Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / 1857, l’ultimo Moghul contro l’Impero britannico

1857, l’ultimo Moghul contro l’Impero britannico

di Federico Rampini - 06/11/2007

    
Prendendo spunto dal libro di William Dalrymple, L’assedio di Delhi, Federico Rampini ricostruisce le vicende e le motivazioni della rivolta che infiammò l’India musulmana e indù nel biennio 1857-1858. La ribellione mise realmente a rischio il dominio britannico nel subcontinente.
Secondo Rampini la sollevazione militare dei
sepoy, i soldati indiani inquadrati nell’esercito britannico, fu una vera e propria guerra di indipendenza che coinvolse tutti gli strati sociali della popolazione, unendo indù e musulmani sotto la guida di Zafar, l’ultimo degli imperatori moghul. All’origine della rivolta vi sarebbe il cambiamento nella politica religiosa da parte dei dominatori britannici: se per tutto il Settecento e la prima metà dell’Ottocento la penetrazione britannica fu essenzialmente economica e i suoi rappresentati si integrarono culturalmente con la società indiana, alla metà del XIX secolo i britannici iniziarono una forte attività di proselitismo cristiano, che alterò in breve l’equilibrio della convivenza fra le fedi in tutto il subcontinente.

Non vi è traccia a Rangoon della tomba di Bahadur Shah II detto Zafar, l’ultimo imperatore di quella dinastia Moghul che segnò un’apoteosi della civiltà indiana. Alla sua morte il 7 novembre 1862 l’ottantasettenne Zafar ebbe una sepoltura frettolosa e anonima, vigilata solo da un plotone di soldati inglesi. Era stato scelto apposta per lui un carcere della Birmania, alla periferia del subcontinente indiano governato da Londra, e in una regione buddista distante dalla forza dell’islam. Quel funerale clandestino suggellava la volontà di cancellare per sempre il ricordo di un uomo che aveva fatto tremare l’impero britannico. Zafar era stato il leader della più vasta rivolta contro il colonialismo nel Diciannovesimo secolo. The Mutiny (“l’ammutinamento” ), secondo la sprezzante definizione inglese, in realtà fu una vera guerra d’indipendenza, centocinquant’anni fa dilagò in tutta l’India e fece tremare alle fondamenta il più solido impero dell’uomo bianco in Asia. Fu una sollevazione militare iniziata dai sepoy - i soldati indiani sotto comando britannico - che coinvolse élite e popolo, indù e musulmani, fino a culminare nella “Stalingrado indiana”, il terribile assedio di Delhi che si concluse con la cattura di Zafar e i massacri perpetrati dagli inglesi.
È un capitolo di storia avvolto ancora in parte nell’equivoco, per le reticenze ideologiche di molti storici: la versione colonialista era indulgente con i vincitori; tra gli indiani invece il ruolo dell’islam in quella rivolta è stato spesso minimizzato dal nazionalismo induista. Eppure la lezione del 1857 ebbe un ruolo decisivo nell’ispirare sessant’anni dopo la strategia della resistenza passiva di Gandhi e la sua via non violenta per la liberazione. Oggi a fare luce su quella vicenda tragica e controversa è l’acuto conoscitore dell’India William Dalrymple, che si è immerso per anni negli archivi originali della corte Moghul in lingua urdu. Con la consulenza di studiosi indiani Dalrymple ha realizzato L’assedio di Delhi [...] un affresco grandioso dello scontro finale consumato fra l’ultima dinastia Moghul e l’impero britannico.
All’inizio del 1857 nulla sembra destinare Zafar a un ruolo importante. Il lontano discendente di Gengis Khan e di Tamerlano è ridotto a un’ombra patetica, una figura irrilevante rispetto ai suoi antenati Akbar e Shah Jahan che hanno fatto dell’India la nazione più ricca del pianeta. Nato nel 1775, quando in India la presenza britannica è ancora modesta, limitata a tre porti commerciali, nel corso della sua vita Zafar vede la propria dinastia degradata e umiliata, mentre gli inglesi usano la forza mercantile come grimaldello dell’espansionismo militare. Salito al trono da anziano, quando è ormai impossibile arrestare il declino dei Moghul, l’ultimo imperatore è un fantoccio, tollerato dai veri padroni dell’India che ancora non hanno gettato la maschera. Appare rassegnato a interpretare quel ruolo con una decorosa dignità. [...] Gli inglesi scambiano la sua mitezza per mediocrità, lo credono istupidito dall’ozio. Si sbagliano. «Personalmente», scrive Dalrymple, «era uno degli uomini di maggior talento della sua dinastia: abile calligrafo, profondo studioso di sufismo, accorto protettore di miniaturisti, ispirato creatore di giardini, nonché architetto dilettante; era un poeta mistico molto dotato che non solo scrisse in urdu e persiano, ma anche in braj basha e panjabi, e fu in parte grazie al suo mecenatismo che si verificò il rinascimento letterario forse più significativo della storia indiana moderna».
Non è per natura un trascinatore carismatico, tantomeno un ribelle. Ma quando la mattina dell’11 maggio 1857 trecento sepoys e cavalleggeri entrano a Delhi, massacrano ogni cristiano che trovano in città e lo proclamano loro capo e imperatore, Zafar accetta la chiamata del destino: assume il comando, un gesto decisivo nel conferire legittimità alla rivolta. È una parabola effimera ma oggi si può dire che la vera vita di Zafar si consuma in quei pochi mesi, tra il sollevamento del suo popolo e l’implacabile repressione inglese. In quel breve arco il vecchio Moghul ritrova la fierezza degli antenati, riscatta il disonore. La vampata di orgoglio gli vale l’odio eterno degli inglesi, persecuzioni implacabili, anche quando in fin di vita torna ad essere un povero relitto umano alla deriva. Il corrispondente del “Times” di Londra, William Howard Russell, vedendolo in prigionia stenta a credere che quell’uomo ha potuto sfidare la superpotenza inglese: «Era un vecchio sognante dagli occhi velati e vacui, sdentato e con il labbro inferiore debole e cascante. Era davvero lui che aveva concepito quell’ambizioso progetto di restaurazione di un grande impero, che aveva fomentato l’ammutinamento più gigantesco della storia del mondo? Sedeva in silenzio giorno e notte con lo sguardo a terra, spento e appannato. Qualcuno lo udì citare versi da lui stesso composti, mentre scriveva poesie sul muro con un bastoncino bruciato».
Sconcertati di fronte alla figura di Zafar, i vincitori tradiscono un’incomprensione profonda delle vere cause degli eventi del 1857. La scintilla che dà fuoco alle fiamme è un episodio in apparenza insignificante. Gli inglesi introducono nuovi fucili in dotazione. Si sparge la voce che le cartucce sono unte con grasso di manzo e di maiale. Dovendole aprire con i denti i sepoy commettono un grave peccato: gli indù non possono mangiare manzo e il maiale è vietato ai musulmani. Come può questo incidente circoscritto - gli inglesi sostengono che è falso e comunque ritirano le cartucce incriminate - scatenare la rivolta di un continente?
La verità è che l’equilibrio della convivenza tra le fedi religiose è stato sconvolto proprio dagli inglesi. All’inizio la loro penetrazione in India è stata economicamente spregiudicata ma culturalmente “soft”. Per tutto il Settecento e fino al fatidico Mutiny, Londra delega l’espansionismo a una società privata, la East India Company. I suoi dirigenti sono abili affaristi ma subiscono il fascino della civiltà indiana: chiamati i “nababbi” o “Moghul bianchi”, sposano donne indiane, adottano usi e costumi locali. [...]
Questa fusione armoniosa nella società locale viene meno a metà dell’Ottocento. La causa va cercata nell’ascesa di una nuova religiosità in Gran Bretagna: il cristianesimo evangelico [...]. Se la East India Company inizialmente ha addirittura ostacolato l’attività missionaria, il nuovo movimento vuole salvare i pagani dalla dannazione. L’Inghilterra si sente investita di una vocazione, il proselitismo diventa parte integrante della sua presenza in India. L’imposizione aggressiva del cristianesimo è la causa profonda della rivolta di 131mila sepoy dell’esercito del Bengala, la più numerosa armata moderna nell’Asia di quell’epoca. La prima delegazione di sepoy che giunge al cospetto di Zafar, l’11 maggio 1857, lo dice chiaramente: «Ci siamo uniti per proteggere la nostra fede». L’adesione dell’imperatore è fondamentale per dare credibilità alla guerra di religione. Secondo l’iscrizione che compare sul suo ritratto d’incoronazione egli è “Sua Altezza Divina, Califfo dell’Era, Colui che è circondato da schiere di Angeli, Ombra di Dio, Rifugio dell’islam”. [...] Si ripete per un attimo la magia di Akbar, il grande artefice del dialogo tra le religioni, regista di una convivenza armoniosa tra le comunità. Quando Zafar impugna lo scettro della rivolta, indù e musulmani fanno quadrato attorno a lui. Non solo per gli islamici ma anche per molti induisti l’imperatore ha l’aureola di un rappresentante di Dio in Terra. L’adesione popolare intorno al vecchio sovrano coglie impreparati gli inglesi: «Avendo da molto tempo smesso di prenderlo sul serio e perso completamente il contatto con l’opinione pubblica indiana, rimasero stupiti per la reazione dell’Indostan al suo appello». Ma Zafar non ha più le strutture robuste che amministravano l’impero Moghul al tempo del suo antenato Akbar. Non ha attorno a sé una classe dirigente adeguata per tenere unite le tante anime della rivolta. Ben presto le vecchie divisioni tornano a galla. Dopo poche settimane a contatto con i sepoy, l’élite benestante di Delhi diventa insofferente verso quei soldati rozzi e invadenti, ex contadini che saccheggiano i negozi della capitale e molestano le cortigiane. La capitale sotto assedio non viene amministrata. La riscossa inglese recluta spie e disertori tra la gente di Delhi. Solo il nucleo più motivato dalla fede, i fautori della jihad islamica, terranno duro fino all’ultimo. Quando l’esercito britannico riprende possesso di Delhi, è una carneficina. [...]