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E Franz Zazzi di Giuseppe Culicchia avrà un film tutto suo

di Roberto Alfatti Appetiti - 12/11/2007

 

 
«Cazzo che uomo, quel Briatore», dice un tipo di fianco a noi ai suoi vicini d’asciugamano. «E’ un grande» dice un altro. «Si presentasse alle elezioni, giuro che lo voterei». A quel punto interviene un terzo: «Anch’io. Ve l’ho già detto che il giorno più bello della mia vita è stato quando ho conosciuto Carlo Pignatelli?». Lo scambio di battute, tutt’altro che ironico, è tratto dall’ultimo romanzo - dolce e amaro, sicuramente spassoso - di Giuseppe Culicchia, Un’estate al mare (Garzanti, € 15,50), da pochi giorni in libreria. Protesto con l’autore: Giuseppe, sorvoliamo sul “mito” di Briatore, ma davvero gli italiani sono così superficiali? E lui (gentilissimo, disponibile, aplomb sabaudo): «Te lo giuro, io quella frase su Pignatelli (lo stilista, ndr) l’ho sentita davvero e per un attimo ho sperato scherzassero». L’intervista del Secolo potrebbe finire qui, tanto è lo scoramento che ci assale, ma va avanti. Noi, intanto, facciamo un passo indietro e torniamo al libro. Si fa leggere d’un fiato, è scritto così bene e procede con tanta sbarazzina leggerezza da sembrare inoffensivo… ma lascia il segno. Location: la Sicilia dalle parti di Marsala, una terra che Giuseppe - figlio di padre siciliano (come il protagonista, ma il romanzo non è autobiografico!) - conosce bene e descrive altrettanto bene. Siamo nell’estate del 2006 e l’Italia si appresta a vincere il campionato del mondo di calcio. Ma a Benedetta e Luca delle vicissitudini della nostra nazionale non può fregare di meno: sono in viaggio di nozze, entrambi alle prese con le rispettive ossessioni. Lei, trentunenne con un linguaggio da diciottenne tardo-paninara, vuole avere un figlio e lo vuole subito. Lui, quarantenne ipocondriaco - preoccupato dalla perdita dei capelli sulla nuca e da un dolore (psicosomatico?) al ginocchio che gli fa temere d’avere un tumore - non è altrettanto entusiasta: lo spaventa l’idea di fare figli in un mondo in cui «molto presto noi umani ci sbraneremo per una tanica di benzina, per una bottiglia d’acqua o anche solo per una scatola di fiammiferi, come succede già nei reality della tivù». Tornato in Sicilia dopo un quarto di secolo, Luca si troverà a fare i conti con un passato che pensava di avere definitivamente rimosso: il ricordo onnipresente del padre, maggiore dell’aeronautica, e l’incontro con la tedesca Katja, il primo amore giovanile, e sua figlia, la spregiudicata diciassettenne Andrea, lo metteranno di fronte ad una scelta che non farà, lasciando ancora una volta che altri la facciano per lui.
«Luca è il classico elettore di centrosinistra – mi dice Culicchia – mentre Benedetta è decisamente di centrodestra». Tanto lei è ottimista, un po’ superficiale, concentrata sulla sua vita, sin troppo determinata, tanto lui è pessimista e, per dirla con Flaiano, «indeciso a tutto». La lettura bulimica dei quotidiani - si “appassiona” soprattutto alle previsioni apocalittiche: fenomeni come la desertificazione dell’Europa meridionale, l’innalzamento del livello dei mari e l’emergenza rifiuti - rivela il tentativo di cercare pretesti che lo aiutino a rimandare l’assunzione di ogni responsabilità. Nonostante abbia dieci anni più di lei, si ostina a non voler crescere, nascondendo la propria immaturità dietro alibi massimalisti, metafora di una sinistra in perenne crisi di identità. E nel romanzo ce n’è anche per una classe politica inadeguata e, aspetto ancor più sconfortante, terribilmente ignorante. «Sta’ a sentire - dice Luca alla moglie, leggendole i giornali ad alta voce - Tommaso Coletti, senatore della Margherita (e presidente della Provincia di Chieti, ndr), promuove i Centri per l’Impiego con lo slogan Il lavoro rende liberi e commenta: “Non ricordo dove lessi quella frase, ma fu una di quelle citazioni che ti colpiscono all’istante”». Ne viene fuori un ritratto impietoso quanto esilarante di una società italiana capace di digerire ogni cosa con noncuranza, che ha soprattutto voglia di festeggiare, malgrado tutto e tutti. E quale migliore occasione di “ubriacatura” collettiva dei mondiali di calcio? Al riguardo Culicchia, come il suo Luca, è insofferente: «Niente a che vedere con l’impresa epica del ’82, le vittorie con Argentina e Brasile, la tripletta di Rossi, di questo campionato del mondo ricorderemo soprattutto la testata di Zidane. Questo mondiale è servito solo a seppellire calciopoli». Intendiamoci, Giuseppe è un appassionato di calcio e un tifoso del Torino, cui ha dedicato un libro in occasione dei cento anni di storia della società granata (Ecce Toro, Laterza 2006). E anche «perché da secoli in nazionale non gioca più nessuno del Toro» alla nazionale di calcio preferisce una sua personalissima (inter)nazionale di scrittori: «In porta Nietzsche, perché tra i pali ci vuole un pazzo. Terzini direi due tosti, il francese Houellebecq e il norvegese Hamsun. Mediano Pasolini, che tra gli italiani è l’unico che a calcio giocava davvero. Stopper Hemingway: una roccia. Libero Rimbaud: è il suo ruolo, non c’è dubbio. All’ala destra Martinetti, tipo da percussioni telluriche. Regista l’austriaco Bernhard, uno che amava le geometrie. Centravanti Irvine Welsh, uno scozzese da sfondamento. Mezz’ala Fitzgerald, elegante come Maccarelli. Il problema naturalmente è trovare un sostituto per Pulici: forse solo Shaskespeare con la sua smisurata classe e potenza ce la può fare. In panchina Ernst Junger». Non si può dire che l’attualità lo avvinca: «Rispetto agli anni Sessanta e anche agli Ottanta, l’Italia è molto cambiata e non in meglio, tutto è più frammentato, i percorsi sono più individuali. Prima accanto alla voglia di divertirsi c’erano anche dei valori, un’idea del mondo, giusta o sbagliata che fosse, dei progetti di vita comune. A noi non resta che contare il numero di carte di credito nel portafogli. C’è un abbrutimento che sino a qualche anno fa era inimmaginabile, abbiamo sempre litigato per i parcheggi, ma se ieri volavano parolacce, oggi ti sparano. Non è solo colpa della tivù ma dell’idea, sbagliata, che devi avere successo a tutti i costi». Sei pronto per buttarti in politica! «No, sono troppo disilluso, anche se a volte mi vengono i sensi di colpa. L’Italia è il paese più immobile d’Europa, dalla ricerca all’università ed è una cosa che sconteremo nel futuro. Ti ricordi l’ora di educazione civica nelle scuole? Forse andava fatta più seriamente, andrebbe fatta ancora oggi… E comunque fare letteratura in qualche modo significa fare politica. Come si diceva: il personale è politico? Tutti i libri che escono sono politici, compresi quelli Harmony, rappresentano sempre qualcosa, una visione del mondo». Che poi, a pensarci bene, il tuo romanzo d’esordio, Tutti giù per terra (Garzanti, dal quale nel ’97 è stato tratto il film diretto da Davide Ferrario con Valerio Mastandrea), è del ’94 e Berlusconi è sceso in campo lo stesso anno. Ridiamo. «Ecco, lo vedi, qualcosa in comune io e Silvio la abbiamo e siamo tutti e due ancora qui e con la voglia di dare battaglia». E in effetti Giuseppe Culicchia (classe ’65) non sarà primo ministro ma è ormai uno scrittore affermato. Sono passati più di quindici anni da quando l’indimenticato Pier Vittorio Tondelli lo scoprì pubblicando i suoi primi racconti all’interno dell’antologia Papergang Under 25 (’90). Oggi i suoi libri sono tradotti in Germania, Francia, Olanda, Grecia, Spagna, Catalogna, Russia e persino in Corea del Sud e vendono centinaia di migliaia di copie. Nel frattempo Culicchia è cresciuto con i suoi personaggi: «Nei miei romanzi, in maniera disordinata, credo di aver raccontato tutte le età della vita, confrontandomi progressivamente con sentimenti che non conoscevo». Prima di arrivare al quarantenne Luca, c’è stato il Walter degli inizi, ventiduenne ancora vergine, appassionato di Bukowski e obiettore di coscienza, con un padre che, quando non è occupato a vedere Telemike, non fa altro che rimproverarlo: «Tutti alla tua età hanno un impiego, una macchina e una ragazza ma tu non ce l’hai, non hai niente di niente». C’è stato Anselm, il formichiere brasiliano di dodici anni, poliglotta e laureato in filosofia, capace di guardare il mondo dal punto di vista del “diverso”. E un altro personaggio irresistibile, cui siamo particolarmente affezionati e che - ci informa Giuseppe - entro due anni potrebbe persino arrivare sul grande schermo, perché c’è l’opzione di un grande produttore cinematografico, è Francesco Zazzi detto Franz, simpatico e “positivo” malgrado sia «dichiaratamente fascista». Il quattordicenne neofascista protagonista de Il paese delle meraviglie (Garzanti, 2004), infatti, è vitale, sguaiato, aggressivo, incontrollabile negli slanci, sempre sopra le righe ma anche profondamente libero. E’ attraverso gli occhi di Franz - e dell’amico Attila, un Charlie Brown che sogna spesso ad occhi aperti - che Giuseppe ha raccontato con il suo caratteristico senso dell’humor e molta umanità (meglio delle tante polverose autobiografie che hanno assalito librerie ed edicole) l’Italia del ’77, un periodo caratterizzato dalla violenza politica, vicino eppure lontanissimo per chi, come lo scrittore piemontese, è abbastanza “vecchio” «da ricordare il mondo prima del personal computer, dei telefoni cellulari e dell’iPod, quando per ascoltare Patty Pravo si infilava ancora il 45 giri nel mangiadischi portatile arancione». Tante estati fa, forse troppe, maledizione.