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La guerra dei network: gli Stati Uniti contro l’Europa

di redazionale - 09/11/2007

Preliminarmente è necessario comprendere l’attuale situazione geostrategica mondiale, alfine

d’individuare le mosse che le principali potenze stanno compiendo sullo scacchiere mondiale.

Gli Stati Uniti si trovano alle prese con la peggiore crisi sistemica della loro storia.

Negli anni Settanta la talassocrazia nordamericana si trovava immersa nel pantano del Vietnam,

soffriva sul piano economico per gli shock petroliferi e subiva gli attacchi retorici di Mosca che

cercava di affermare l’eurocomunismo, ma riuscì a superare queste difficoltà grazie alla politica

aggressiva e di rilancio bellico operata dal suo presidente Ronald Reagan.

Il progetto militare dello “scudo stellare” e la sfida esplicita lanciata nei confronti del Cremlino,

costrinsero un’Unione Sovietica già in evidente stato di decomposizione all’estremo tentativo di

spezzare l’accerchiamento atlantista invadendo l’Afghanistan e trovando uno sbocco verso

l’Oceano Indiano.

L’inasprimento della tensione obbligò a loro volta gli Stati nazione europei, sotto la spinta della

propaganda anticomunista, a far blocco con gli Stati Uniti e ad accettare ulteriori limitazioni in

termini di sovranità.

Il crollo del Muro di Berlino, l’aggressione all’Iraq, l’avanzamento della NATO ad Est, la

disgregazione della Jugoslavia, la politica incerta ed accondiscendente nei confronti degli

interessi occidentali da parte di Gorbaciov prima e di Eltsin poi, regalarono per diversi anni

l’illusione di un trionfo riportato dall’unipolarismo statunitense.

Ma se lo sforzo sovietico era stato troppo grande e aveva portato al crollo della sua struttura

economica, allo stesso tempo la rincorsa alla supremazia militare condotta dalle varie

amministrazioni nordamericane rivelò un deficit commerciale assolutamente incolmabile

(bilancia dei pagamenti con l’estero), che oggi va sommato con quello altrettanto pericoloso del

deficit federale (interno).

Solo pochi giorni fa, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Henry Paulson, peraltro ex

banchiere della Goldman Sachs la cui influenza è ben visibile anche tra i più alti membri

dell’attuale governo italiano, ha definito il terremoto immobiliare e la crisi del credito come il

principale rischio per l’economia americana e ha invocato interventi aggressivi per arginarlo.

Lo stesso governatore della Federal Riserve Ben Bernanke, parlando a New York di fronte ad

una platea di notabili dell’alta finanza, ha ammesso che il settore immobiliare resta una

“significativa zavorra” per lo sviluppo del Paese.

Paulson ha aggiunto che il problema non è limitato ai mutui subprime, perché è in aumento

anche il numero dei proprietari di case in difficoltà nei pagamenti di mutui prime, di qualità;

l’impatto sull’economia è reale, si manifesta con una flessione del 40% nei nuovi cantieri edili

rispetto allo stesso periodo del 2006 e il declino non sembra arrestarsi.

Anzi, la crisi dei mutui si è rapidamente estesa al settore delle carte di credito, al punto che le

maggiori società di emissione hanno dovuto nel primo semestre del 2007 cancellare il 4,6% dei

crediti da loro vantati perché inesigibili.

Ovviamente gli Stati Uniti stanno, come al solito, tentando di far pagare i costi della propria

crisi al Vecchio Continente, suscitando le ire del Responsabile degli Affari economici e

monetari europei, Joaquin Almunia, che ha recentemente dichiarato: “Nelle ultime settimane, in

seguito alle turbolenze finanziarie, alle conseguenze che hanno avuto sull’economia americana e

alle decisioni delle autorità statunitensi, si registra una perdita di valore del dollaro che ci

preoccupa, perché noi non siamo responsabili della creazione di squilibri nell’economia globale,

né si può attendere che restiamo passivi se qualcuno vuol scaricare sulle economie della zona

euro le conseguenze di quegli squilibri”.

Solo per il nostro paese, si é calcolato che gli istituti bancari italiani sarebbero esposti verso il

settore dei mutui subprime per 1,3 miliardi di euro.

Tutto ciò avviene in un momento storico nel quale la sfida alla supremazia globale statunitense

appare sempre più chiara.

Solo per riferirsi a quanto avvenuto la scorsa settimana, ricordiamo che:

la Turchia ipotizza un’invasione del Kurdistan iracheno, in ritorsione agli attentati del PKK e al

riconoscimento del “genocidio” armeno ad opera del Congresso, ritira il proprio ambasciatore e

permette che la propria opinione pubblica lanci appelli al boicottaggio delle merci americane;

Myanmar ignora gli appelli di Washington a un cambio di politica e resiste sia alla pressione

interna che alle sanzioni economiche;

la Russia annuncia la sperimentazione di nuove armi nucleari strategiche, stringe un’alleanza

difensiva con i Paesi del Caspio ostacolando i piani di guerra del Pentagono contro l’Iran e

invita gli Stati Uniti a ritirare le proprie truppe dall’Iraq, in piena sintonia con quanto già

richiesto lo scorso 27 settembre dal Primo ministro di Ankara, Tayyip Erdogan, presso il

Council on Foreign Relations a New York;

la Cina protesta vivacemente per la medaglia d’oro conferita dal Congresso al Dalai Lama e

promette ritorsioni contro l’ingerenza nei propri affari interni operata dalla Casa Bianca;

l’India riconsidera i propri accordi di cooperazione nucleare con Washington, mettendo in

difficoltà il tentativo statunitense di contrapporre geopoliticamente Nuova Delhi a Pechino.

Tutto questo era già stato probabilmente previsto nei centri di studi strategici nordamericani

alcuni anni fa, se si considera l’accelerazione imperialistica intrapresa dall’Amministrazione

Bush dopo gli attentati dell’11 settembre 2001.

Nessun evento catastrofico avrebbe potuto fornire migliore pretesto alla disperata corsa della

Casa Bianca verso il controllo delle maggiori risorse energetiche mondiali, prima che i grandi

colossi eurasiatici in ascesa possano insidiarne il primato internazionale.

Lo scopo primario di quella che è stata definita la “Presidenza Cheney-Hallyburton” consiste

nel controllo diretto dell’energia globale per mano dei quattro giganti privati angloamericani del

petrolio, Chevron Texaco, Exxon-Mobil, British Petroleum e Royal Dutch Shell.

L’attuale timore degli Stati Uniti su una possibile sfida alla propria egemonia non risiede solo

nella saldatura geostrategica che l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai e il Trattato

per la Sicurezza Collettiva stanno saggiamente portando alla NATO e al suo apparato di

disinformazione risiedente nei mass media europei e nella pletora di ONG al suo servizio.

Peter Beinart, un esperto di politica estera del Council on Foreign Relations, ha in questi giorni

relazionato Congresso e Casa Bianca sul fatto che dietro la “retorica aggressiva” di Mosca e

Pechino si nasconde una sfida di tipo nuovo, che giunge da un modello alternativo a quello

nordamericano e che lui definisce di “capitalismo autoritario, un modello che Russia e Cina non

solo vogliono difendere a tutti i costi ma pure tentano di esportare e diffondere altrove”.

Tornano a questo proposito alla mente gli antichi e sempre validi proverbi secondo i quali “non

è importante di che colore è il gatto, l’importante è che mangi il topo …”.

Lo stesso Beinart sottolinea come la contingente debolezza del primato statunitense sia

aggravata dalla fortissima crisi interna, sociale, finanziaria e di bilancio.

Ovviamente, le difficoltà militari riscontrate in Afghanistan ed Iraq, non contribuiscono a

rasserenare la prospettiva futura del colosso a stelle e strisce.

Tutto questo non deve però indurre i guardiani del continente eurasiatico a sottovalutare la

pericolosità del momento storico che stiamo vivendo, in quanto la controffensiva della Casa

Bianca si sta giocando su due tavoli diversi e apparentemente contraddittori.

Con una mano, l’Amministrazione Bush e i suoi alleati sionisti indicano al mondo la

pericolosità rappresentata dal progetto nucleare iraniano e dal suo “regime” guidato dal

“radicale” Ahmadinejead, rassicurando l’opinione pubblica internazionale sul fatto che le loro

controversie con Russia e Cina sulle questioni del Kosovo, della Transnistria, del Caucaso, del

Tibet, di Taiwan e dello scudo spaziale rappresentano solo divergenze prima o poi superabili.

Con l’altra essi scatenano i propri centri d’influenza mediatici in Europa e le proprie strutture di

“soft power” per compromettere l’immagine personale di Vladimir Putin, per invitare al

boicottaggio delle Olimpiadi di Pechino ed evocare una possibile minaccia totalitaria

proveniente dal cuore dell’Eurasia.

In un’Italia che già soffre dal 1945 la sua mancanza di sovranità politica e militare ben incarnata

dalla presenza di 113 basi militari atlantico-statunitensi all’interno del proprio territorio, il

controllo dei mass media continua a rimanere strettamente saldo nelle mani delle oligarchie

finanziarie intrecciate anche a livello personale con quelle risiedenti a Washington e Tel Aviv.

Dai principali quotidiani nazionali, “Corriere della Sera”, “La Stampa”, “La Repubblica”, “Il

Resto del Carlino”, perfino il “comunista” “Manifesto”, ai settimanali più venduti, “Panorama”,

“L’Espresso” ecc. si nota come la proprietà appartenga ai soliti noti, i trilateralisti della famiglia

Agnelli, i sionisti del Gruppo De Benedetti, i sostenitori del “Partito Americano” rappresentati

da Monti, i manager al servizio dell’ex presidente del Consiglio Berlusconi, un uomo che in

visita al Congresso degli Stati Uniti ebbe almeno la chiarezza di dichiarare che: “Tutto il mondo

deve diventare come l’America” ...

Proprio la scorsa settimana il Consiglio dei Ministri italiano su proposta di Ricardo Franco Levi,

sottosegretario e portavoce del Presidente del Consiglio Romano Prodi, ha approvato una nuova

normativa che prevede l’obbligo di registrazione per chiunque possieda un blog o un sito

internet.

Questo disegno di legge, se approvato in Parlamento, costringerebbe tutti coloro che vogliono

pubblicare sulla rete a dotarsi di una società editrice e arruolare un giornalista iscritto all’Albo

come direttore responsabile; quest’ultimo sarebbe impegnato a vigilare costantemente sugli

eventuali contenuti diffamatori del sito o blog, perché in caso contrario rischierebbe la galera.

Ciò comporterebbe la probabile chiusura del 99% dei siti o blog attualmente in circolazione …

L’informazione è al contrario molto più libera quando la si vuole far circolare.

Gli omicidi Politkovskaja e Litvinenko assurgono ad emblemi delle campagne propagandistiche

pretestuosamente scatenate contro il Cremlino e volte a ricreare quel clima di “guerra fredda”

di cui il continente eurasiatico non sente assolutamente il bisogno.

Quanto influenti siano questi centri di potere, legati alle tradizionali famiglie dell’oligarchia di

Wall Street, i Rotschild, i Rockfeller, i Murdoch … lo abbiamo constatato nel doppio

appuntamento elettorale franco-tedesco, che ha portato alla vittoria due avversari del possibile

asse geopolitico Parigi-Berlino-Mosca, a lungo invocato durante l’invasione dell’Iraq nel 2003.

Soffermandoci sui momenti più evidenti, il neoeletto presidente Nicolas Sarkozy, ha trasmesso

il 3 ottobre 2007 un documento costituito da quattro proposte al Consiglio Nord Atlantico (Nac)

per “rafforzare la trasparenza e la cooperazione fra l’Unione Europea e l’Alleanza Atlantica” e

ha auspicato un pronto rientro della Francia in seno al comando integrato della NATO.

Lo stesso giorno, il suo Ministro degli Esteri Bernard Kouchner, si è allineato con i giudizi di

Condoleezza Rice e ha definito “bizzarra” la possibilità che Vladimir Putin possa in futuro

divenire Primo Ministro, aggiungendo che “purtroppo in Russia non c’è abbastanza opposizione

all’attuale potere del Cremlino”.

Uno dei primi provvedimenti attuati da Sarkozy appena insediatosi all’Eliseo è stato quello di

sabotare la rete nazionalista e antiatlantista all’interno dei servizi segreti di Parigi, la quale erede

dell’insegnamento di De Gaulle aveva contribuito in alcune zone del mondo (Darfur, Pakistan,

Africa in generale, Haiti) a moderare l’orientamento filo-statunitense della politica francese.

In Germania, dove comunque diversi esponenti socialdemocratici del governo di coalizione si

sono schierati contro il progetto dello scudo spaziale, Angela Merkel è stata protagonista del

rilancio del Work Program of Cooperation, un programma di cooperazione economica

transatlantica tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea.

Sia a Berlino che a Parigi un ruolo decisivo nel “golpe” elettorale l’hanno avuto i potentissimi

mezzi di comunicazione di massa, controllati dalle medesime grandi famiglie sopra citate.

Ma un importante idealtipo di quanto la sovversione atlantista abbia agito in profondità subito

dopo il crollo dell’Unione Sovietica, è riscontrabile storicamente nell’azione di sgretolamento

della ex Jugoslavia.

Il caso serbo rappresenta un precedente altamente significativo, perché sintetizza in piccola

scala lo stesso progetto di disgregazione e successiva ricolonizzazione della Federazione Russa

ispirato da Brezinski e dagli architetti della strategia statunitense.

George Soros, agente dei Rotschild, costituì la sua attività di grande banchiere proprio grazie ai

trasferimenti di denaro dalle fondazioni europee verso i Balcani e gli Stati dell’Europa

Orientale.

Con il suo Quantum Fund, il noto speculatore finanziò le bande di mujahidin “afgani” che

combatterono in Bosnia e contemporaneamente fomentò la campagna di disinformazione sulla

Serbia che favorì le aggressioni militari della NATO nel 1995 e nel 1999.

La rete di fondazioni e di associazioni da lui mantenuta è sterminata: Open Society Fund,

Humanitarian Rights Fund, Helsinki Committee, Belgrade Circle, European Movement, Centre

for Anti-War Action, Nuns, Anem, Otpor, alle quali bisogna aggiungere le più importanti ONG

operanti a livello internazionale.

Contro la Serbia agirono in particolare la Yucom, il Belgrade Centre for Human Rights, il Civil

Iniziative, il Centre for Cultural Decontamination, Women in Black, il Youth Iniziative.

Human Rights Watch vicina proprio a Kouchner e International Crisis Group sono stati veri e

propri altoparlanti dell’indipendenza del Kosovo, del Montenegro (dove i Rotschild controllano

la Podgorica Bank e la Banca nazionale) e della Vojvodina da Belgrado.

Sterminata è la lista dei mass media controllati da Soros nei Balcani, tra le televisioni e le radio

elenchiamo B92, Studio B, Tv Pink, Tv Panonija, Anem, Rtv Globus, Rtv M+, Rtv Subotica,

Radio Pirot, Radio Ozon, Radio Free Europe, Sbb, Total tv, tra i quotidiani Danas, Vreme,

Evropa, Republika, le associazioni di media Local Press, Pancevac, Kikindske, Vranjske novine,

Nasa, le case editrici Samidzat, Dan Graf, Stubovi Culture, Fabrika knjiga, Klio, Aleksandrija

Press, la società distributrice Bookbridge, Beopolis, l’agenzia di informazione Sense, Beta e

Fonet.

Non dimentichiamo che molte delle agenzie corrispondenti dell’Associated Press e di Reuters

sono possedute dai Rotschild, che hanno infiltrato anche istituti culturali e teatrali, come la

National Library, la Historical Archives, la Serbian Academy of Arts and Sciences e l’Istituto di

geopolitica di Belgrado.

Accanto a Soros hanno profuso energie e investimenti anche Rupert Murdoch, Goldman Sachs e

JP Morgan, che influenzarono personaggi quali Marti Athisaari, James Lion, Morton

Abramowitz, Louise Arbour, Mikhail Khodorkovsky e Thorvald Stoltenberg.

Questo concentrato esibizionistico di “soft” e “hard power” è stato sviluppato contro la sola

Serbia, in quanto considerata lo Stato pivot della Russia nei Balcani.

Oltre alla ex Jugoslavia, le “rivoluzioni colorate” finanziate dalle reti statunitense e coordinate

dalla CIA e dall’MI6, in combutta con i servizi segreti di Polonia, Georgia e Stati baltici, hanno

sconvolto Ucraina, Georgia, Kirghizistan, Uzbekistan e Libano, provocando la spaccatura di

queste nazioni tra militanti filo-atlantisti e militanti anti-atlantisti, vero e proprio spartiacque

politico della lotta tricontinentale del XXI secolo.

L’avvicinamento dei tentativi sovversivi verso la Grande Madre Russia è invece documentato

dallo stesso Nikolai Patrushev, capo dei servizi di sicurezza interni dell’FSB, il quale ha non

solo denunciato il tentativo dell’MI6 di influenzare la situazione interna del suo Paese ma ha

anche indicato in 340 il numero di agenti segreti stranieri smascherati ed arrestati dal 2003 ad

oggi perché impegnati in attività cospiratorie.

Costoro sono accusati di utilizzare le ONG straniere per ottenere informazioni d’intelligence,

condizionare il processo politico russo e supportare alcuni gruppi terroristici internazionali nel

Caucaso del Nord.

Altra loro fonte d’accesso sarebbero diversi cittadini della CSI emigrati in Gran Bretagna, sotto

ricatto dell’MI6 per le loro attività criminali; i casi di Boris Berezovsky e Akhmed Zakayev

sono solo i più eclatanti.

La creazione di un arco di tensione ed instabilità che dai Balcani si allungherebbe fino ai confini

della Federazione russa, unitamente alle difficoltà di commercializzazione che il petrolio di

Mosca incontrerebbe perché costretto a passare per una serie di territori controllati dalla NATO,

costituiscono gli strumenti visibili di una partita il cui risultato, nelle intenzioni dei dirigenti

angloamericani, dovrebbe concludersi con la rottura dei rapporti tra il Cremlino e l’Europa.

Soprattutto ora che Vladimir Putin ha annunciato di voler costruire un canale di 1.000 km. fra il

Mar Caspio e il Mar Nero, collegamento strategico per gli scambi fra Europa ed Asia.

Il progetto, che partirebbe dal territorio russo a nord della Georgia, consentirebbe non solo alla

Russia ma anche ad Unione Europea, Cina e Kazakistan notevoli guadagni in termini economici

e politici, grazie al risparmio in termini di carburante, tempi di percorrenza e afflusso di capitali.

Un obiettivo eurasiatico grandioso, al quale potrebbe presto associarsi anche l’India.

Non è un caso allora se il Piano Strategico della politica estera statunitense per gli anni 2007-

2012, pubblicato lo scorso aprile dal Dipartimento di Stato, afferma a chiare lettere che la sua

principale priorità è fronteggiare il “comportamento negativo” della Russia in diverse aree, dalla

vendita di armi a regimi inaffidabili (Iran, Siria e Venezuela), alla pressione di Mosca su

numerose nazioni ex-sovietiche per le quali Washington avrebbe previsto un futuro “colorato”.

Il rapporto esprime poi preoccupazione per il maggiore ruolo assunto dallo Stato russo

nell’economia, “per la restrizione della libertà dei media, per l’appoggio al separatismo in

Georgia e Moldova, per l’utilizzo della leva energetica volto a soggiogare i vicini della CSI”,

concludendo che: “Ovunque, in Eurasia, la gente desidera la speranza accesa dalle Rivoluzioni

colorate degli anni 2003-2005” …

2. La geoeconomia, attuale pilastro della costruzione eurasiatica

Dietro agli ostacoli politici frapposti dalle lobbies atlantiste, si nascondono però opportunità

economiche, che vari partners euro-russi stanno adeguatamente sfruttando.

Le italiane ENI ed ENEL, che usufruiscono ancora dell’appoggio statale, hanno costituito

nell’aprile 2007 una nuova società, Eni Neftegas, la quale si è assicurata uno dei più importanti

lotti messi in vendita dal governo russo dopo lo smembramento della Yukos.

Essa ha anche acquisito più del 20% della Gazprom Neft, la società petrolifera della Gazprom;

quest’ultima, a sua volta, potrebbe esercitare un opzione d’acquisto per il 51% del capitale di

Eni Neftegas entro due anni.

Le riserve acquisite da ENI ed ENEL vengono pagate a prezzo estremamente vantaggioso e non

bisogna scordare come la stessa ENEL sia l’unico gruppo non russo al mondo a cui Mosca abbia

aperto il mercato delle proprie centrali nucleari.

Sugli accordi strategici ENI-Gazprom, abbiamo già parlato adeguatamente in due numeri della

nostra rivista di studi geopolitici (“Eurasia” 1/2007 e “Eurasia” 2/2007), ad essi potrebbe presto

aggiungersi il ripetuto interesse che Aeroflot ha manifestato nei confronti della compagnia

nazionale aerea di bandiera, Alitalia.

Gli Stati Uniti, che vedono scemare gradualmente la loro influenza in un Paese che possiede

comunque una posizione centrale per il controllo del fianco sud del Mar Mediterraneo, hanno

risposto con la sinergia tra la nordamericana AT&T e la messicana America Movil per il

controllo di Telecom Italia.

Lo stesso ambasciatore statunitense a Roma, Ronald Spogli, si è prodigato verso Romano Prodi,

alfine di completare l’acquisizione della più importante società di telecomunicazioni italiana, il

cui apparato di sicurezza era già stato appaltato ad una società legata alla CIA.

Ma a prescindere da questo ultimo episodio, la rete di legami energetici tessuta da Gazprom e

dalle altre aziende statali di Mosca, sta attirando in maniera decisiva anche le nazioni più

riluttanti all’abbraccio con la Russia e ha favorito il recentissimo accordo per la stabilità delle

forniture all’Unione Europea.

La solidità politica ed economica raggiunta grazie alle pratiche di consolidamento dello Stato

attuate dalle presidenze di Vladimir Putin, rassicura gli investitori internazionali, che al di fuori

dei settori strategici (militare ed energetico) hanno comunque interessanti possibilità di affari.

Tutte le nazioni dell’Est europeo sono totalmente dipendenti dal gas naturale russo: i tre Paesi

baltici e la Slovacchia al 100%, la Bulgaria al 94%, la Repubblica Ceca all’82%, l’Ungheria

all’81%, la Slovenia al 62%, la Romania al 55%.

Quando gli Stati hanno risposto picche alle possibili intese, il Cremlino ha astutamente

incoraggiato le compagnie private europee a stringere accordi con Gazprom, come è stato nel

caso del gasdotto del Baltico russo-tedesco, che simboleggia bene lo scavalcamento operato

dall’ex cancelliere Schroeder nei confronti dell’attuale capo del governo Merkel, o della

francese Total.

Il patto raggiunto dalla stessa Gazprom con l’algerina Sonatrach, ha consentito una posizione di

monopolio energetico non scalfibile a breve termine dalle pressioni atlantiste e anzi prefigura, in

collaborazione con altri paesi come Qatar, Iran e Libia, l’edificazione di una Opec del gas

naturale.

Gli Stati Uniti non sembrano avere molti carte da giocare per spezzare la morsa di Mosca e le

loro uniche possibilità di successo risiedono nei due oleodotti che passando dall’Azerbaijan alla

Georgia arrivano fino in Turchia: il Baku-Tblisi-Ceyhan (BTC) e il Baku-Tblisi-Erzurum, e

sulla possibilità di convincere il presidente kazako Nazarbayev ad utilizzarli a discapito di quelli

russi.

L’altra possibile mossa statunitense consisterebbe nel tentativo di sviluppare una nuova rete

energetica per collegare la regione dell’Asia Centrale all’Asia meridionale, un’intenzione

riflessa dalla riorganizzazione avvenuta nel 2006 all’interno del Dipartimento di Stato e che ha

portato alla creazione dell’Ufficio per gli affari dell’Asia centrale e meridionale.

Il piano fa affidamento sull’utilizzo dell’elettricità generata in Kirghizistan e Tagikistan, quale

motore per lo sviluppo di legami inter-regionali più forti, ma si scontra con il notevole controllo

che le compagnie russe possiedono dell’infrastruttura di produzione elettrica tagica.

Lo stesso Turkmenistan, che rimaneva l’ultimo tassello a disposizione delle manovre occidentali

ha firmato un’importante intesa per la fornitura di gas alla Cina e stretto nuovi legami con le

compagnie moscovite; come notato da alcuni osservatori: “l’accordo firmato ad Astana da

Russia, Kazakistan e Turkmenistan di fatto concede a Gazprom il quasi monopolio

sull’esportazione di gas e greggio dall’Asia centrale. Ciò compromette il progetto che prevedeva

il prolungamento del BTC e aumenta la dipendenza energetica dei mercati occidentali dalla

volontà di Mosca”.

La Russia vorrebbe poi addirittura strappare concessioni alla stessa Turchia, indispensabile nel

sistema energetico controllato da Washington, e rafforzare la propria presenza nell’area

mediterranea-sudeuropea coinvolgendo Ankara nel progetto Blue Stream, oleodotto che

attraverserebbe il Mar Nero.

L’evidente impasse spiega la determinazione statunitense nel cercare di acquisire una

supremazia di carattere strategico almeno nel settore degli armamenti nucleari ed è confermata

dalla prestigiosa rivista dei circoli mondialisti Foreign Affairs quando ammette candidamente

che “secondo la dottrina della sicurezza nazionale statunitense lo scudo stellare non deve essere

concepito come uno strumento difensivo a sé stante ma come elemento prezioso nel quadro di

un contesto offensivo”.

Lo scenario atomico prefigurato sarebbe quello nel quale Washington vorrebbe essere in grado

di lanciare un primo “colpo” contro Russia e Cina, per ridurre al minimo la loro possibile

rappresaglia e neutralizzarla grazie allo scudo.

Come in passato, il Pentagono prevede che sarà l’Europa il campo di battaglia destinato a

pagare le conseguenze nucleari di un eventuale confronto bellico e nel 2007 ha portato le

proprie spese per il bilancio militare a 600 miliardi di dollari (contro i 47 di Mosca …).

Ma a prescindere dalla scelta del terreno di scontro, nel caso i “falchi” dell’Amministrazione

Bush dovessero perdere la testa, le conseguenze per la stabilità mondiale sarebbero terribili.

Messi con le spalle al muro, gli Stati Uniti potrebbero decidere un’ulteriore balzo in avanti nella

loro politica di rivolgimento del Medio Oriente, tentando il classico “tutto per tutto”.

Un bombardamento nucleare massiccio dell’Iran riporterebbe la nazione persiana indietro di 30

anni, favorirebbe un cambio di governo a Teheran e distruggerebbe un perno decisivo della

geopolitica russa e degli approvvigionamenti petroliferi cinesi.

Controllando il paese perno del Golfo, Washington potrebbe utilizzare l’influenza degli

Ayatollah per stabilizzare l’Iraq, tenere a freno la Siria e calmierare la questione palestinese.

Si passerebbe allora alla fase due, cioè un cambio di regime (cruento o meno) in Pakistan, dove

l’ “alleato” Musharraf risulta ormai sgradito alle alte sfere del Pentagono, stante il discreto

appoggio che i suoi servizi segreti (ISI) hanno continuato a fornire ai Talibani.

Il nuovo regime di Islamabad dovrebbe invece togliere il retroterra logistico ai Pashtun e

permettere alla NATO di allargare la sua sfera d’influenza in Afghanistan al Sud ma anche

all’Ovest (in quanto la zona di Herat verrebbe affidata al governo collaborazionista di Teheran).

Il terzo e ultimo passo potrebbe consistere in una campagna di “democratizzazione” dell’Arabia

Saudita, giustificata dal preteso sostegno che Riyad concede ai gruppi salafiti e wahhabiti, unita

alla mobilitazione armata degli sciiti sauditi, residenti peraltro nelle zone più ricche di petrolio.

Con alcuni milioni di morti, giustificati nel nome della “lotta al terrorismo”, gli Stati Uniti si

assicurerebbero il controllo totale dell’Eurasia occidentale e meridionale, dall’Atlantico

all’Indo, completerebbero la manovra di accerchiamento nei confronti di Mosca e Pechino,

potrebbero penetrare definitivamente – essendosi coperti le spalle – verso i giacimenti di

petrolio e gas del Mar Caspio, nonché nei territori dell’ex URSS fino al confine siberiano della

Federazione Russa.

A quel punto la Casa Bianca potrebbe permettersi di tenere ferme, come scorta d’emergenza, le

proprie riserve petrolifere in Alaska e ricattare economicamente il resto del Pianeta distillando

la distribuzione delle risorse e imponendo i prezzi a lei più congeniali.

Fermo restando che l’obiettivo finale della talassocrazia a stelle e strisce rimane la penetrazione

totale nel “ventre molle” dell’Asia centrale, la creazione di un cuneo tra i due colossi terrestri

eurasiatici e la fagocitazione dei deboli ed instabili staterelli nati dopo la disintegrazione

dell’Unione Sovietica, esiste naturalmente un’alternativa “morbida” al folle disegno distruttivo

neoconservatore, che potrebbe tornare in auge nel caso a Washington i “realisti” riprendessero il

sopravvento.

Il piano “B” prevede in Medio Oriente un accomodamento con le nazioni ancora ostili; in

Libano, in sintonia con la Francia, continuerebbero i tentativi di tutela di un governo

filoatlantista attraverso l’elezione di un nuovo Presidente della Repubblica antisiriano, a

Damasco verrebbero restituite le alture del Golan in cambio dell’abbandono baathista di Hamas

e di Amal, all’Iran potrebbe essere proposta una collaborazione nella stabilizzazione dell’Iraq

nel caso Teheran togliesse il suo sostegno ad Hizbollah.

In Europa, invece, assisteremmo alla riproposizione di quella che su “Eurasia” 2/2007 abbiamo

definito la “Terza Guerra Fredda”, giocata interamente sulla compromissione dell’immagine

internazionale della Russia e sul rilancio degli slogan anticinesi (“il pericolo giallo”).

Questo tipo di guerra psicologica, basata quasi interamente su campagne di disinformazione

mediatica, intende riproporre vecchi e mai sopiti stereotipi nei confronti di quelle che Robert

Kagan ha “pericolosamente” definito “le potenze autocratiche”.

Una sterminata pubblicistica, specie in lingua italiana e francese (“i nouveaux philosophes” di

Parigi, Levy, Glucksmann, Finkielraut, possono contare sui loro omologhi a Roma, Sofri,

Bonino, Lerner …), bombarda quotidianamente l’immaginario pubblico europeo con immagini

tese ad accostare Putin a Stalin.

Daniel Pipes, un neoconservatore statunitense che incarna bene l’anello di congiunzione tra

lobbies atlantiste di “destra” e di “sinistra”, si è spinto fino ad affermare come “la Russia

rappresenti per il mondo un pericolo ben maggiore rispetto a quello incarnato da Al Qaeda”.

Anche senza queste “volontarie” collaborazioni, Bill Arkin, analista della televisione

nordamericana NBC, ci aveva comunque informato dell’esistenza di un’unità speciale della

National Security Agency (NSA) e chiamata Network Attack Support Staff, incaricata di

neutralizzare i media stranieri e d’interferire nei loro sistemi elettronici di comunicazione.

Una veloce analisi dei principali mezzi d’informazione statunitensi durante la crisi russo-ucraina

del 2004, sintetizza efficacemente i metodi utilizzati.

Per l’editorialista del Washington Post, Jackson Diehl, gli “eventi di Kiev rappresenterebbero

disturbanti memorie del 1947-1948”; per la sua collega di redazione, Anne Applebaum,

“possiamo vedere il 2004 come l’anno in cui una nuova cortina di ferro è calata attraverso

l’Europa”, mentre il Cremlino viene accusato di “intromissioni imperiali”.

Passando al New York Times, Nicholas Kristof denuncia “un massiccio e malefico intervento

russo in Ucraina”, per il Washington Time Elisabet Bumiller sottolinea che “specialisti sulla

Russia dicono che il coinvolgimento di Putin in Ucraina è ora la più seria ingiuria agli occhi

degli americani”.

Scorrendo i giornali finanziari (Globe, Wall Street Journal, Time), evidentemente ancora

indignati per l’arresto dell’evasore fiscale Khodorkovsky, ex protetto dei Rotschild, i toni

risultano ancora più vibranti, arrivando a oltraggiare quello russo come “un governo di

delinquenti” e ad etichettare Putin quale sorta di nuovo “Saddam Hussein” nonché “Fuehrer

russo”.

Accanto alla demonizzazione mass mediatica, non si esclude una nuova ondata di “rivoluzioni

colorate”, specie in quei Paesi la cui collocazione geopolitica appare ancora incerta.

Uno dei casi più a rischio è quello rappresentato dal Kirghizistan, della cui importanza

economica abbiamo già parlato e che merita a tal fine un piccolo approfondimento.

In questa strategica nazione dell’Asia centrale complottano non solo la solita Open Society

Institute ma anche alcune organizzazioni locali opportunamente sostenute dalla Freedom House

e dal NED, i veri registi della “Rivoluzione dei tulipani” a Bishkek.

La Civil Society against corruption kirghisa si è deliberatamente ispirata al libro di Gene Sharp,

agente CIA e NATO, “Dalla dittatura alla democrazia”, testo base per tutti i movimenti “non

violenti” operanti nel corso degli anni in Serbia, Ucraina, Lituania, Georgia, Myanmar,

Venezuela, Taiwan ed Iraq.

Sharp è anche a capo dell’ Albert Einstein Institution, appoggiata dall’Università di Harvard,

finanziata dal NED, dal Congresso e dalla Fondazione Soros, i quali a loro volta hanno girato

circa 12 milioni di dollari all’opposizione kirghisa: come si vede, nello schema sovversivo

nordamericano, tutto ritorna.

3. La controstrategia russa e le catene eurasiatiste

Oltre alla questione energetica è opportuno rammentare come tutti gli Stati aggrediti o

minacciati dagli Stati Uniti avessero ventilato la possibilità di vendere le proprie quote di

petrolio in euro e non più in dollari, dalla Libia all’Iraq, dalla Siria all’Iran passando per il

Venezuela e la Corea del Nord.

Un’eventuale emulazione operata da Mosca, magari accompagnata dalla diversificazione degli

investimenti cinesi attualmente preponderanti verso i fondi finanziari americani, assumerebbe

un significato di sfida profonda all’egemonia globale statunitense.

Sotto questa luce assumono ancora maggiore rilevanza i tentativi nordamericani di danneggiare

le relazioni politico-commerciali tra l’Europa e la Russia, attraverso il rilancio di quella che è

stata denominata una “nuova guerra fredda”.

Stando alla Risoluzione emanata dal Parlamento Europeo sul vertice UE-Russia del maggio

2007, le preoccupazioni maggiori del Vecchio Continente per i reciproci rapporti riguardano: la

situazione in Cecenia, le relazioni con i Paesi vicini, la tutela dei diritti umani e democratici,

mentre sembrano momentaneamente risolte le difficoltà riguardanti l’approvvigionamento

energetico.

Riguardo ai primi tre punti, il Cremlino dovrebbe valutare attentamente le sue mosse future, che

potrebbero favorire o al contrario compromettere la costruzione dell’edificio eurasiatico che

tutti noi auspichiamo.

Per la stabilizzazione della Cecenia e più in generale di tutta l’area caucasica va ribadita la

necessità di una soluzione non solo militare bensì anche politica.

Chiaramente il finanziamento atlantista dei gruppi wahhabiti in Daghestan e altre aree di

confine è volto a trascinare la politica di Mosca in quello “scontro di civiltà” tanto caro agli

interessi di Washington.

La reazione della Russia, in questo caso, non dovrebbe limitarsi a ribadire il suo tradizionale

ruolo imperiale e quindi stabilizzatore di tutto l’arco di crisi caucasico e centroasiatico, ma

dovrebbe coinvolgere in un’opera di collaborazione le stesse comunità islamiche tradizionali

dell’area.

Contemporaneamente, il Cremlino dovrebbe denunciare a chiare lettere la manipolazione

straniera operante nell’area del suo “estero vicino” e sottolineare l’ipocrisia dell’Occidente, che

mentre afferma di combattere una guerra al “terrorismo internazionale” ne sostiene le basi

logistiche in funzione antirussa e anticinese.

Questi aspetti si ricollegano alla possibilità di instaurare un nuovo tipo di relazioni con gli Stati

confinanti, il cui nazionalismo storico antisovietico continua ad essere sobillato per mantenere

alta la tensione con la Russia contemporanea.

Rimane molto importante che i circoli dirigenziali moscoviti elaborino al più presto un nuovo

concetto multipolare, per offrire all’Europa occidentale e soprattutto ai Paesi dell’Europa

orientale un tipo di rapporti improntato alla reciproca collaborazione e al mutuo rispetto.

La controffensiva culturale dovrebbe vigorosamente sottolineare come la rinascita russa non

prefiguri alcun tipo di nuovo imperialismo, bensì offra opportunità di crescita e sviluppo per

tutti i soggetti interessati ad agire su un piede di parità.

Essa dovrebbe basarsi sulla denuncia esplicita di quello che è il nemico mortale per

l’indipendenza di tutti i popoli, cioè la globalizzazione capitalistica a guida nordamericana,

approfittando anche del fatto che lo storico “primato morale” statunitense conosce oggi una crisi

profondissima.

Una dottrina di tal genere assume l’elaborazione profonda di un modello di società differente

rispetto a quello a cui i centri di potere mondialisti vorrebbero omologare i vari popoli del

Pianeta e non è nemmeno in contraddizione con la tradizione culturale russa, impregnata di

spirito sociale e comunitario.

Affinché la nuova Russia possa migliorare la propria immagine internazionale e sviluppare una

più stretta integrazione eurasiatica non è quindi sufficiente ribadire la propria rinnovata

sovranità nazionale e gettare generiche accuse nei confronti dell’unilateralismo a stelle e strisce.

Deve essere definitivamente chiaro che gli Stati Uniti non aspirano a una generica egemonia,

magari modellata sullo schema della balance of power britannica, e che nella loro sete di

supremazia mondiale non ricercano soci-alleati bensì solo vassalli.

Le pur generiche illusioni ancora nutrite da alcuni analisti moscoviti su una possibile cogestione

del potere globale formata dal triangolo Stati Uniti, Russia, Europa, devono essere risolutamente

abbandonate, anche tenendo conto che il modello di sviluppo occidentale sta conoscendo ormai

un profondo rigetto perfino nelle aree più sviluppate del Pianeta.

Non solo, gli stessi strumenti del dominio economico e militare statunitense, il dollaro e

l’Alleanza Atlantica, stanno suscitando una protesta via via più estesa sia ad Est che ad Ovest.

Tutti i popoli europei manifestano attualmente in maniera convinta e massiccia contro le basi

NATO e l’arroganza imperialistica statunitense, identificando in essi i simboli di un’esistenza

sempre più precaria e slegata da ogni riferimento di carattere spirituale.

Quando si vuole essere amici e marciare insieme occorre perciò essere chiari.

Giunti al culmine della loro massima espansione e contemporaneamente del loro massimo

fallimento, gli Stati Uniti svolgono tuttavia un’azione costante e sistematica di supporto a tutti

quei sostenitori sparsi in giro per il mondo, che si annidano nei principali organi della

disinformazione europea.

Se la Russia, conscia della minaccia che l’attanaglia si è stretta attorno alla guida patriottica di

Vladimir Putin, deve ora divenire consapevole che il suo stesso futuro dipende dalla costruzione

di un nuovo sistema multipolare e di un modello sociale alieno dai dogmi liberisti.

Il Coordinamento Progetto Eurasia, radicato in Italia ma in sintonia con le catene eurasiatiste

sparse un po’ in tutto il Vecchio Continente, ha dimostrato concretamente la sua adesione alla

strategia geopolitica antiatlantista, partecipando al monitoraggio elettorale in tutte le principali

zone di contrasto russo-statunitensi, dalla Transnistria all’Abkhazia, dal Kosovo al Nagorno

Karabakh.

In virtù di questa esperienza, la nostra rete italiana ha potuto attenuare la propaganda

nordamericana con una pubblicistica controinformativa di alto livello qualitativo, contribuendo

al riorientamento culturale e politico di numerosi gruppi militanti potenzialmente antiamericani.

Quanto il contesto sia stato importante nella battaglia geopolitica quotidiana è testimoniato dai

recenti documenti che dimostrano il coinvolgimento attivo datato 1992 del Dipartimento di

Stato USA nel tentativo moldavo-romeno di stritolamento dell’indipendenza di Tiraspol,

abbandonata da Eltsin ma salvata dalla reazione patriottica dell’armata russa.

Il fatto che la Transnistria abbia finora resistito e si sia consolidata come un fastidioso cuneo

piantato nel dispositivo NATO dell’Europa orientale, spiega la volgare opera di demonizzazione

alla quale viene costantemente sottoposta.

Lo spirito di sacrificio, la capacità d’inventiva e la tenacia organizzativa del Coordinamento

Progetto Eurasia hanno supplito finora alla carenza di mezzi e finanziamenti ma ovviamente

non gli hanno consentito di raggiungere la stessa dimensione numerica sviluppata dai suoi

avversari del “Partito americano” ben equipaggiati dai circoli atlantisti.

A questo proposito, come noi riconosciamo nella Russia del XXI secolo lo Stato perno attorno

al quale si aggregheranno tutti coloro che auspicano un cambiamento rivoluzionario delle

relazioni internazionali, allo stesso tempo la Russia dovrà convenire che il tempo delle mezze

misure è pressoché finito e dovrà contribuire attivamente al sostegno di quei gruppi eurasiatisti

tanto necessari alla costruzione della futura unità continentale.

 

*

Conference organized by International Eurasian Movement – Eurasian Economic

Club – Union of Eurasian Youth dedicated to the:

“Network warfare, social and information strategies of postmoderna era”

Hotel “Marco Polo Presnya” - Moscow, 24-25-26 October 2007

Intervento a cura del Coordinamento Progetto Eurasia (Italia) –

www.cpeurasia.org