ed essenziali tratte dall’esperienza del mondo naturale capaci di colpire la sensibilità di ogni generazione con un linguaggio universale. La sua è una commovente descrizione dei mutamenti che la natura subisce nel corso di un anno, con il fiorire e lo sfiorire della vegetazione e il conseguente comportamento degli animali: la ciclicità delle quattro stagioni come analogia della spirale dell’esistenza umana.

Questa parte narrativa sfocia quindi nelle riflessioni sul rapporto uomo-natura, delineando quell’originale prospettiva biocentrica, in cui il sapere ecologico si allea all’etica e all’estetica; prospettiva, questa, che ha esercitato un influsso decisivo e, possiamo dire, fondamentale sull’ecologia del profondo e, più sfumatamente, sulla filosofia ambientalista contemporanea.

Leopold, evidenziando i fallimenti del “protezionismo”, parte dal presupposto che la “Terra è un organismo” e che, solo sentendola come una “casa comune” a cui apparteniamo, potremo servircene con il dovuto rispetto. Il degrado della bellezza della natura corrisponde alla riduzione della sua complessità, diversità, stabilità: quell’equilibrio – definito “omeostatico” da James Lovelock con la sua teoria di Gaia – che ne sostanzia in profondità la pienezza vitale e simbolica.

Sicuro erede di questo atteggiamento interiore è Wendell Berry, poeta, scrittore, saggista, professore di letteratura all’Università del Kentucky, ma, soprattutto, agricoltore. Il suo approccio alla repentina degradazione ambientale, culturale e umana della società tardoindustriale inizia nei primi anni Sessanta, quando la dimostrazione dei danni ecologici diventa evidente al grande pubblico grazie a opere come Primavera silenziosa di Rachel Carson. A differenza di molti pensatori e letterati di quell’epoca, per la maggior parte legati alla Beat Generation, alcuni dei quali (come Gary Snyder) suoi strettissimi amici, Wendel Berry non vaga per il paese alla Easy Rider. La sua protesta contro il consumismo non persegue una “fuga dal Sistema” o la recisione delle radici; al contrario il suo contributo è rivolto alla riscoperta delle fonti della cultura occidentale, che l’industrialismo progressista ha soffocato. Rivisitando le grandi opere della letteratura europea, dall’Odissea alla Divina commedia al Paradiso perduto di Milton, insieme al Vecchio e Nuovo Testamento, Berry rintraccia i presentimenti del tragico destino occidentale. La sua poesia e la sua letteratura non hanno nulla di estetizzante o intimistico, ma si rivolgono comunque all’anima contemporanea straziata dalla mancata identità personale e sociale. Non indulgono alla nostalgia né si adeguano alle “magnifiche sorti e progressive”, ma forniscono a politici, economisti e uomini della strada, delle indicazioni pratiche e al tempo stesso cariche della identità morale e culturale europea, della intelligenza tecnica e storica sedimentata dalle virtù civiche e dalla sobrietà dei costumi di un Bene comune condiviso.

Con i piedi per terra è la prima raccolta di testi diffusa in Italia; gli argomenti spaziano dall’improprio primato dell’economia industriale, al fallimento dell’istruzione universitaria, al nostro rapporto con gli strumenti della tecnologia e con la natura selvaggia. La consapevolezza dei problemi sociali si associa sempre alla dimensione spirituale: la capacità di non turbare l’armonia del creato rappresenta, infatti, per Berry la virtù fondamentale degli esseri umani che, riconoscendo l’intima dipendenza di tutti i fenomeni, possono rintracciare quella “trama della vita” che ricomponga l’armonia e l’equilibrio tra natura e cultura. Occorre abbandonare le astrazioni sempre più “virtuali” del tecnologismo e rimettere i “piedi in terra”, rivolgere l’evoluzione delle cose a una conquista interiore attraverso scelte materiali, pratiche di vita, cultura e cura della terra come modo di amare una comunità d’appartenenza ritrovando se stessi. È emblematico come la minaccia più avvertita dal pensatore americano, per la natura e per l’umanità, sia la monocoltura delle onnipervadenti urbanizzazioni che si accompagna alla naturale fragilità degli immensi campi coltivati per il medesimo raccolto industrializzato. Quale metafora più sostanziale del “pensiero unico” piallatore di diversità e, quindi, assassino della complessità e ricchezza del vivente?

Il problema della coerente e pratica applicazione della coscienza personale e comunitaria nella vita di ogni giorno è quello centrale di ogni uomo. Quando una società nega questa esigenza, separandosi dalla propria tradizione, regredisce nell’anomia e nel degrado culturale, nonostante la patinata veste di prodigi tecnologici e successi materiali di cui si riveste. Berry si richiama, al contrario, ad una prospettiva di radicamento etico del quale l’economia può, e quindi deve, essere un mero strumento. Nell’interpretare l’evoluzione del modello economico statunitense immagina retoricamente come sarebbe stata la società, se nel dopoguerra si fosse dato il giusto peso alle comunità rurali rispetto alla crescita esponenziale del prodotto interno lordo, se si fosse investito nella qualità della vita con lo stesso impegno impiegato per dispiegare il complesso militare-industriale più potente del mondo.

Analogamente, Giannozzo Pucci, ottimo prefatore del libro nonché emulo di maggior spessore del pensatore americano nel nostro Paese, sposta le coordinate dell’interrogativo in Italia e si domanda cosa sarebbe successo se invece dell’automobile, si fossero privilegiati i trasporti pubblici e si fosse investito in un sistema di piccole industrie di trasformazione ad alto valore aggiunto e qualità e in una “tecnologia appropriata”, che puntasse a modernizzare il lavoro agricolo senza spopolare la campagna e metropolizzare le città con l’anonimato periferico e l’urbanizzazione stradale coatta.

La storia non si nutre di ipotesi, ma consente l’onestà intellettuale di una comparazione teorica. Dopo le macerie del degrado ambientale procurato dall’incedere dello “sviluppo”, è oggi meno “eretico” immaginare un futuro in cui la “riduzione di scala”, in una prospettiva comunitaria, consenta quella “grande inversione” del modello industriale echeggiata da Edward Goldsmith per ricostituire una qualità della vita degna di una eredità culturale da tramandare alle prossime generazioni.

In questa prospettiva è di assoluto rilievo il pensiero di Fritjof Capra. Grazie all’originalità e all’importanza dei suoi contributi - fra cui il bestseller internazionale Il Tao della Fisica, oltre al non meno sostanzioso Il punto di svolta – il fisico americano è oggi considerato uno degli intellettuali più credibili e influenti tra quelli che si collocano in quel campo di contaminazione scientifica, sociale e filosofica, germinatore di un nuovo “paradigma” olistico per interpretare e favorire il mutamento del modello di sviluppo.

Il debito dell’autore all’ecologia del profondo è riconosciuto limpidamente, quando definisce il “nuovo paradigma” come una visione del mondo che si fonda sulla consapevolezza della interdipendenza fondamentale di tutti i fenomeni ed afferma che, come esseri individuali e sociali, tutti noi incidiamo e contemporaneamente dipendiamo dai processi ciclici della Natura.

Nelle sue prime opere Capra si è accostato alla fisica contemporanea e alla tradizione sapienziale orientale constatando come, inconsciamente, la scienza occidentale si allontani sempre più dalla cornice entro cui è nata, che è quella cartesiana di una scissione fra mente e natura. Così, idee come quella della “fondamentale interconnessione della natura” - fondamento di buona parte del pensiero orientale - o archetipi mitici come la “danza di Shiva”  cioè della materia come emanazione energetica autopoietica, cominciano ad acquisire un preciso significato nel linguaggio della fisica contemporanea; infatti le teorie dei quanti, dei quark e del cosiddetto bootstrap giungono a descrivere analiticamente la “compenetrazione” dell’esistente. È intuibile la portata di questa vulgata, che travalica i campi epistemologici del pensiero scientifico e investe le categorie stesse della modernità. 

In questo suo ultimo libro, La rete della vita, compie un passo ulteriore, per quanto conseguenziale, disegnando la mappa di un radicale mutamento in atto nell’ambito del sapere stesso. I modelli lineari e deterministici ereditati da Newton e Darwin si stanno rivelando sempre più inadatti a favorire la comprensione del mondo e di noi stessi: è necessaria una nuova sintesi dell’universo, alla quale, da campi diversi, stanno contribuendo gli studiosi impegnati su fronti apparentemente distanti ,che si chiamano teoria di Gaia, teoria sistemica, della compessità e del caos.

Capra, forte della sua formidabile curiosità intellettuale, ha il merito di tendere a una sintesi complessiva, fatta con un linguaggio piano e accessibile, di questa “insensibile” rivoluzione, scorgendo il delinearsi di un nuovo/antico pensiero, che vede nella natura e negli esseri viventi non entità isolate, ma sempre e comunque “sistemi viventi” dove il singolo è in uno stretto rapporto di interdipendenza con i suoi simili e il sistema tutto. La somma di queste relazioni, che legano gli universi della psiche, della biologia, della società e della cultura è una rete: la rete della vita.

Ricongiungersi alla trama della vita significa edificare e mantenere comunità sostenibili, in cui possiamo soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza pregiudicare le generazioni future. A questo scopo, possiamo rifarci al funzionamento degli ecosistemi, che sono società sostenibili del mondo organico, vegetale ed animale.

La teoria dei sistemi viventi, discussa da Capra nel suo libro, fornisce gli strumenti concettuali per collegare le comunità ecologiche alle comunità umane. In entrambi i casi si tratta di sistemi viventi, che mostrano analoghi principi basilari di organizzazione. Sono reti chiuse organizzativamente, ma aperte ai flussi di energia e di risorse che possiedono una intelligenza informativa insita nei processi vitali.

Naturalmente, ci sono molte differenze fra ecosistemi e comunità umane. Non esiste consapevolezza di sé negli ecosistemi: non esistono coscienza, cultura, linguaggio e perciò mancano giustizia e sensibilità, ma non esistono neanche avidità e strumentalismo. In pratica, ciò che necessita apprendere è come vivere in modo sostenibile. Questa saggezza della Natura può essere riassunta concettualmente in quattro principi: l’interdipendenza, la ciclicità, la partecipazione e la flessibilità.

L’interdipendenza – la dipendenza reciproca di tutti i processi della vita – costituisce la natura di tutte le relazioni ecologiche: il comportamento di ogni membro vivente dell’ecosistema dipende dal comportamento degli altri. Il successo dell’intera comunità dipende dal successo dei suoi singoli membri, così come il successo del singolo dipende dal successo della comunità nel suo complesso.

La ciclicità dei processi si basa sugli anelli di retroazione di un ecosistema, per cui le sostanze nutritive trasformate in rifiuti per una specie, diventano automaticamente sostanze per un’altra, così che i rifiuti vengono completamente riciclati e il complesso vitale rimane privo di materiali residui.

La partecipazione è dovuta al fatto che gli scambi di energia e di risorse in un ecosistema sono sostenuti da una cooperazione diffusa. La tendenza ad associarsi, a stabilire legami, a vivere uno dentro l’altro e a cooperare è uno dei fondamenti della vita. Nelle comunità umane questo significa contemporaneamente democrazia e sviluppo delle potenzialità personali, dato che ogni membro ricopre un ruolo irripetibile.

La flessibilità di un ecosistema è una conseguenza dei suoi anelli di retroazione multipli, che tendono a riportare il sistema in equilibrio ogniqualvolta ci sia una deviazione dalla norma, dovuta al cambiamento di condizioni ambientali interne o esterne. La stessa cosa vale per le comunità umane. La mancanza di flessibilità si manifesta quando una o più variabili del sistema vengono spinte all’eccesso della loro funzione, causando l’irrigidimento del complesso fino alla possibile ipertrofia e collasso.

Il principio di flessibilità suggerisce una strategia corrispondente per la risoluzione di conflitti. In ogni comunità esistono naturalmente contraddizioni, che non è possibile risolvere in favore dell’una o dell’altra parte: la comunità necessita contemporaneamente di stabilità e di cambiamento, di ordine e di libertà, di tradizione e di innovazione. La possibile soluzione di questi conflitti risiede nell’equilibrio dinamico. L’ecologia è a conoscenza del fatto che entrambe le parti in conflitto possono essere importanti, a seconda del contesto, nel processo vitale e che le contraddizioni all’interno di una comunità sono sintomi della sua diversità e della sua vitalità contribuendo sostanzialmente alla capacità di sopravvivenza.  

Tra le comunità umane la diversità etnica e culturale ricopre un ruolo analogo. Diversità significa relazioni molteplici date da approcci diversi a problemi simili. La diversità è la risorsa vitale contro l’uniformità suicida del  sistema mondo tecnomorfo.