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Il petrolio sta per finire?

di Massimiliano Viviani - 12/11/2007

       

 

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Il petrolio ha raggiunto quota 100. Finalmente ci siamo: si temeva da tempo la fatidica soglia dei 100 dollari al barile, e ora ci siamo quasi arrivati.
Mai il prezzo era arrivato tanto in alto, e ciò che spaventa è soprattutto l'accelerazione impressionante degli ultimi anni. Basti pensare che cinque anni fa il greggio fluttuava intorno ai 25 dollari, e due anni fa intorno ai 60.
Secondo gli "ottimisti" è speculazione finanziaria, legata soprattutto all'instabilità in Iraq. Inoltre le compagnie, per risparmiare sui costi, non rinnoverebbero i vecchi impianti di estrazione in favore di altri più moderni ed efficienti (che permetterebbero di estrarre il petrolio in luoghi prima d'ora inaccessibili), e conseguentemente di aumentare enormemente le potenziali riserve.
Secondo i "critici", invece, il picco del petrolio (picco di massima produzione possibile, oltre il quale l'offerta non è più in grado di stare dietro alla domanda, con conseguente rincaro irreversibile del prezzo del greggio) sarebbe stato raggiunto negli anni passati: chi dice nel 2001, chi nel 2004, chi dice che è prossimo (entro il 2010 secondo il geologo Colin Campbell, entro il 2012 secondo l'Agenzia Internazionale per l'energia). Secondo il Dipartimento per l'Energia Usa invece il picco ci sarà nel 2037, secondo l'ad Eni Paolo Scaroni fra 70 anni (ma viene il dubbio che queste ultime due previsione "ufficiali" siano attendibili come le "terribili" armi di distruzione di massa di Saddam...).
E' ancora molto abbondante invece il petrolio "sporco" - le sabbie bituminose o il petrolio misto a zolfo - molto difficile da estrarre (ci vogliono due barili di petrolio per estrarne tre) e da raffinare, e quindi antieconomico.
Gli "ottimisti" non considerano che le riserve di petrolio vengono spesso gonfiate o per l'inaffidabilità delle tecniche di indagine, o per gli interessi dei paesi produttori o per quelli delle compagnie allo scopo di incrementare le quotazioni sul mercato. Contemporaneamente i nuovi giacimenti scoperti ogni anno sono ormai pari a circa 1/4 del petrolio consumato. Così come non considerano il ruolo della gigantesca fame di energia che viene da Cina e India, la cui crescita è sempre alta ma comincia a essere incrinata da piccoli segnali in controtendenza (lo stesso governo cinese, pur di assestare definitivamente l'economia del Dragone nel risiko di interessi intrecciati che è la globalizzazione, si sta orientando per mettere i primi limiti allo sviluppo delle proprie imprese. Il che fa pensare che il prezzo dell'oro nero possa essere una leva in frenata che fa comodo sia a loro che agli Americani, indebolendo invece l'Europa che ha un euro troppo forte per i mercati mondiali).
A questo punto è lecito un sospetto: vista la corrispondenza tra la crisi irakena e l'aumento vertiginoso del prezzo del greggio, anzichè essere stata la guerra ad avere innescato l'aumento, non può essere accaduto esattamente il contrario? E cioè che sia stata la consapevolezza della scarsità imminente, abbinata al nuovo equilibrio economico mondiale sull'asse Pechino-New Delhi-Washington, ad avere spinto gli USA ad invadere l'Iraq, ricco di petrolio a buon mercato?