Secondo il pensiero postmarxista dovremmo preoccuparci della crisi degli Stati nazionali, perché essa mette in pericolo la democrazia. La doppia pressione esercitata sugli “Stati nazione”, figli delle rivoluzioni del Settecento, dalle culture e tradizioni locali, collegate a quelle della globalizzazione, sarebbe sostanzialmente antidemocratica. Così la pensa lo storico di formazione marxista, Eric Hobsbawm, nel suo libro La crisi dello Stato, pubblicato ora in Italia da Rizzoli.
In realtà, tutto il blocco culturale che riconosce le proprie origini nelle “rivoluzioni borghesi” europee del Settecento, protagoniste del processo di secolarizzazione poi realizzatosi nei due secoli successivi, è fortemente preoccupato dal grave indebolimento che ha colpito l’attore politico di questo stesso processo, lo Stato nazionale.
La crisi è precipitata dopo l’avvenimento decisivo che decretò il fallimento dell’utopia secolarista e antireligiosa: l’esplosione, nell’ultimo decennio del secolo scorso, dell’Unione Sovietica. E, con essa, la fine del socialismo reale come prospettiva politica di liberazione e la sua definitiva trasformazione in strumento di oppressione e macelleria sociale, come la realtà di oggi dimostra, in Estremo Oriente, a Cuba, e dovunque venga ancora applicato.
E’ infatti da allora (cioè dalla consunzione dell’utopia di un pensiero unico internazionalista, superiore alle tradizioni religiose e materiali dei vari popoli, un pensiero astratto, ideologico, che uccidendo Dio e le tradizioni che ne parlano facesse dell’uomo la misura di tutte le cose) che i popoli tornano, invece, proprio a Dio, alle origini, alle radici delle tradizioni e degli affetti.
Questo processo indebolisce gli Stati divenuti istituzioni essenzialmente giuridiche, costituzioni e dispositivi legislativi e giudiziari (passione delle sinistre di derivazione marxista), e riavvicina i popoli alle vecchie “nazioni” organiche, all’incirca le attuali regioni e i comuni, che, nella loro maggiore vicinanza ai cittadini e flessibilità burocratica, sono molto più in grado (anche) di inserirsi efficacemente nel processo di globalizzazione.
Ma questo non coincide affatto, come teme Hobsbawm, con un indebolimento delle democrazie. Anzi. I totalitarismi del Novecento, di cui anche lo storico marxista è costretto a parlare, non si erano affatto imposti “contro” gli Stati nazionali, ma furono piuttosto il momento del loro maggior potere, con repressioni anche molto dure verso quei popoli che, al loro interno, non si riconoscevano interamente nello Stato stesso.
Lo stesso sterminio degli ebrei è stato compiuto dal Reich tedesco contro un popolo e una tradizione religiosa che non si identificava con lo Stato, così come furono guidati dagli Stati gli stermini etnico-religiosi nell’Urss, in Turchia e dovunque nel mondo.
Far passare gli Stati nazionali, la cui smania di potere sostanziò i totalitarismi, come campioni di democrazia è un tentativo smascherato dalla storiografia realista, e dai fatti. Il futuro della democrazia non è nelle ideologie stataliste, ma nel lasciare che i popoli si liberino dalla sacralizzazione degli Stati e riconoscano il Sacro lì dov’è, e dove i loro antenati l’hanno da sempre riconosciuto.

da “Tempi”