Errori ed orrori dello scientismo nascono dal divorzio di scienza pura e applicata
di Francesco Lamendola - 08/11/2007
In un recente e interessante saggio incentrato sulla figura e l'opera del matematico americano di origine ungherese John von Neumann (Budapest, 28 dicembre 1903-Washington, 8 febbraio 1957), Giorgio Israel ha giustamente ricordato la povertà del concetto di scienza "utile". Commentando il crescente esodo di scienziati dal campo della ricerca pura a quello, più promettente (in tutti i sensi) della scienza applicata, ha scritto fra l'altro, (Scienza pura e applicata nell'ultimo trentennio: una trasformazione radicale, in Bollettino della Unione Matematica Italiana, Bologna, Zanichelli, vol. X-a, aprile 2007, pp. 25-26):
"Interi settori della ricerca fondamentale sono in via di rapido deperimento o stanno addirittura crollando in quanto non sono reputati 'direttamente utili'. Interi gruppi di scienziati - e forse appare sempre più derisorio usare questo termine che dovrebbe essere sostituito da quello di 'ricercatori' o di operatori scientifici o tecnoscientifici - si sono trasferiti o si stanno progressivamente trasferendo dai campi della ricerca pura (dove i finanziamenti divengono sempre più esigui e la rispettabilità subisce un crollo corrispettivo) ai prati più grassi della ricerca applicata. Ciò è particolarmente evidente nel campo della matematica, dove numerosi matematici di punta hanno abbandonato le ricerche nel campo della geometria o dell'analisi a favore di quelle nel campo dell'analisi numerica e dell'informatica. Neanche nel campo della fisica le ricerche teoriche sono considerate sempre meno appetibili. La situazione in biologia è ancor più clamorosa: qui si può ben dire che non esista praticamente più alcuna ricerca di carattere teorico, ma che l'intera disciplina sia stata riassorbita nel campo della biotecnologia e si abbandoni a una prassi di bricolage da laboratorio avente pochi riferimenti teorici.(…)
"Dovrebbe essere evidente- ma non lo è più - che le idee di redditività immediata e di effiucacia evidente applicate alla ricerca scientifica sono profondamente ottuse e inefficienti. Peggio: si tratta di idee distruttive."
Ne abbiamo visto un esempio, lampante nella sua drammaticità, fra i mille e mille che - purtroppo - si potrebbero fare a quest'ultimo proposito, nella distruzione del Lago d'Aral, nell'Asia centrale ex sovietica, provocata da un miscuglio di arroganza scientista, ottusità ecologica e imprevidenza tecnica e di programmazione, e ne abbiamo parlato in un recente articolo (Come si uccide un mare interno in nome dello sviluppismo).
Von Neumann, appunto, considerava in maniera negativa ogni concezione puramente utilitaristica della scienza. In questo senso, ci pare che il suo pensiero presenti qualche affinità con quello di un altro grande scienziato europeo emigrato negli Stati Uniti d'America, il matematico, fiisico e ingegnere serbo Nikola Tesla (Smiljan, 10 luglio 1856-New York, 7 gennaio 1943), oggi noto specialmente per i suoi rivoluzionari studi sull'elettromagnetismo. Tesla, infatti, disse una volta una frase molto significativa, che dovrebbe essere meditata e rimeditata da tutti coloro che, scienziati o semplici tecnici e ricercatori, svolgono comunque una funzione all'interno dell'apparato scientifico: «la scienza non è nient'altro che una perversione, se non ha come suo fine ultimo il miglioramento delle condizioni dell'umanità».
Von Neumann possedeva una concezione altamente etica della scienza e aveva il coraggio civile di sostenere a voce alta le proprie idee, anche se - come vedremo fra poco - il suo pensiero sui rapporti fra scienza e società era caratterizzato da una intima contraddizione. A parer suo, esistevano gravi pericoli per gli sviluppi della ricerca scientifica a causa di un possibile intervento regolativo inappropriato delle agenzie governative e, in particolare, di quelle militari, specialmente a livello di pianificazione della politica scientifica nazionale.
All'indomani del "fungo" di Hiroshima e di quello di Nagasaki, in un discorso tenuto il 31 gennaio 1946 al Comitato per l'Energia Atomica del Senato americano, egli mise in guardia in maniera esplicita contro la minaccia rappresentata da un intervento legislativo troppo forte, e magari erroneo, nel campo dell'attività scientifica.
"Nel regolare la scienza, è importante rendersi conto del fatto che il legislatore sta toccando una materia estremamente delicata. Una regolazione stretta, e persino la minaccia dell'anticipazione di una regolazione stretta, è perfettamente in grado di bloccare il progresso della scienza nel paese in cui viene posta in essere.(…)
"È la prima volta che la scienza ha prodotto dei risultati che richiedono un intervento immediato della società organizzata, del governo. Ovviamente la scienza ha prodotto nel passato molti risultati di grande importanza per la società, direttamente o indirettamente,. E vi sono stati processi scientifici che hanno richiesto limitate misure di controllo del governo. Ma è la prima volta che una vasta area di ricerca, proprio nella parte centrale delle scienze fisiche, tocca un vasto fronte della zona vitale della società, e richiede chiaramente una regolamentazione rapida e generale. Ora la scienza fisica è divenuta 'importante' in quel senso doloroso e pericoloso che induce lo stato a intervenire.(…)
"Una regolamentazione è necessaria, perché la fisica nucleare, in combinazione con una politica irresponsabile o brutale, può infliggere proprio ora ferite terribili alla società. E con alcuni sviluppi ulteriori - che possono essere realizzati in pochi anni, e probabilmente saranno realizzati da un paese o da un altro - e le cui linee di tendenza sono perfettamente discernibili oggi dagli esperti, la stessa combinazione di fisica e di politica può rendere la superficie della Terra inabitabile.(…)
"Le terribili possibilità presenti di una guerra nucleare possono aprire la via ad altre possibilità ancor più terribili. Quando diverrà possibile un controllo globale delclima,forse ke nostre difficltà presenti sembreranno semplici. Non dobbiamo illuderci: quando queste possibilità diverranno attuali, saranno sfruttate. Sarà quindi necessario sviluppare delle nuove forme politiche e dei procedimenti adeguati. L'esperienza mostra che dei cambiamenti tecnologici anche minori di quelli che sono ora in gioco trasformano profondamente le relazioni sociali e politiche. L'esperienza mostra anche che queste trasformazioni non sono prevedibili a priori e che le 'prime congetture' attuali al riguardo sono false. Per tutte queste ragioni, non bisogna prendere troppo sul serio néle difficoltà presenti né le riforme ora proposte…" (J. Von Neumann, Statement of John von Neumann before the Special Senate Commitee on Atomic Energy, 31 Jaunary 1946).
Egli, dunque, riconosceva il pericolo rappresentato per l'umanità da un uso distruttivo della fisica nucleare ma, al tempo stesso, timoroso che un'eccessiva ingerenza legislativa nel campo scientifico potesse paralizzarne la libertà di ricerca, pensava che la cosa migliore fosse ridurlo comunque al minimo indispensabile e, per il resto, lasciare che "la pazienza, la flessibilità, l'intelligenza" degli scienziati facessero il miracolo di salvare il mondo dal pericolo mortale di un uso distorto e distruttivo della scienza stessa. Si nota pertanto un contrasto fra la chiara percezione dei gravissimi pericoli per la sopravvivenza della vita sulla Terra, che la fisica era in grado di produrre, e il minimalismo delle soluzioni legislative che avrebbero dovuto regolamentare la ricerca e ridurre, se non proprio scongiurare, tali pericoli.
In effetti, von Neumann aveva una tale fiducia nella capacità degli scienziati di svolgere il ruolo di "saggi" che si spingeva fino al punto di immaginare che la comunità scientifica avrebbe dovuto svolgere il ruolo di "guida illuminata della società". Come si vede, oltre che uno scienziato "puro" egli era anche imbevuto di ottimismo illuminista e di una fiducia nella razionalità intrinseca del pensiero scientifico che, in quanto tale, non avrebbe potuto minacciare l'autodistruzione dell'umanità. Qui, però, egli entrava in contraddizione con se stesso, dal momento che aveva visto con chiarezza che tale pericolo esisteva e che non era niente affatto chimerico, bensì concreto e immediato - almeno dopo l'agosto del 1945. Per tentar di spiegare una tale, evidente contraddizione, si può solo supporre che la fiducia incondizionata che egli nutriva per il sistema politico della democrazia liberale, lo portasse a credere che esso - a differenza dei regimi totalitari - non avrebbe mai potuto avallare o, addirittura, incoraggiare e pianificare un uso distruttivo della scienza medesima. Che tale fosse una pia illusione e che nascesse da una arbitraria e un po' acritica sopravvalutazione delle virtù proprie dei sistemi democratici, a noi pare - oggi - evidente; forse, nel 1946, era ancor lecito nutrire un atteggiamento moderatamente fiducioso, benché proprio l'impiego dell'atomica da parte della massima democrazia liberale avrebbe dovuto far sorgere almeno qualche dubbio in proposito.
Giustamente Giorgio Isarel ha fatto notare non solo l'aspetto illusorio della visione di von Neumann circa i rapporti fra scienza e politica (e sia pure democratica), ma anche il fatto che proprio l'autorevolezza di personaggi come von Neumann finì per contribuire, con la sua visione di una comunità di scienziati illuminati che guidano le sorti dell'umanità, al costituirsi di un apparato di potere parallelo a quello dello Stato. Ciò si manifestò in forme talmente evidenti che perfino lo Stato, nella persona del presidente Eisenhower, a un certo punto percepì tale apparato come potenzialmente invadente e tale da poter ambire a prendere la guida della stessa politica governativa o, comunque, da poterla e volerla condizionare pesantemente.
"Al contempo, occorre sottolineare gli aspetti illusori di quella visione. Ai suoi aspetti nobili finirono con l'affiancarsi aspetti degenerativi, dovuti in particolare alla pressione delle circostanze storico-politiche. Il peso crescente che assumevano personaggi di estrazione scientifica come von Neumann, in stretto collegamento con l'apparato militare e industriale, determinò la formazione di una élite scientifico-tecnologica che finì per esercitare un potere smisurato, capace non soltanto di contendere spazi al potere politico, ma persino di condizionarne le scelte e di mettere in discussione le regole tradizionali della democrazia. L'ammissione più clamorosa di questo stato di cose fu fatta dallo stesso presidente Eisenhower che, tracciando il bilancio della sua attività di governo in un discorso tenuto il 17 gennaio 1961, rivelava i conflitti e i problemi che aveva dovuto affrontare: «Nei consessi governativi occorre guardarsi dalla manifestazione di influenze arbitrarie da parte del complesso militare-industriale, indipendentemente dal fatto che esse siano consapevolmente perseguite oppure no. Il rischio potenziale dell'insorgere disastroso di un potere indebito esiste e persisterà nel futuro. […] Pur nutrendo il massimo rispetto per le ricerche e per le scoperte scientifiche, com'è necessario, dobbiamo anche essere attenti al pericolo che la politica pubblica possa diventare prigioniera di una élite scientifico-tecnologica» [cit. in HeimsJohn von Neumann and Norbert Wiener. From Mathematics to the Tecnologies of Life and Death, Cambridge, Mass., MIT Press, 1980, p. 244, corsivo nostro]."
Noi, infatti, oggi sappiamo che Eisenhower dovette faticare non poco per fermare la folle idea del generale Mac Arthur, il sedicente eroe della guerra del Pacifico, di bombardare le grandi città cinesi al tempo della guerra di Corea. Certo von Neumann non avrebbe approvato una simile operazione militare e, comunque, gli va riconosciuto il merito di aver messo in guardia contro le possibili degenerazioni della scienza applicata.
Tuttavia il problema rimane. Quando la scienza pura viene gradualmente emarginata e lasciata vivere di stenti, mentre la scienza applicata, trasformandosi in tecnologia sempre più spregiudicata, si mette al servizio del potere militare o di quello industriale, e anzi giunge a far blocco con essi, allora è senz'altro possibile che la situazione sfugga di mano; e ciò anche in regime democratico-liberale. Il rimedio sarebbe una serie di iniziative capaci di ridare dignità e prestigio alla scienza pura, rimettendola ideologicamente, per così dire, alla guida di quella applicata, in modo che quest'ultima torni a sentire la profonda responsabilità del suo ruolo delicatissimo di attività intellettuale con forti ricadute immediate nella sfera dell'etica e, quindi, della vita sociale concreta. In tal modo, essa verrebbe almeno parzialmente "sganciata" da un legame di dipendenza troppo stretto con gli ambienti dell'industria e dell'esercito, e ricondotta nel suo alveo naturale originario: quello di pars operativa di una scienza che non è e non si ritiene onnipotente, bensì al servizio della società, del bene dei viventi, della salvaguardia rispettosa e amorevole e della nostra dimora terrena.
Tutto questo può sembrare utopistico. E tuttavia - in ciò concordiamo, ma per ragioni diverse - con il pensiero di von Neumann, non crediamo che la scienza si possa rendere "buona" a colpi di leggi votate in Parlamento, per il semplice fatto che gli scienziati "pratici" e i tecnoscienziati troverebbero comunque il modo, volendo, di proseguire i loro esperimenti più pericolosi, all'ombra confortevole di quelle istituzioni militari e di quegli apparati industriali che già oggi promuovono la ricerca in condizioni di larghissima autonomia, per non dire fuori di ogni controllo sociale, e che sono in grado di attrarli con la prospettiva di cospicui e immediati vantaggi economici. Uno dei nodi del problema, infatti, è proprio questo, e vi si è accennato all'inizio: mentre dedicarsi alla scienza pura significa fare i conti con modeste prospettive di carriera e con prospettive economiche incerte e assai magre, offrire i propri servigi a qualche complesso militare o industriale, senza farsi troppi scrupoli di natura etica circa le ricadute del proprio lavoro, equivale a una scelta vantaggiosa sia sotto il profilo professionale sia, soprattutto, sotto quello economico. Ridare prestigio alla scienza pura, perciò, significa anche finanziarla adeguatamente; significa persuadere le pubbliche istituzioni che si tratta di soldi ben spesi, in una prospettiva di lungo termine e tenendo presenti anche valori extra-scientifici, quali la salute dei cittadini, l'equilibrio ambientale, la pace, e così via.
Non si tratta, si badi, di contrapporre la scienza pura alla scienza applicata. La differenza esiste, ma è sovente più sfumata di quel che non si creda e, inoltre, la grossa divaricazione è nata appunto dal richiamo che complessi militari e industriali hanno esercitato sulla scienza stessa per realizzare i loro scopi, che non sono certo quelli della scienza, ma - ovviamente - quelli della guerra e del mercato. Si tratta di promuovere una operazione culturale, ma anche economica, volta da un lato a ripristinare la concezione unitaria della scienza, dall'altra a ristabilire un rapporto corretto fra comunità scientifica e società civile, fra scienza e politica. Gli scienziati devono abbandonare la pretesa di essere i soli "illuminati" in grado di guidare i destini dell'umanità, ma - al tempo stesso - devono ricominciare a sentirsi qualche cosa di più di semplici mercenari al soldo di gruppi e istituzioni che, nella scienza, vedono solo e unicamente un instrumentum regni. Quindi, in un certo senso, dovrebbero compiere un doppio movimento spirituale: di umiltà nei confronti di certe loro pretese eccessive, di fierezza nei confronti di chi li vorrebbe usare (e, poi, magari gettare) solo come tecnici deresponsabilizzati.
È una rossa sfida, ma forse vale la pena di tentarla.