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Ricolfi, raccontare la storia senza date e ideologia

di Sergio Romano - 07/11/2007

Sulla scia di Braudel e Furet un'analisi politica che non dipende dagli schieramenti

La parola usata dagli storici per delimitare la materia del loro lavoro è «periodizzazione ». Apparentemente è un termine tecnico, neutrale, utile per segnalare al lettore la fase storica su cui l'autore ha deciso di concentrare la propria attenzione. Ma dietro la sua apparente neutralità la periodizzazione nasconde convinzioni aprioristiche o, addirittura, fedi ideologiche. Chi sceglie di far decorrere la storia dal 1789, dal 1848 o dal 1917 lascia intendere implicitamente che le rivoluzioni sono svolte «epocali» da cui cominciano fasi nuove, profondamente diverse dal passato. Usata con questi criteri, la periodizzazione dà per scontato e risaputo sin dalla prima pagina ciò che dovrebbe essere invece documentato e dimostrato. Gli storici che non accettano le vecchie cesure sono spesso quelli che danno prova di coraggio e spregiudicatezza. Fernand Braudel raccontò la storia del Mediterraneo e del mondo come un flusso di eventi che si susseguono su tempi lunghi senza dipendere, se non marginalmente, da una battaglia o da un trattato. François Furet retrocesse il 1789 e la presa della Bastiglia ad eventi di minore importanza, dimostrando che la Francia «una e indivisibile », creata dai giacobini, era soltanto la tappa conclusiva di un processo accentratore avviato dai Borbone e gestito con particolare efficacia da Richelieu, Mazarino, Luigi XIV.
Luca Ricolfi non è uno storico. È sociologo, insegna Analisi dei dati all'Università di Torino e ha più familiarità con i bilanci di quanta ne abbia con le grandi ere della storia mondiale. Ma anche Ricolfi deve periodizzare, vale a dire scegliere l'arco di tempo all'interno del quale fare analisi e confronti. Rifiuta di farlo, tuttavia, secondo gli schemi temporali di cui si servono i suoi colleghi sociologi ed economisti quando analizzano la situazione economica e finanziaria dell'Italia degli ultimi quindici anni, da Tangentopoli al ritorno di Prodi nella politica nazionale.
Questi dividono il tempo, generalmente, in ministeri e governi: Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D'Alema e, come nel gioco dell'oca, dove si torna spesso alla casella precedente, Amato, Berlusconi, Prodi. Ricolfi, invece, rompe le convenzioni e spariglia il gioco, dimostrando che i dati dell'economia e della finanza rispondono, in buona parte, ad altri fattori, diversi da quelli dell'alternanza fra destra e sinistra. In un breve libro, pubblicato qualche anno fa presso il Mulino, dimostrò che Giulio Tremonti non sbagliava quando sosteneva che il governo Berlusconi aveva ereditato un «buco» dal governo precedente. Ora, con un libro apparso presso Longanesi in cui ha raccolto gli articoli pubblicati dalla Stampa ( L'arte del non governo), Ricolfi propone di dividere gli ultimi quindici anni con criteri diversi.
Esiste una prima fase (1992-98) in cui tutti hanno dato prova di spirito riformatore e affrontato, con qualche buon risultato, problemi cruciali come quelli delle pensioni o dell'euro. Esiste poi una seconda fase, quella del ministero D'Alema, in cui il governo realizza un certo numero di privatizzazioni e accenna a liberalizzare il commercio, ma rinuncia a risanare la finanza pubblica. Esiste una terza fase, dal 2000 al 2005 (il governo Amato e i primi quattro anni del governo Berlusconi), in cui i conti pubblici peggiorano, ma vi sono, secondo Ricolfi, provvedimenti riformatori di una certa importanza, anche se talora discutibili: il nuovo Titolo V della Costituzione, la legge Maroni sulle pensioni, la legge Biagi, quella sul risparmio, la riforma universitaria. E vi è infine la fase 2005-07 (dal ritorno di Tremonti a oggi) in cui i conti ricominciano a migliorare, ma il governo dell'Italia diventa un esercizio sempre più difficile, sino a capovolgersi nel suo opposto: l'arte del non governo.
Questa nuova periodizzazione può essere interpretata in modi diversi. A me sembra dimostrare che riforme e risanamento procedono in Italia secondo tempi e ritmi che non hanno nulla a che vedere con la classica contrapposizione bipolare fra destra e sinistra. I due poli possono essere egualmente, anche se per ragioni e in momenti diversi, riformatori e conservatori, risanatori delle pubbliche finanze e dilapidatori del pubblico denaro, rispettosi del mercato e suoi avversari. Guardate da vicino con l'occhio di Ricolfi, destra e sinistra si assomigliano, dicono le stesse bugie e sono legate da una sorta di continuità. Sono, insomma, altrettanto «italiane», nel senso meno positivo della parola. Ma negli scontri politici di ogni giorno ciascuno dei due poli continua a considerare l'altro un alieno e a rappresentarlo come il male assoluto. È davvero sorprendente che gli italiani stiano mandando ambedue a quel paese?