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Appunti per un’escatologia naturale

di Alessandro Puma - 12/11/2007

 

 

 

 

 

“Fratelli miei, amate tutta la creazione nel

suo insieme e nei suoi elementi, ogni foglia,

ogni raggio, gli animali, le piante.

E amando ogni cosa, comprenderete

il mistero divino delle cose.”

F. Dostoievskij, I fratelli Karamazov.

 

 

 

Giustamente Nietzsche – questa incarnazione di Dioniso in terra – parlando della “cattiveria da rachitico” di Socrate, afferma che la dialettica, da lui apportata per vendicarsi dei nobili che affascinava, “può soltanto essere legittima difesa, in mano di quel tale che non abbia più altre armi. Bisogna aver da ottenere a forza la propria ragione: altrimenti non si fa alcun uso della dialettica. Perciò gli ebrei erano (e sono, come le donne, aggiungerei) dialettici”1.

   Il trasferimento della contesa dal suo luogo naturale – il campo di battaglia – ad uno intellettuale, come quello della disputa sofistica, è già sclerosi decadentista, il primo passo verso il nichilismo.

   Gli antichi Ateniesi, abituati in origine (come gli Spartani) ad andare in guerra senza perdersi in chiacchiere inutili o ragionamenti sillogistici sul bene e sul male di ciò che andavano facendo, persero il loro slancio vitale, la loro gioia agonistica nel momento in cui questo prodigioso molestatore di fanciulli – Socrate appunto – applicò la sua bizzarra equazione, ragione=virtù= felicità.

   Questo plebeo dall’abbagliante bruttezza sancì, tra le due morali di Apollo e Dioniso, la prima legalista, la seconda sovvertitrice, la definitiva vittoria della razionalità e dell’ordine apollineo, che vale a dire anche femmineo e pederasta.

   Anche il tempo cambia: il mito nietzschiano dell’eterno ritorno, come le ere cosmologiche del ‘Vedanta’, vengono accantonate in favore di una temporalità finalistica e non ripetitiva, sostituendo così la ricerca di una ragione e di un senso da trovarsi nella Storia, al ripetersi naturale e ciclico delle stagioni, la cui divina ricorsività e senza un perché.

   Così, per la prima volta, la speculazione filosofica infligge il suo duro colpo, il suo più umiliante e fondamentale pungolo nella carni di Sabazio, ossia di quel Dioniso che, proveniente dalla Tracia, aveva portato alla vita ellenica “l’ardore, l’entusiasmo e l’ebbrezza mancanti nella religione ufficiale”2.

   A proposito dell’atto di supremazia che la scrittura – come scrittura divina – esercita nei confronti della natura, in un vero e proprio atto di violenza cratofanica, ma necessaria3, il paragone nicciano tra Socrate e gli ebrei non è per nulla campato in aria perché, come aferma il Latourelle: “Il tempo biblico dunque non è ciclico ma lineare: qualche cosa di nuovo si compie nella storia, sotto la direzione di Dio”4.

   Tutta la “pedagogia di Dio” nell’AT, infatti, è continuamente volta a stornare l’attenzione del ‘popolo eletto’ dall’idolatria in cui cade quasi di continuo, come un nostalgico retaggio dei riti e delle pulsioni legate alla natura. E’ questo, infatti, che fa degli ebrei un popolo dalla ‘dura cervice’ (ragion per cui, al pari della volontà di Socrate tesa fino al martirio, li si potrebbe quasi ammirare).

   Ma se l’AT trova nel NT, con la figura di Cristo – che recupera, fra l’altro, gli attributi dionisiaci della vite e del grano – la sua giustificazione e il suo compimento, attraverso l’instaurazione di un tempo nuovo (di cui diremo alla fine), cioè una terza via che assorbe in sé, come la ‘Pizia’ dell’oracolo di Delfi, tanto lo spirito apollineo quanto quello dionisiaco, la contrapposizione antropologica natura vs cultura permane, attraverso i secoli, irrisolvibile.

   La natura fa scaturire, sempre, immagini sovra-naturali e/o archetipali, che non possono essere indagate razionalmente se non si vuole incorrere nella tragica fine di un Marsia, spellato vivo da Apollo, o di un Atteone sbranato dai suoi stessi cani, dopo essere stato tramutato in cervo da Diana.

   Il delirio ninfolettico provocato dai fiumi e dai ruscelli nei boschi, a mezzogiorno, può essere letale quanto sfidare un dio in una gara di canto dall’esito imprevedibile.

   Simili sacrifici sono stati interpretati da alcuni studiosi come un retaggio e una testimonianza dell’oscura epoca matriarcale – prima della comparsa del Dio come padre, che avrebbe sottratto alla donna la tutela della prole – che si ebbe in Europa, prima dell’invasione degli Ariani e degli Indoeuropei, quando ancora non era giunta alla coscienza degli uomini la causalità del nesso coito-gravidanza.

   Ciò è senz’altro vero, ma una simile interpretazione va ampliata nel senso che il sacrificio agrario tramite smembramento o sbranamento del dio o del re ‘divin paredro’ da parte di figure femminili come sfrenate baccanti o licenziose virago castranti, testimonia non tanto – o non soltanto – di quell’osceno retaggio matriarcale pre-ariano, ma principalmente del sacrificio dell’eroe-dio martire che si immola per la salvaguardia e la prosecuzione ciclica dei ritmi e delle stagioni naturali (Osiride fatto a pezzi da Seth e reintegrato dalla sposa-sorella Iside, che trova tutti i pezzi mancanti, e soprattutto il fallo da poter usare nell’accoppiamento subito dopo, mi sembra un luminoso esempio di quanto detto).

   E’ pur vero che il principio oppositivo che causa il sacrificio soteriologico – peraltro necessario – è, in molte tradizioni, femminile, sia in maniera diretta che indiretta (basti pensare ad Eva nel paradiso terrestre o a Deianira con la camicia intrisa del sangue di Nesso), ma il senso del male nella natura, come causa della storia e del martirio, è presente già nel concetto del Dio come Padre.

   Se leggiamo Schelling, infatti – e mi sembra, talora, che tutta l’intera filosofia non sia altro che un’unica, grande, divagazione schellinghiana – notiamo che tratta del cosiddetto ‘Grund’ (fondamento) oppositivo, che è la condizione necessaria dell’esistenza, e che, presente addirittura in Dio come “un essere certo inseparabile da Lui, e tuttavia distinto”5, Dio non può sopprimere ma soltanto dominare.

   Questo principio, che è causa della creazione – e dunque Male insito tanto nella Natura divina, quanto nella natura mondana propriamente detta – viene denominato da Schelling col termine di “inconscio”, oltre che “tenebra”, “egoismo” e “ipseità” (Selbstheit)6.

   Ed è appunto per riscattare questo Male che Dio manda il Figlio sulla terra, anche perché, come afferma ancora Schelling: “Senza il concetto di un Dio che umanamente soffre, comune a tutti i misteri e le religioni spirituali dei tempi passati, l’intera storia rimane incomprensibile”7.

   Ma ecco subentrare la molteplicità degli dèi (greci) che costituiscono il tragico – dionisiaco – nella misura in cui si propongono come “coscienza estraniata dal Dio vero in quanto tale” come necessaria tappa fenomenologica che può annunciarsi nella coscienza umana “solo attraverso rappresentazioni o produzione di rappresentazioni”8.

“La pluralità materiale di dèi è quindi l’es-soterico, gli dèi spirituali, che dopo l’annullamento della tensione sono ancora solo in quanto forme di Un Dio, diventano contenuto di una coscienza esoterica […]: i misteri contengono propriamente la spiegazione, la vera filosofia della mitologia”9.

   “Negli Eleusini erano dunque uniti i misteri di Demetra e di Dioniso. I misteri di Dioniso erano la fine naturale e necessaria dei misteri di Demetra. Dioniso nella sua suprema potenza era il fine, il senso ultimo dell’intera dottrina dei misteri, di cui Demetra era solo l’inizio.  […] vi apparteneva la dottrina di Dioniso nella sua suprema potenza in cui era già celebrato […] come il futuro (escatologico?) sovrano del mondo”10.

   Nel ritornare, brevemente, alle immagini sovrannaturali che la stessa natura partorisce, seguiamo il ragionamento di H.P. Lovecraft, autore per certi versi anomalo, ma estremamente “ortodosso” nel suo scientismo materialista, che – parlando di se stesso in terza persona – così declama:

   “Chi stende questo scritto […] sebbene figlio di padre anglicano e di una madre battista […] all’età di poco più di sei anni, si imbattè nelle leggende dei Greci e divenne un pagano classico, sincero ed entusiasta. Ignorante di scienze […] non vedeva forse con i suoi occhi, al di là di ogni possibile dubbio, le graziose forme delle driadi, confuse a metà con i tronchi di vetuste querce, forse non scorgeva in modo chiaro e certo i piccoli fauni sfuggenti […] che andavano saltellando così furtivamente dall’ombra di un cespuglio a un’altra ombra?”11.

   E come potrebbe essere interpretata, per esempio, la visione della Beata Vergine Maria che apparve, proprio da una verde coltre boschiva, a quella controversa figura di monaco e taumaturgo che rispondeva al nome di Grigorij Rasputin, in seguito alla quale decise di abbandonare la sua famiglia contadina, per diventare quello starec che avrebbe colpito al cuore l’impero russo?

   Questo aspetto per così dire mistico o spirituale della natura viene ad essere ribadito, e persino esaltato, nell’opera e negli intenti di uno dei più grandi artisti del Novecento, Maurits Cornelius Escher. Sebbene, infatti, l’intera produzione artistica di questo geniale grafico olandese possa far pensare, in un primo momento, ai nessi che intercorrono tra pittura e pensiero scientifico – grazie alle sue stelle geometriche e alle sue strisce di Moebius – la sua vicinanza ad un certo aspetto ‘angelico’ della natura viene ad essere testimoniata dallo stesso Escher, che così scrive a proposito di una sua passeggiata in un bosco vicino Siena, nel 1922:

   “Mi commuoveva sopra ogni cosa la vita angelica che cresce sulla terra. Non ho la minima idea di che specie di fiori cresca qui con tanta abbondanza: non conosco i loro nomi. Ma mi sono commosso a tal punto che quando mi sedevo avevo cura di non schiacciare che pochissime erbe e piante col mio corpo maldestro […] Mi sentivo vicino ai silenziosi, gioiosi, esuberanti, celestiali bambini del cielo. […] sono semplicemente lì nel bosco e crescono e fioriscono ugualmente, in pace, con gioia e silenziosamente. Sono assolutamente sicuro che non sanno nulla del comportamento e delle porcherie della gente […], conoscono soltanto il cielo”12.

   In un’interessante idea di katabasis, per Escher, “Scendere non è altro che il primo passo di quella salita metaforica di tradizione cristiana, la cui più alta espressione è la Divina Commedia. L’arte di Escher è, similmente al Cantico di frate Sole di San Francesco, il riflesso di un viaggio fondamentalmente circolare (corsivo mio ndr), cioè un viaggio che si compie in due direzioni opposte contemporaneamente.”13.

   E’ questa meravigliosa arte di Escher – evidente soprattutto in opere memorabili come Tre sfere II, del 1946, e Mani che disegnano, del 1948 – che ci riporta a quell’idea di ciclicità cristiana insita nella natura e quindi alla tesi iniziale di un’escatologia naturale, che qui si vuole proporre; e le due direzioni opposte, allora, non possono essere rappresentate che da una paradossale compresenza di scrittura e natura, di tempo ciclico e tempo escatologico-lineare.

   E’ degna di nota la tripartizione che Stuhlmacher, sulle orme di Karl Barth, compie tra la Parola di Dio come Parola accaduta, Parola testimoniata e Parola annunciata. La prima, ovviamente, ci interessa in modo particolare perché è quella che sta alla base e precede ogni umana testimonianza poiché è la persona stessa di Gesù Cristo, che, in qualità di Verbo incarnato – cioè di parola vivente – , non scrisse nulla.

   Ed è già questo uno snodo essenziale – anzi fondamentale – per capire la diversità che la tradizione instaurata dal Messia, come terza via che riassume e supera tanto la scrittura quanto la natura, apporta – parafrasando Alain de Benoist – sia ‘nei confronti dell’Olimpo che del Sinai’.

   Dell’Olimpo, Cristo possiede la capacità di abbattere le categorie immutabili dell’Essere distinto dalla creazione naturale; del Sinai, ingloba la facoltà di essere Egli stesso Scrittura posta in essere e anticipata, dunque, dalle scritture profetiche. Ma li supera entrambi.

   Proprio in quanto terza via che riassume in sé e supera tanto la scrittura quanto la natura (natura umana oltre che tellurica), il Messia realizza già, nella Sua Persona, e prima della fine dei tempi, una nuova e definitiva escatologia naturale, lineare e ciclica, finalistica e ripetitiva, legalista e sovvertitrice al tempo stesso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                  

 



1 NIETZSCHE F., Crepuscolo degli idoli,  Tascabili Economici Newton,  Roma 1994.

2 PIERINI F., Guida alle religioni, San Paolo, Milano 2000.

3 Occorre, qui, un’importante precisazione: così come il mythos degli albori – omerico ed esiodeo – non essendo ancora degradazione intellettualistica, nella misura in cui, quando fu messo per iscritto, risentiva ancora della gioia e dell’irrazionalità dell’oralità, anche il canone veterotestamentario iniziale si mostra con una sua indiscussa purezza. La degenerazione sofistica socratica può dunque essere assimilata, semmai, alla speculazione giudaica post-esilica, che per forza di cose non riconobbe in Cristo il Messia.

Sarebbe molto difficile, infatti, tacciare il Dio del Vecchio Testamento – proprio per il suo “demiurgismo” e per la sua ‘giusta’ anti-naturalità – di mollezza effeminata.

4 LATOURELLE R., Teologia della Rivelazione, Cittadella Ed., Assisi 1996.

5 SCHELLING F., Philosophische Untersuchungen,  Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Mursia, Milano.

6 Stuttgarter Privatvorlesungen in Scritti sulla filosofia, la religione…op. cit.

7 Philosophisce Untersuchungen, op. cit.

8 Dalla lezione XXIV della Esposizione della filosofia puramente razionale (1847-1854) in Invito alla lettura di F.Schelling, F. Tomatis, San Paolo,  Milano 2004.

9 Ibidem (XIII 378).

10 Ibid. (XIII 525).

11 LOVECRAFT H.P., Tutti i romanzi e i racconti, volume terzo, GTE Newton, Roma 1993.

12 ESCHER M.C., His Life and Complete Graphic Works (a cura di) J.L. Locher, New York 1981.

13 Nell’occhio di Escher, catalogo della mostra in abbinamento a L’Espresso, Roma 2004.