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Ecologia e cristianesimo: un dialogo da riannodare

di Jean-Marie Pelt - 06/11/2007

 

 

Ci si è interrogati molto, e spesso in maniera molto negativa[1], sui rapporti tra il cristianesimo e l’ecologia. Già nel Libro della Genesi la natura è presentata, al contempo, come il luogo dove si esprimono i doni divini nei confronti degli uomini, ma anche la meravigliosa bellezza della Creazione dove si legge lo splendore del Creatore. All’uomo, qui rappresentato da Adamo, è affidato in primo luogo il giardino dell’Eden perché lo coltivi e lo custodisca[2]. Fin dalle origini, dunque, il Creatore affida all’uomo il compito di gestire la Terra e ne fa, secondo la tradizione musulmana, il suo luogotenente: etimologicamente, colui che agisce in sua vece e al suo posto.

 

 

Un versetto contestato

 

Ma l’Occidente moderno non ha ricordato questi episodi inevitabili dove l’uomo diventa il giardiniere della Creazione che esprime ai suoi occhi lo splendore del Creatore. Ha invece rigidamente focalizzato la sua attenzione su un solo versetto, citato a proposito e a sproposito, a carico della tradizione giudaico-cristiana: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”[3]. Quante volte abbiamo ascoltato e riascoltato questo versetto isolato dal suo contesto da persone che non hanno mai preso la Bibbia in mano e ancor meno il Libro della Genesi. Basandosi su questo solo versetto, la critica occidentale, in particolare la Deep ecology, l’ecologia profonda, stigmatizza l’inaccettabile pregnanza del giudeo-cristianesimo sulla natura e, di conseguenza, lo svaluta nella grande borsa delle religioni dove le tradizioni dell’Estremo Oriente sono, al contrario, quotate al rialzo. Ma questo significa non tenere in gran conto la Bibbia stessa che, dall’inizio alla fine, esalta la natura come opera di Dio, la canta e la loda.

Quanto al versetto incriminato, è forse necessario ricordare brevemente in quali condizioni fu redatto. Israele era allora in esilio a Babilonia, effettivamente sottomessa e dominata da un popolo straniero: di qui, probabilmente, quel pezzo forte scritto da “resistenti” che volevano in tal modo affermare, in termini forse un po’ forti, che l’uomo non è fatto per strisciare, fosse anche davanti ai suoi persecutori. Perciò, far ricadere su questo solo versetto le drammatiche conseguenze dei nostri atti e attribuire la responsabilità dei nostri comportamenti sconsiderati e anti-ecologici a uomini che vissero venticinque secoli fa, in un contesto evidentemente radicalmente differente dal nostro, è un atteggiamento del tutto contestabile. Dopotutto, i cinesi, senza riferirsi in alcun modo all’incriminato versetto della Genesi, hanno molto imprudentemente disboscato i territori bagnati dai loro grandi fiumi, generando così le catastrofiche inondazioni che ben conosciamo. Allo stesso modo, la Grecia è stata sottoposta a un intenso disboscamento durante l’intero primo millennio precedente la nostra era in assenza di qualsiasi influenza giudaico-cristiana.

La Bibbia non può dunque essere considerata come l’unico capro espiatorio dei nostri errori. In verità, accadde proprio il contrario, come dimostra tutta la tradizione di Israele. Si pensi, ad esempio, all’istituzione divina dello Shabbat, dove il riposo del settimo giorno si estende anche agli animali; o ancora all’anno sabbatico durante il quale le terre riposano, come durante l’anno giubilare che sopraggiunge dopo sette anni sabbatici in cui per due anni le colture saranno lasciate a maggese. Qui è già enunciato, fin dalla Bibbia ebraica, il principio evangelico della fede assoluta nel Signore che nutre i suoi e il cui modello bucolico ed ecologico è la notissima parabola degli uccelli del cielo e del giglio dei campi[4].

Questo atteggiamento sarà d’ora in poi costante in tutta la tradizione cristiana, anche se quest’ultima subirà, sin dalle sue prime fasi, la forte influenza della filosofia greca, in particolare platonica e stoica. Si assiste allora, molto presto, a una sorta di costante innalzamento dell’uomo, unico a potersi elevare al livello del mondo delle idee platoniche a scapito di una natura troppo spesso ridotta dal pensiero greco classico a scenografia. Di modo che la tradizione cristiana oscillerà ora verso la lode del Creatore attraverso le sue creature, ora, al contrario, verso l’affermazione sempre più forte del primato dell’uomo ormai promosso al rango di re della Creazione, e che infine si innalza insidiosamente, nella modernità, al posto del Signore.

 

 

L’inno alla lode

 

La prima tendenza – quella della lode del Creatore nelle sue creature – non ha smesso di imporsi attraverso i duemila anni di storia del Cristianesimo.

Molto presto, infatti, alle due estremità del mondo cristiano, sorgono correnti mistiche nutrite da un amore e un rispetto profondo della natura. A est, nei deserti di Siria, Palestina ed Egitto, degli uomini manifesteranno per gli animali quell’affetto che, quasi un millennio più tardi, proverà Francesco d’Assisi. Si pensi all’anacoreta Macario l’Egiziano (301-391), dalla cui leggenda sappiamo che guarì un cucciolo di iena restituendogli la vista. La storia dei padri del deserto brulica di tali meravigliosi avvenimenti, dal grande valore simbolico. Si pensi alla temibile fiera che, nel VII secolo, faceva compagnia a Isacco il Siro; in questi padri del deserto, l’accesso al divino passa, del tutto naturalmente, attraverso un contatto stretto e fraterno con la natura. Per Isacco, il puro di cuore vedrà “le fiere avvicinarsi a lui come alla loro madre; esse scuotono la testa, leccano le sue mani e i suoi piedi, perché hanno sentito emanare da lui quel profumo che esalava Adamo prima della trasgressione e che Gesù ci restituisce con il suo avvento”. Perciò il cuore di Isacco arde per tutta la Creazione, per gli uomini, gli uccelli, gli animali, i demoni e tutte le creature; egli prega persino per i serpenti. Qui già riconosciamo una teologia che si esprimerà in tutta la sua pienezza nel VII secolo con Massimo il Confessore (580-662) quando scrive: “Il mondo è uno perché il mondo spirituale nella sua totalità si manifesta nella totalità del mondo sensibile, espresso misticamente da immagini simboliche per coloro che hanno occhi per vedere. E l’intero mondo sensibile è segretamente trasparente all’intero mondo spirituale”.

Parole eminentemente attuali che si direbbero quasi uscite dalla penna di un Teilhard de Chardin.

Ma all’altra estremità del mondo, in Irlanda, anche i monaci nutriti di tradizione celtica cristianizzata cantano la gloria di Dio attraverso la bellezza delle sue creature. Da Scoto Eriugena (IX secolo) al monaco Colombano (540-615), non si contano le storie meravigliose dove la familiarità con orsi, cervi o uccelli fa parte della vita quotidiana.

Appartati in solitudine, gli eremiti vivevano nell’intimità della natura: “San Moling aveva l’amicizia di una mosca, di un regolo e di un gatto. La mosca seguiva riga per riga i testi che il santo leggeva e si fermava quando la sua attenzione si affievoliva, preservandolo così dal sonno”.

Ma lo stesso cuore dell’Oriente cristiano non sfugge a questo movimento tradizionale della lode cristiana. Verso l’anno mille, Simeone il Nuovo Teologo dissipa le tentazioni neoplatoniche e le reticenze dell’agostinismo, evocando lo sfolgorante scintillio della terra nuova e dei cieli nuovi: “Come i nostri corpi, pur non esistendo più, non sono tuttavia nel nulla e sono rinnovati dalla Risurrezione, così anche il cielo e la terra e tutto ciò che essa contiene, cioè l’insieme della Creazione, sarà rinnovato e liberato dalla schiavitù e dalla corruzione. Questi elementi avranno parte con noi nello splendore dell’al di là”.

L’Occidente, infine, non è da meno. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) legge Dio nella natura e negli alberi più che nei libri di teologia. E Francesco d’Assisi (1181-1226) scuote durevolmente il pensiero cristiano della sua epoca, tornando alle fonti della costante tradizione della lode delle creature cui egli dà una dimensione fino a quel momento ineguagliata.

La sua vita illustra ammirevolmente la profonda convinzione dell’ortodossia secondo la quale non si può essere teologo senza prima essere mistico. Perciò egli diffida dei teologi amanti delle dispute e dei cavilli – come d’altronde delle università che nascono nella sua epoca – e nei quali il suo severo giudizio non vede altro che l’esaltazione di una gloria vana. Egli cerca e trova Dio immediatamente nella natura e nella lettura della Sacra Scrittura. Si sa fino a che punto la tradizione francescana ispirò per secoli il cristianesimo occidentale, e non la finiremmo più di citare, oltre il Cantico delle Creature, gli innumerevoli emuli francescani che ci lasciarono su questo tema dei testi commoventi, al punto che Ernest Renan (1823-1892) ha potuto dire di Francesco che “fu l’unico, vero cristiano dopo la morte di Cristo”. È non è infatti l’unico che abbia portato a termine l’ardua impresa di riunire intorno a sé, ad Assisi, il 27 ottobre 1986, i più alti responsabili delle dodici principali confessioni religiose del globo, su invito di Giovanni Paolo II?

Ma sarebbe ingiusto non evocare qui l’insostituibile apporto delle donne in questa ininterrotta catena storica che lega il cristianesimo alla Creazione. Nel XII secolo, Ildegarda di Bingen (1098-1179) insiste sulla responsabilità dell’uomo nel deterioramento della natura e profetizza letteralmente la crisi ecologica quando scrive: “Ora tutti i venti sono pieni del putridume del fogliame, l’aria vomita sporcizia a tal punto che gli uomini non possono nemmeno aprire la bocca come si deve, il verde è avvizzito a causa dell’empia follia delle cieche folle umane”.

E più avanti, parlando della natura: “Sconvolta, essa perde il suo equilibrio e infligge agli uomini grandi e numerose tribolazioni, affinché l’uomo, che si era volto al male, sia da essa castigato”.

 

 

Alleanza minacciata

 

Tuttavia, nel secolo successivo, Tommaso d’Aquino (1228-1274), il “Dottore angelico”, mostrerà un certo distacco rispetto a questa magnificente celebrazione della Creazione. Egli prende le distanze nei confronti degli animali che esclude dalla parusia e a proposito dei quali scrive. “Negli animali, non esiste alcun desiderio di eternità, ma solo il desiderio della permanenza della specie che si manifesta mediante l’istinto sessuale grazie al quale si perpetua la specie”. Ma in fondo, cosa ne sa? Il dottore angelico aveva forse un cane col quale condivideva le sue emozioni? Probabilmente no. Indubbiamente, Tommaso ha ragione quando scrive: “È verosimile che se si prova un tale sentimento di pietà verso gli animali, si è favorevolmente disposti a provarlo anche verso gli uomini”. È una tesi condivisibile, ed è vero che la sensibilità per la natura genera naturalmente la sensibilità per gli esseri della nostra specie. Eppure, il dottore angelico marginalizza il mondo animale quando scrive: “Dalla divina Provvidenza, secondo l’ordine naturale delle cose, gli animali sono destinati agli uomini”. Certo, si dirà, ma fino a che punto e fin dove dobbiamo spingerci nell’utilizzazione degli animali? Ecco dunque che già nel XIII secolo si delineano i primi segni di una rottura del cristianesimo nei confronti della natura che sfocerà, secondo l’evoluzione costantemente rafforzata in seguito, in un quasi divorzio, almeno in Occidente, dal quale cominciamo appena a rimetterci.

Una evoluzione rispetto alla quale l’Oriente, più fedele alle nostre comuni origini, si manterrà nella giusta linea di riflessione dei padri della Chiesa, come testimonia il bel libro del patriarca Ignazio di Antiochia[5].

Non si può tuttavia gravare il povero Tommaso dell’unica responsabilità di questa spiacevole evoluzione che pesò sulla Chiesa d’Occidente. Al termine della sua vita, infatti, il dottore angelico lasciò la penna e i libri e, rapito in contemplazione, divenne a sua volta un autentico mistico. Poiché allora rifiutava di dettare qualsiasi cosa al suo segretario Reginaldo, non sapremo mai quali pensieri avranno affollato la sua mente alla fine della sua vita.

Ma la grande svolta, di cui siamo ancora oggi così drammaticamente vittime, fu veramente imboccata solo nel XVII secolo. Già Pascal si dice spaventato dal “silenzio eterno degli spazi infiniti”; egli non vede più, come il salmista, “i cieli cantare la gloria di Dio”. Il fatto è che già in quell’epoca i cieli si svuotano, mentre il Creatore è rigettato lontano, oltre le frontiere delle sue creature. Se la sua trascendenza continua a essere affermata, la sua immanenza è ormai trascurata. Sotto questo cielo e su questa terra ormai purgata della presenza divina, l’uomo può regnare incontrastato e la scienza moderna potrà esercitare il suo dominio sulla natura. La dissezione dei cadaveri e presto quella degli animali vivi ormai non pone più alcun problema morale; il sacro ha abbandonato la materia. E Cartesio spinge fino alle sue ultime conseguenze questa nuova visione del mondo. Per lui, gli animali sono semplici macchine, simili a “un orologio, composto solo di ruote e molle”. Poco dopo di lui, leggiamo con stupore le seguenti parole dell’oratoriano Malebranche (1638-1715): “Gli animali mangiano senza piacere, gridano senza dolore, crescono senza saperlo; non desiderano niente, non temono niente, non conoscono niente”[6]. Lo scenario è ormai a posto. La nuova filosofia della natura, che la degrada allo stato di oggetto, ispirerà il suo sfruttamento; termine, quest’ultimo, che è opportuno intendere, purtroppo, nella sua accezione negativa che rinvia più alla figura dello sfruttatore che a quella del gestore. Perché questo sfruttamento sarà, come ci ha insegnato la storia degli ultimi secoli, senza freni e senza limiti. Esistono, certo, sempre dei franchi tiratori, ma si situano ormai nelle zone di frontiera del cristianesimo. In Francia, i romantici, Chateaubriand e Lamartine, esprimeranno una sensibilità per la natura che certo non è morta, e lo stesso vale, nel corso di questo stesso XVIII secolo, per il romanticismo tedesco. La Russia sembra invece essere rimasta lontana da tale evoluzione, e proseguirà sul suo slancio, che ci è valso le opere di autentici contemplativi come Serafino di Sarov (1759-1833), equivalente russo del nostro Francesco d’Assisi, o, più vicino a noi, Nicolas Berdiaev (1874-1948) e l’ammirevole Dostoevskij. Ne I fratelli Karamazov, un ragazzo di 17 anni muore di tubercolosi. Egli inizia a chiedere perdono agli uccelli, dicendo: “Sì, la gloria di Dio mi circondava, gli uccelli, gli alberi, i prati, il cielo. Solo io vivevo nella vergogna, disonorando la Creazione”. Un linguaggio, conveniamone, diametralmente opposto a quello di un Occidente che, nella stessa epoca, in verità, non si preoccupava più molto della Creazione. E di fatto, con il marxismo, la peggiore delle vergogne si abbatté su questa grande nazione che per 70 anni praticò il più assoluto disprezzo della natura, celebrando un produttivismo ancora più assoluto di quello, già esagerato e devastante, dell’Occidente.

 

 

Segni di speranza?

 

Ora, sotto i nostri occhi, questo stesso produttivismo accanito, questo materialismo assoluto, ancora oggi, distrugge l’uomo e la terra. La mondializzazione dell’economia, l’assoggettamento dell’uomo alla macchina, la promozione di un’economia che non è più al servizio dell’uomo bensì l’inverso, la quasi idolatria delle tecnologie, la costante priorità data alle scelte economiche e politiche a breve termine a scapito delle esigenze ecologiche e della preoccupazione per le generazioni future, generano ormai una crisi ecologica senza precedenti. È dunque venuto il momento in cui le grandi religioni, riallacciandosi alle loro immemorabili tradizioni, debbono parlare alto e forte, e con una stessa voce, per scongiurare gli imminenti disastri che ci minacciano. I recenti raduni di Basilea e Graz si sono risolutamente mossi in questa direzione, preoccupandosi, in una raccolta di tutte le sensibilità cristiane, della salvaguardia della Creazione. Altrove, si mettono all’opera teologi della Creazione come Roger Klaine nel suo notevole studio sul divenire del mondo e la Bibbia[7]. Una fioritura di iniziative che depone a favore di un riavvicinamento tra l’ecologia e il cristianesimo. Non è d’altronde noto che Bartolomeo, patriarca ecumenico di Costantinopoli, è un ecologista convinto, e che ha appena introdotto nella liturgia un ufficio della Creazione di grande bellezza? Ovunque, alla base e al vertice, si prendono molteplici iniziative tendenti al dialogo tra l’ecologia e le religioni.

 

 

 

 

NOTE

 

[1] L’articolo dello storico americano Lynn White, pubblicato in Science, 1967, vol. 155, pp. 1203-1207, con il titolo “The Historical Roots of the Ecological Crisis”, ha fatto epoca. Esso mette in discussione il cristianesimo in quanto all’origine del disincanto del mondo, poiché profondamente antropocentrico.

 

[2] Genesi 2, 15.

 

[3] Genesi 1, 28.

 

[4] Luca 12, 22-32.

 

[5] Ignace IV d’Antioche, Sauver la Création, Editions Desclée de Brouwer, 1989.

 

[6] Cfr. Bastiare Hélène et Jean, Le Chant des créatures, Editions du Cerf, 1996. Opera molto documentata dalla quale traggo queste citazioni.

 

[7] Klaine Roger, Le Destin de l’univers, tomi I e II, “Le devenir de l’humanité” e « Le devenir du monde de la Bible », Editions du Cerf, Paris 2000.