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Il buddismo e la natura

di Jacques Brosse - 06/11/2007

 

 

“Per quanto numerosi siano gli esseri, faccio voto di farli pervenire tutti alla liberazione”. Questo è il primo dei quattro grandi voti che pronunciano i monaci zen. Questi esseri non sono soltanto gli uomini, ma tutti gli esseri viventi, compreso, dice un commento, il più piccolo filo d’erba. Questi voti sono quelli del Bodhisattva, di colui che, pervenuto al Risveglio, rifiuta la ricompensa ultima, la liberazione definitiva, il Nirvana, per continuare a mettersi al servizio degli altri. Come è ben precisato, il Bodhisattva fa passare gli altri davanti a sé.

 

 

Saggezza e compassione

 

Il maestro Eihei Dôgen (1200-1253), monaco fondatore di una scuola zen in Giappone, dice che per noi l’esercizio della compassione è in primo luogo identificazione con l’altro, non-riconoscimento. Ma per identificarsi, bisogna conoscere esattamente l’altro. In altri termini, compassione e conoscenza non possono andare l’una senza l’altra. Un maestro ha detto: “La saggezza senza compassione genera orgoglio, ma la compassione senza saggezza è cieca”. Il che significa che bisogna conoscere la natura per rispettarla e amarla. Un vero buddista è obbligatoriamente un ecologista.

Un occidentale che si avvicina al buddismo deve necessariamente rivedere le sue opinioni sul rapporto dell’uomo con la natura. Non può più ammettere che l’uomo sia “la misura di tutte le cose”, come sosteneva Protagora, e ancor meno l’assurdo discorso di Cartesio sugli animali-macchine. Cartesio stesso praticava la vivisezione, poiché gli animali non potevano soffrire. Un buddista non può nemmeno accettare la dichiarazione di Cartesio che è d’altronde un sacrilegio: “Grazie alla scienza, l’uomo sarà d’ora innanzi il padrone e il possessore dell’universo”. Oggi vediamo le conseguenze di una tale presa di posizione.

Se dovessi fornire alcune ragioni che mi hanno, per un certo tempo, allontanato dal cristianesimo, dovrei menzionare il ben noto passo della Genesi, dove Jahvè dice a Noè e ai suoi figli, dopo il diluvio: “Il timore e il terrore di voi sia in tutte le bestie selvatiche e in tutto il bestiame e in tutti gli uccelli del cielo. Quanto striscia sul suolo e tutti i pesci del mare sono messi in vostro potere”. Il traduttore della Genesi della Bibbia di Gerusalemme, il P. de Vaux, aggiunge: “L’uomo è di nuovo benedetto e consacrato re della creazione, come alle origini, ma non è più un regno pacifico. A causa del peccato dell’uomo, l’età nuova vedrà la lotta degli animali con l’uomo e degli uomini tra loro”.

Un simile discorso mi scandalizzava già quando ero bambino. Non potevo ammettere che la caduta dell’uomo avesse provocato quella di tutte le altre creature, che la Terra stessa fosse divenuta peccatrice, peccaminosa, come si diceva una volta. Come fondare un’ecologia su tali basi?

Se mi sono volto verso il buddismo, è un po’, e ovviamente non soltanto, a causa di questo: il suo assoluto rispetto della vita, di ogni vita, la sua condanna di ogni violenza nei confronti di chiunque. Questo principio etico si basa sull’interdipendenza, la solidarietà di tutti gli esseri e l’interdipendenza è, lo sottolineo, un concetto molto importante dell’ecologia.

Un’altra differenza essenziale tra cristianesimo e buddismo, non priva di relazione con la precedente, concerne il problema del Bene e del Male, questa dicotomia radicale, questo dualismo assoluto sul quale, per fare solo l’esempio del cristianesimo, ha tanto insistito Sant’Agostino il quale era, prima della sua conversione, manicheo. Questo radicale dualismo si è infiltrato nella stessa dottrina della Chiesa: gli eletti e i dannati. Questa posizione è all’origine dell’abominevole predestinazione, ma anche delle guerre, e non soltanto delle guerre di religione; non è infatti forse vero che tutte le guerre sono guerre di religione, come dimostrerebbero molti esempi contemporanei? Il nemico è il Male incarnato.

La posizione del buddismo è completamente diversa, e persino quasi opposta. Non esiste né un Bene, né un Male in sé, il Bene e il Male sono nozioni soltanto relative e anche soggettive, riposano su un giudizio. D’altronde, sappiamo per esperienza che da un male può nascere un bene, ma anche da un bene un male, di questo facciamo tutti quotidianamente esperienza.

 

 

Rispetto di ogni creatura

 

A questo proposito, citerò un esempio storico ben noto, quello dell’imperatore Asoka (273-232 a. C.). Poco dopo aver trionfato sui suoi nemici, Asoka ebbe orrore delle sofferenze che aveva appena inflitto. Allora, si convertì al buddismo e da quel momento si dedicò a far regnare in tutto il suo impero la pace e il benessere per tutti i suoi sudditi, animali compresi. Proibì i sacrifici sanguinosi dei bramini. Egli stesso smise di cacciare e divenne vegetariano. Fece costruire molti ospedali e ospizi per gli uomini, ma anche per gli animali.

Il buddista vieta la caccia, la sorte degli animali nei macelli e, ovviamente, la vivisezione. Non può nemmeno ammettere il concetto di animale nocivo e, come si dice nelle nostre campagne, di nemici delle colture, in realtà pretesti per uno sterminio radicale, per l’uso massiccio di pesticidi pericolosi per la salute umana e inefficaci contro gli insetti presi di mira.

Mi permetterò di citare qui un esempio che ho io stesso vissuto. Nel corso di un soggiorno in Cina, nella primavera del 1981, mi stupivo di non ascoltare il minimo canto di uccelli. Chiestane la ragione, mi fu risposto che prima il presidente Mao aveva decretato che gli uccelli erano nemici del popolo poiché divoravano i raccolti. Di conseguenza, si era provveduto a sterminarli. Ci si può immaginare il disastro ecologico che ne risultò.

Orbene, il buddista, come l’ecologista, sostiene che il concetto stesso di animale nocivo non ha senso. Si parla di infestazione, ma quando c’è infestazione, è sempre l’uomo che ne è responsabile, diretto o indiretto. Ora sappiamo che ogni animale, per quanto possa sembrarci insignificante, è indispensabile all’equilibrio dell’ambiente in cui vive. Di questo il buddista è persuaso tanto quanto l’ecologista.

 

 

Legge karmica

 

Per il buddismo, la condizione umana è solo una delle sei possibili condizioni di esistenza nei cicli delle nascite e delle morti, il samsara, che ognuno di noi deve interamente percorrere fino alla liberazione finale, il nirvana. Questa è la legge del karma, che regge tutti gli esseri senza eccezioni. Questo aspetto essenziale della dottrina è molto più sviluppato nel buddismo tibetano che in quello zen. Mi limiterò a trarne le conseguenze che sono per me evidenti dal punto di vista che in questa sede ci interessa maggiormente. Quello che deriva dalla legge del karma è che siamo stati, o saremo, non soltanto esseri umani, ma, ad esempio, animali, e questo in funzione dei nostri atti (karma significa “atto”). A seconda dei nostri atti, noi progrediamo o regrediamo. Per il buddismo, la condizione umana è al contempo la più nobile e la più pericolosa, è segnata dalla sofferenza, ma essa sola può condurre al Risveglio. Ogni essere umano dispone del potere di scegliere, lui solo può superare il samsara, abbandonarlo e raggiungere la liberazione. Questa libertà di scelta la chiamiamo coscienza.

L’idea di una trasmigrazione delle anime di vita in vita non è affatto estranea alla storia spirituale dell’Occidente, ed essa vi ha avuto ripercussioni simili a quelle generate nel buddismo: il rispetto di ogni vita, il rispetto in particolare dell’animale. L’orfismo, la spiritualità dei misteri ha percorso tutta la civiltà greca dalle origini al suo assorbimento nel mondo cristiano, grazie a quegli intermediari che sono stati Pitagora e Platone e infine i neoplatonici. L’orfismo condannava radicalmente i sacrifici sanguinosi che costituivano il fondamento del culto collettivo, ufficiale, vietava il consumo di ogni carne animale. La principale giustificazione di queste interdizioni, senza le quali non poteva esserci vita spirituale, era la credenza nella metensomatosi che può essere accostata, ma non confusa, con la retribuzione karmica.

 

 

Il ruolo della mediazione

 

Ricordo, ad esempio, la famosa dichiarazione di Empedocle nelle sue Purificazioni: “Perché io fui, per un certo tempo, ragazzo e ragazza, albero e uccello, e pesce muto nel mare. Ho pianto e singhiozzato alla vista di questa insolita dimora”. Orbene, questa condizione spirituale si è prolungata a lungo anche dopo l’avvento del cristianesimo di cui essa ha influenzato alcuni pensatori, ad esempio Origene. Uno dei testi fondamentali di Porfirio condanna il consumo della carne, in quanto carne di animali che non si debbono né uccidere né consumare, se si vuole condurre una vita spirituale.

Certi biologi contemporanei si chiedono se non sia il caso di avvicinare karma ed eredità. Quanto alla nozione di evoluzione, era comune nel buddismo che non ha atteso Darwin, come, per quanto riguarda l’inconscio, il buddismo non ha atteso Freud e Jung. La coscienza è ciò che, nel IV-V secolo della nostra era, ha sviluppato la scuola Vijnâvâda, la scuola dell’insegnamento sulla coscienza di Asanga e Vasubandhu[1].

La coscienza, per noi, è la rete di comprensione privilegiata di noi stessi in quanto esseri indipendenti, che esistono solo con gli altri e per gli altri, è la rete di relazione con l’altro e con il mondo, questo modo di comunicazione, o piuttosto di comunione.

Ora, questa coscienza può essere sonnolenta e lucida, chiara e intorbidata. E questo dipende da noi. L’esercizio della meditazione quotidiana mira a questo: la purificazione della coscienza sino a farla diventare lo specchio nel quale si riflette l’Universo o, per il credente, Dio.

È questo che chiamiamo Risveglio. E ancora una volta, esso dipende solo da noi. Noi siamo interamente responsabili di questa evoluzione. Per lo Zen, il Risveglio è il compimento dell’uomo, delle sue potenzialità, della loro realizzazione. Un uomo non svegliato non è ancora un uomo.

Questi sono, in breve, i principi dello Zen, almeno così come li ho compresi e li insegno. Ma lo Zen non è altro che l’insegnamento fondamentale del Budda Sakyamuni e la sua messa in pratica. Per noi, questa pratica è lo Zazen, la meditazione/contemplazione nella posizione del Budda in occasione del suo Risveglio, posizione che realizza il perfetto equilibrio del corpo e, di conseguenza, quella dello spirito, a partire dal quale la coscienza purificata dall’ascesi può percepire differentemente la realtà, nella misura in cui la posizione permette da sé di lasciare da parte il mentale e le sue deformazioni, che sono i fondamenti anche dell’io.

Lo Zen è dunque il riflesso di questo insegnamento fondamentale, come lo è pure il Vairayâna, il buddismo tibetano.

Vengo ora a considerazioni più pratiche e più personali. Ho detto che, diventato buddista, ero nondimeno rimasto cristiano, il che esige, credo, qualche spiegazione.

Mia moglie, Simone Jacquemard, e io stesso siamo stati entrambi educati nel cattolicesimo più autentico e più rigoroso, lei da religiose e io da sacerdoti. Siamo stati, l’uno come l’altra, bambini molto pii, molto credenti. Devo aggiungere che di questa educazione abbiamo conservato un eccellente ricordo: essa ci ha spiritualmente illuminati. Ci ha anche dato alcuni modelli di condotta cui siamo rimasti fedeli, essenzialmente l’amore del prossimo.

Ma, divenuti grandi, ci siamo conosciuti molto giovani, Simone e io, avevamo 17 e 19 anni, e potendo disporre di noi stessi, siamo diventati spontaneamente naturalisti e, benché abbiamo studiato al Muséum National d’Histoire Naturelle a Parigi, essenzialmente dei naturalisti portati all’azione diretta, che allora non erano ancora chiamati ecologisti, bensì protettori della natura. Ci sembrava infatti urgente, negli anni Cinquanta, proteggere una natura che l’uomo moderno e la cosiddetta civiltà dei consumi non smettevano di degradare.

Da allora, abbiamo vissuto in campagna, nei boschi, e abbiamo consacrato tutte le nostre risorse alla costituzione di riserve naturali, dove la vita animale come la vita vegetale fosse non soltanto integralmente protetta, ma sostenuta e aiutata. Abbiamo così allevato molte bestie cosiddette selvatiche di ogni specie. Ad esempio, mia moglie ha allevato e addomesticato venticinque volpi. Questo per conoscere meglio quella Wildlife che è la natura. La nostra intimità con essa non ci permetteva più di considerare la natura come peccatrice, il che, d’altronde, era per noi un’offesa al Creatore.

Oggi, insegno congiuntamene e alternativamente il buddismo zen e l’ecologia, non sempre d’altronde alle stesse persone. Ma i miei allievi nello zen sono anche ecologisti praticanti. La maggior parte lo era già spontaneamente. Ho dovuto solo incoraggiarli su questa via. Quale che sia la loro professione – educatori o danzatori, artisti o infermieri – tutti vivono in campagna, coltivano il loro giardino e il loro orto, nutrono gli uccelli, si oppongono alla caccia. Formiamo una piccola comunità monastica SDF[2]. Mi spiego: la nostra comunità non ha ancora, in ogni caso, un domicilio fisso. I periodi di pratica intensiva – nel linguaggio zen, sesshins – che sono più o meno lunghi, hanno luogo là dove siamo invitati, ad esempio al centro tibetano Dhagpo Kagyu Ling, diretto in Dordogna dal mio amico Jigme Rinpoché, ma anche nei monasteri cattolici, ad esempio l’abbazia benedettina di Ligugé, di cui conosco bene l’abate che è divenuto mio amico.

 

 

 

NOTE

 

[1] Vasubandhu era un buddista indiano vissuto nell’India del nord nel IV secolo d.C. Convertito da suo fratello Asanga all’ideale dei Bodhisattva, è considerato come il fondatore della scuola Yogacara la quale sostiene che “tutto è coscienza” e preconizza metodi ispirati allo Yoga tradizionale.

 

[2] Sigla che identifica in Francia le persone senza fissa dimora [N.d.T.].