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Dalla parte degli Indios. Intervista con Luca Martinelli

di Davide Pelanda - 07/11/2007





 

Raccontare, in maniera molto documentata, gli accordi di libero mercato del commercio sia con gli USA che con l'Europa (in corso di negoziato) subiti dai popoli del Centro America già martoriato, negli anni Ottanta e Novanta, dalla guerra e dal genocidio degli indigeni.

Descrivere i megaprogetti come il Plan Puebla Panamá, lo sfruttamento delle risorse naturali (acqua, diversità biologica, minerali) da parte di imprese multinazionali, la fine dell'agricoltura con l'abbandono della campagna e l'emigrazione verso le città o gli Usa, sono i moderni “cavalli di Troia” che arrivano a fiaccare la resistenza delle popolazioni locali.

Tutto questo si trova ne “I Colori del Mais” (EMI edizioni 2007 – pp. 176 – 10 Euro). Luca Martinelli è l'autore, un ottimo giornalista di Altreconomia e volontario di Manitese, profondo conoscitore del Centro America, che ha vissuto alcuni anni in Chiapas.

«Questo libro – spiega Martinelli - ha due obiettivi. Il primo, fondamentale, è quello di riportare l'attenzione su una Regione, il Centro America, di cui in Italia non si parla più. Dopo la firma, nel 1996, degli Accordi di pace che hanno posto fine alla guerra civile che per oltre trent'anni ha insanguinato in Guatemala, i media e l'opinione pubblica del nostro Paese hanno dimenticato l'America Centrale. C'è scarso interesse per le vicende che riguardano Guatemala, Nicaragua, Honduras, El Salvador. Ciò che rimane -anche in termini di informazione- si deve al lavoro di poche organizzazioni non governative e comitati di appoggio, che denunciano vecchi e nuove forma di violazione dei diritti umani. È importante tornare a parlare di Centro America perché proprio a ottobre, a San Jose in Costa Rica, l'Unione Europa -e quindi anche l'Italia- hanno iniziato a negoziare un Accordo di associazione (che è solo un altro modo di chiamare un trattato di libero commercio) con la Regione. C'è poi un secondo obiettivo, che è quello di dar conto dell'importante lavoro di analisi svolto da Ciepac, il Centro di ricerche economiche e politiche di azione comunitaria di San Cristobal de Las Casas, in Chiapas; Ciepac è partner della ong Mani Tese e ho avuto la possibilità di lavorare per loro tra il 2003 e il 2004, quando ho vissuto in Chiapas. I capitoli del libro che ho curato sono stati realizzati per (e utilizzati nell'ambito) dei corsi di educazione popolare che Ciepac realizza nelle comunità e con le organizzazioni indigene del Chiapas».

Perché questo titolo? Che c'entrano le pannocchie?

«Uomini e donne di mais si definiscono le popolazioni indigene delle etnie Maya (che vivono nel Sudest messicano, in Guatemala e nel Nordovest dell'Honduras). E il futuro del mais -che è anche alimento base della loro dieta- è lo specchio del futuro delle popolazioni locali. La globalizzazione minaccia “i colori del mais”: il ricorso alle sementi transgeniche, brevettate da qualche multinazionale come la Monsanto, mette a rischio l'enorme diversità biologica ancora presente nella Regione. Una delle grandi ricchezze del Centro America. E il diritto alla terra (che è necessaria per coltivare il mais, ma non solo) è la rivendicazione più importante delle popolazioni e organizzazioni locali.

La foto di copertina l'ho scattata in Honduras, durante la festa in cui il Copinh -il Consiglio civico delle organizzazioni popolari e indigene- festeggiava il riconoscimento da parte del Governo di un titolo di proprietà collettiva e comunitaria di un terreno prima conteso con un'impresa e poi recuperato. I colori del mais sono il simbolo di una popolazione che resiste».

Parliamo di globalizzazione: ti chiedo in che modo secondo te possono vivere le popolazioni del Centro America senza la sfida globale che oggi viviamo?

«Credo che nessuno voglia vivere fuori dalla globalizzazione. Solo, le popolazioni locali protestano, in primis nei confronti dei propri governi, per un modello di sviluppo che non tiene conto della loro cultura né rispetta l'ambiente e i diritti umani. Faccio un paio di esempi, tra quelli che ho descritto nel libro: è sviluppo lasciare piena libertà a imprese multinazionali per l'estrazione di minerali come l'oro e l'argento ottenendone in cambio solo l'1 per cento del valore dell'estratto? Questo, però, è ciò che accade in Guatemala e in Honduras, con il beneplacito della Banca mondiale. E non c'è nessun controllo sull'impatto ambientale dell'attività estrattive, con tutto ciò che questo comporta, ad esempio, in merito all'inquinamento delle acqua, anche col cianuro (acque che le popolazioni locali utilizzano per bere, cucinare, coltivare i campi, lavarsi): medici e biologi hanno mostrato un aumento nell'incidenza di malattie della pelle e respiratorie e la riduzione della produttività della terra.Oppure c'è il caso del turismo: in Honduras un pool di soggetti vorrebbe aprire un gigantesco resort d'èlite nella zona della Bahia de Tela. Il mare è bellissimo (Mar dei Caraibi), e senz'altro si riempirebbe di turisti, ma oggi la zona è una laguna protetta in cui vive una popolazione afro-indigena, i garifuna, contrari alla cementificazione di oltre 300 ettari di terra, per farne hotel a 4 o 5 stelle, villette a schiera, con maneggio e un campo da golf. I garifuna vivono prevalentemente di pesca ma anch'io ho potuto dormire in piccoli bed & breakfast nei villaggi lungo la Costa. Non sono contro il turismo ma contro un turismo dall'impatto ambientale fortissimo. Non vogliono finire a fare i camerieri negli hotel del resort. Come dar loro torto».

Nel libro che hai curato si parla spesso di disastri in Centro America dovuti anche all'indifferenza e allo stato di abbandono del settore rurale e dell'agricoltura. Che responsabilità abbiamo noi occidentali? E l'Europa?

«Le nostre responsabilità si chiamano sussidi (sia alla produzione agricola che all'esportazione). L'indiziato numero uno, a occidente, sono senza dubbio gli Stati Uniti d'America. Sono loro a invadere i Paesi della Regione con mais o riso il cui prezzo è basso proprio perché il Governo aiuta il settore agroalimentare. Questi prodotti mettono “fuori mercato” i piccoli produttori locali, che assolutamente non ricevono alcun aiuto dal proprio governo. E il problema si è acuito senz'altro dopo la firma dell'accordo di libero scambio tra gli Stati Uniti d'America e i Paesi dell'America Centrale, il Cafta. Noi europei, invece, siamo più attratti dal settore dei servizi: costruiamo dighe (che provocano lo sfollamento forzato di decina di migliaia di persone), strade e autostrade, gestiamo i servizi pubblici (come gli acquedotti o le reti elettriche)».

Quale tipo di sviluppo vedi ora possibile per risollevare le sorti delle popolazioni indigene di questi paesi?

«L'abbandono di quei progetti di sfruttamento delle risorse che hanno un forte impatto ambientale; il rafforzamento di mercati locali e di prossimità contro l'importazione massiccia di derrate alimentari; la creazione di reti interne di commercio giusto (o equo e solidale); la difesa della proprietà collettiva della terra, un vero antidoto alla parcellizzazione (e alla successiva privatizzazione); un sistema educativo in grado di riconoscere e promuovere l'alterità (di lingua e di cultura) delle popolazioni indigene.

Queste non sono solo idee mie, ma le proposte che ho raccolto attraversando i Paesi dell'America Centrale, partecipando agli incontri tra le organizzazioni indigene, contadine e popolari. Vivendo tutti i colori del mais».

Queste pagine sono state scritte grazie anche al contributo del Centro di ricerche economiche e politiche di azione comunitaria (Ciepac), partner dell'organizzazione non governativa Mani Tese. Ciepac “accompagna” i movimenti sociali in Chiapas, Messico e Centro America realizzando percorsi di formazione all'interno delle comunità indigene chiapaneche e partecipando alle reti "resistenti" nate in tutta la regione, all'inizio del XXI secolo, per rispondere all'attacco degli alfieri del credo neoliberista.