Cosa resta della Rivoluzione d'Ottobre
di Filippo Ghira - 06/11/2007
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Oggi che l’Unione Sovietica si è ormai dissolta e che la Russia è tornata ad interpretare il suo ruolo di potenza euro-asiatica è utile domandarsi quale sia stato il significato della Rivoluzione d’Ottobre. E che cosa essa abbia insegnato sia nelle sue premesse che nel suo svolgimento. Sia anche nel suo approdo inevitabile, lo Stalinismo, che nel progressivo sfaldamento dell’intera struttura. Specialmente oggi che assistiamo ad un liberismo ormai senza più freni. Un liberismo che, paradossalmente, sembra voler creare, non è chiaro quanto inconsapevolmente, tutte le trasformazioni sociali che Marx aveva previsto e che aveva giudicato indispensabili come premessa di una rivoluzione mondiale. E cioè il progressivo impoverimento della gran massa della popolazione dei Paesi industrializzati e il trasferimento di un’enorme quota di ricchezza nelle mani di una limitata schiera di capitalisti e di istituzioni finanziarie come banche e fondi di investimento. Significativo, sempre in un’ottica marxiana, è che questi soggetti agiscano in maniera quasi anonima oltre che automatica, nel senso che è irrilevante chi li guida. Quanto succede è così inevitabile perché è l’attuale accumulazione di capitale che spinge ed anzi obbliga in tale direzione. Quello che risulta determinante è il fine che essi perseguono, il raggiungimento del maggior profitto nel minor tempo possibile. I capitali infatti non tendono più a muoversi per immobilizzarsi in investimenti di tipo industriale ma cercano quelli strumenti capaci di moltiplicarli, sia pure correndo non pochi rischi, come possono essere i derivati. E’ una involuzione dell’economia che Marx non poteva aver previsto. E’ invece consequenziale alla sua impostazione il fatto che tali capitali vengano mossi a piacimento ad ogni latitudine, potendosi permettere a differenza dell’Ottocento, di ignorare le frontiere ormai inesistenti, in quanto non più funzionali ai loro interessi. Infatti lo Stato e gli Stati si sono di fatto estinti perché sono ormai diventati una sovrastruttura inutile ed ingombrante. Ed è curioso notare come fossero proprio i rivoluzionari più internazionalisti, e più ortodossi in senso marxiano, come Trotzky e i menscevichi, a pretendere che per lo scoppio della rivoluzione, che doveva essere mondiale, fosse necessario lo stesso grado di sviluppo capitalistico in tutti i Paesi. Per giungere poi ad un grado di sfruttamento così insopportabile che tutte le masse della terra, proletarie e proletarizzate, si sarebbero simultaneamente sollevate per instaurare un nuovo ordine. Curioso, perché certi discorsi in chiave internazionalista ci ricordano un po’ troppo da vicino tutte le prediche che da troppe parti vengono fatte in nome e in difesa della globalizzazione e di un unico grande Mercato. E’ appena il caso di notare che anche i “neo conservatori” di Bush siano quasi tutti degli ex trotzkisti che, dopo aver abbandonato il sogno di una rivoluzione mondiale, hanno sposato quello di un mercato globale. Se differenti sono le conclusioni, lo stesso è invece il modo di ragionare, quello che porta a considerare come irrilevanti le differenze culturali tra i popoli. Lenin prima e Stalin poi avevano ben presente questo pericolo e il loro indirizzarsi verso un socialismo nazionale ne fu la ovvia conseguenza. |