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La rivelazione dell'Essere in un disco abbagliante di luce corrusca

di FrancescoLamendola - 13/11/2007

 

Il Sole del tardo autunno e dell'inverno crea dei giochi di luce straordinari e consente al viandante in cerca dell'Essere di fare delle esperienze che, pur sviluppandosi a partire dal senso della vista, rimandano oltre il mondo dei sensi fisici, alla dimensione della spiritualità e, al limite, della pura intuizione mistica.

Basso sull'orizzonte, nelle belle giornate sfolgora al mattino attraverso l'aria limpida, si posa sulle superfici sfiorandole e fa apparire il cielo come di vetro, con le montagne così nitide che sembra di poterle toccare solo allungando un braccio.

Quando poi ci s'inoltra in un viale alberato, nella semioscurità  creata dalle fronde che ancora conservano una parte del manto fogliare spruzzato dei caldi colori del giallo, dell'arancio, del marrone e del rosso fuoco, il Sole novembrino appare e scompare fra i rami, per poi sfolgorare vittorioso al di sopra delle cime, dritto negli occhi, come un disco di pura luce.

Solo in questa parte dell'anno è possibile guardarlo a lungo, anzi fissarlo; solo adesso che splende in tutto il suo fulgore, ma di un fulgore che non è insostenibile come  al colmo dell'estate, bensì vagamente attenuato, schermato, velato.

È un momento magico, una autentica ierofania: il disco infuocato del Sole che traluce impassibile nell'aria ferma, sfiorando il fogliame e proiettando attorno a sé degli aloni ellittici, elicoidali simili ad arcobaleni, che si scompongono ai margini e piovono in forma di lampi e sprazzi di luce, in raggi sottilissimi e rettilinei che dardeggiano tutto intorno, mentre l'occhio non percepisce che una inesplicabile oscurità che fa da cornice a tutto quello splendore.

In quella danza di faville iridescenti l'occhio comincia a non vedere più le cose esterne, ma le interne; o meglio, comincia a farsi trampolino delle cose esterne per proiettarsi verso l'altra dimensione, verso ciò che sta oltre lo specchio della realtà quotidiana. Forse, solo ora incomincia a vedere veramente, proprio ora che non gli è più possibile guardare.

Abbagliato, accecato, lo sguardo riesce tuttavia a restare fermo nel disco solare, a sostenerne l'impareggiabile fulgore come se una potenza benevola gli avesse fatto il dono inesplicabile di una seconda vista.

Scrive il filosofo neoplatonico Ammonio Sacca, maestro di Plotino, nel II  frammento conservato in Nemesio, De natura hominis  (traduzione di F. Lamendola dal testo latino di Alfano, c. 2, 7-15):

 

"Come il Sole, infatti, con la sua sola presenza muta l'aria in luce, rendendola luminosa, e la luce si unisce all'aria e vi si diffonde restandone, tuttavia, distinta; allo stesso modo l'anima si unisce al corpo rimanendo, però, in tutto distinta da esso. In una sola cosa l'anima differisce dall'esempio del Sole: che il Sole, essendo un oggetto corporeo e circoscritto nello spazio, non si può trovare dappertutto dove si trova la sua luce, allo stesso modo del fuoco. Il fuoco, infatti, si trova in un luogo ben circoscritto, come nel legno e nella lucerna. L'anima, invece, essendo incorporea e non circoscritta entro un luogo preciso, si diffonde per tutto il corpo con la sua luce, e non resta alcuna parte del corpo da essa illuminata, dove non sia tutta presente. L'anima si unisce al corpo, ma domina il corpo; né si trova nel corpo come in un vaso o in un otre, ma piuttosto il corpo si trova in essa che, per nulla impacciata, rimane presente a se stessa".

 

Ed ecco che il disco del Sole, fissato intensamente dallo sguardo ormai assorbito nella sua luce, passa improvvisamente dal colore giallo a un rosso corrusco, dapprima sui bordi, poi anche all'interno. Un rosso incredibile, un rosso simile a un bicchiere di vino guardato in controluce; eppure continua a restare giallo: è rosso e giallo allo stesso tempo, come un cerchio che si divide in tre cerchi, pur continuando a rimanere uno solo: è l'immagine adoperata da Dante nell'ultimo canto del Paradiso per alludere al mistero dell'unità e della trinità divina.

E non basta.

Ecco che da rosso il disco solare assume inesplicabilmente un colore verde smeraldo, purissimo, incredibile. Un Sole verde! E poi di nuovo rosso, e poi di nuovo giallo; e di nuovo verde.

Lo sguardo rapito, estasiato, è sempre più risucchiato da quella visione meravigliosa e non saprebbe distaccarsene.

In quel momento non vi sono più il mattino o la sera, l'alto e il basso, il vicino e il lontano; tutto è unico e impagabile, sontuoso, affascinante; tutto è luce, verità, bellezza; tutto è Uno. Il disco è uno, il Sole è uno, il cielo è uno; e noi siamo uniti ad ogni cosa, e ogni cosa è parte di noi.

Le sagome nere delle cime degli abeti, ferme e solenni nell'aria cristallina, fanno da cornice e da contrasto a quella esplosione di luce, di grazia, di esultanza; come lo yin e lo yang, oscurità e luce si incontrano e si abbracciano, si completano, si armonizzano, sia pure restando distinti e, anzi, strappandosi l'uno una scintilla dell'altro, in un mistero ineffabile di totale diversità e di totale integrazione.

E non vi sono più il passato e il futuro, ma solo un presente che vibra, che permane, che si fa esso stesso luce, calore, bellezza pura.

A questo punto, l'anima incomincia a vedere realmente: comincia a vedere quando l'occhio, abbagliato e sprofondato nella luce, non è più in grado di distinguere i contorni delle cose; così come l'orecchio comincia a udire veramente una poesia quando non distingue più il suono distinto delle parole, ma la sua musica interna, aerea, ineffabile.

L'anima può salire a queste altezze, ma ad una condizione: che non sia macchiata dalla impurità dell'ego, che non sia trascinata verso il basso dai mille nodi tenaci dell'attaccamento, del desiderio e del timore.

Solo se è riuscita a fare silenzio e chiarezza entro di sé, riuscirà a sollevarsi e a spiccare il balzo verso la Luce: non la luce del Sole, che è materiale, ma la Luce in se stessa, di cui quella del Sole è un presentimento e una immagine simbolica.

Infatti, uscita da se stessa e proiettata verso le cose divine, l'anima è divenuta parte dell'Uno, o meglio è tornata a quell'Uno da cui si era distaccata, immergendosi nelle cose del corpo. Ora non è più l'occhio che vede la luce, ma l'occhio che si è fatto luce esso stesso. Divenuto luce, l'occhio vede se stesso, vede l'unità di ogni cosa che esiste nel grande abbraccio dell'Essere.

Scrive Plotino nelle Enneadi, I, 6, 9 (antologia a cura di G. Faggin La presenza divina, Messina-Firenze, Casa Editrice G. D'Anna, 1967, pp. 117-118):

 

"Come si può vedere la bellezza dell'anima buona? Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora interiormente bello, fa come lo scultore di una statua che deve diventar bella; egli toglie, raschia, liscia, ripulisce, finché nel marmo appaia la bella immagine; come lui, leva tu il superfluo, raddrizza ciò che è storto, purifica ciò che è impuro e rendilo splendente e non cessare di scolpire la tua propria statua finché non ti si manifesti lo splendore divino della virtù e tu non vegga la temperanza sedere su un trono sacro. Se tu sei diventato ciò, se vedi tutto questo, se pura sarà la tua interiorità e tu non avrai alcun ostacolo alla tua unificazione e nulla che sia mescolato interamente a te stesso, se tu sei diventato completamente una luce vera, non una luce di grandezza e di forma misurabile, che può diminuire o aumentare indefinitamente, ma una luce del tutto senza misura perché superiore a ogni misura e a ogni qualità, se ti vedi  in questo modo, tu sei diventato ormai una potenza veggente [una 'visione', dice Faggin, un puro occhio veggente] e puoi confidare in te stesso; anche rimanendo quaggiù tu sei salito né hai più bisogno  di chi ti guidi; fissa lo sguardo e mira: questo soltanto è l'occhio che vede la grande luce.

"Ma se tu vieni a contemplare, lordo di cattiveria e non ancora purificato oppure debole per la tua poca forza, non puoi guardare gli oggetti assai brillanti e non vedi nulla, anche se ti sia posto innanzi un oggetto che può essere veduto.  È necessario infatti che l'occhio si faccia eguale e simile all'oggetto per accostarsi e contemplarlo. L'occhio non vedrebbe mai il sole se non fosse già simile al sole, né un'anima vedrebbe il bello se non fosse già bella. Ognuno dunque diventi anzitutto divino e bello se vuol contemplare Dio e la Bellezza. Salendo, egli arriverà dapprima presso lo Spirito e saprà che colà tutte le idee sono belle e dirà che quella è la bellezza…"

 

Ma per essere attratta dalla bellezza, dalla verità e dalla bontà, dice Platone nel Fedro, bisogna che l'anima abbia già contemplato, in un passato di cui non serba ricordo consapevole, i modelli originali di quelle forme del Bello, del Vero e del Buono che quaggiù ci si presentano solo come copie pallide e sbiadite.

Scrive infatti in un passo famoso (Edro, 249b-250c; traduzione di Giovanni Caccia, in Platone, tutte le opere, Roma, Newtin & Compton Editori1997, 2 voll., II, pp. 463-465):

 

"L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza  delle cose che un tempo la nostra anima vide  nel suo procedere assieme al dio, quando guardò dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente è. (…)

"Così della giustizia, della temperanza, e di tutte le altre cose che hanno valore perle anime non c'è splendore alcuno nelle cose di quaggiù, ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al seguito di Zeus, altri di un altro dio. Godemmo di una visione e di una contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e beate in una luce pura, poiché eravamo puri  e non rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi, incatenati dentro ad esso come un'ostrica."

 

Questo non significa, come talvolta inesattamente si afferma, che la bellezza della visione non stia nella cosa guardata, ma nell'occhio che guarda; bensì che l'occhio può vedere e riconoscere la bellezza, e contemplarla senza rimanere abbagliato, solo a condizione che si sia purificato e fatto trasparente; che sia divenuto luce esso stesso.

Ecco perché è così raro vedere la bellezza; ecco perché è così raro vedere attraverso le cose e immergere lo sguardo in quella pura Luce nella quali esse finiscono per sciogliersi, rivelando infine la loro natura opaca e illusoria.

Se l'occhio non si è purificato, non può spingersi oltre la superficie delle cose; se l'anima non si è distaccata, almeno in parte, dal peso dell'ego, non riuscirà mai a intravedere lo splendore dell'Essere.

Il simile chiama il simile.

A noi, viandanti dalla doppia cittadinanza, la libertà di scegliere.

Se scegliamo di assecondare l'avidità dell'ego, sempre più il nostro sguardo sarà attratto dagli oggetti dei nostri desideri e dei nostri timori, e rivolto verso il basso.

Se scegliamo di assecondare le parti superiori della nostra anima, il nostro lato spirituale, saremo attratti verso l'alto e non potremo mai più scordare gli squarci di pura luce che si offriranno alla nostra vista e alla nostra profonda nostalgia.

Ma solo nel secondo caso avremo fatto della nostra vita un ponte, un arcobaleno gettato verso l'orizzonte del nostro ultimo destino.

Scegliendo di inseguire le passioni disordinate dell'ego, invece, avremo reso la nostra vita un trampolino spezzato, una rotaia abbandonata su cui erbacce e arbusti spinosi indicano che nessun treno passerà mai più a rallegrare le buie solitudini.