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L’evoluzione, l’autore del libro della natura e il correttore di bozze

di Giuseppe Sermonti - 13/11/2007

Leggo con interesse sul Corriere della Sera

di venerdì 9 novembre la replica di

Piattelli Palmarini ai rilievi sollevati sul

Foglio al suo articolo del giorno 4 sull’evoluzione.

Il dibattito non riguardava il merito

delle ultime scoperte scientifiche in argomento,

ma il valore epistemologico delle

conoscenze sull’evoluzione. Una discussione

sulla “giunzione alternativa di segmenti

di geni” (Alternative splicing ) avrebbe lasciato

attonito il lettore. Il problema sul tappeto

era invece se all’evoluzione si potesse

concedere un suo angolo trascendente o se

fosse tutta compresa in una visione “perfettamente

materialistica”. In particolare erano

in discussione le “leggi della forma” ovvero

i “principi dello sviluppo”. Piattelli

Palmarini asserisce perentoriamente che si

tratta di leggi materialistiche, proprio come

lo sono le leggi della fisica. Non aggiunge

“… e della matematica”, per non complicarsi

la vita. Sono “materialistiche”, quelle leggi,

non perché risultate tali alla prova dei

fatti, ma per “contratto intellettuale”, per

convenzione, cioè: si tratta solo di materia,

il resto è favola.

In un mio commento sul Foglio ho citato

Lima-de-Faria (“Evoluzione senza selezione”)

per l’equivalenza che propone tra la selezione

naturale, da un lato, e l’etere e il flogisto

dall’altro (raffronto che non condivido).

Egli rifiuta la selezione, non in nome della

trascendenza, ma proprio “per capire i meccanismi

dell’evoluzione in termini strettamente

chimico-fisici.” Il citologo portoghese

afferma che l’evoluzione ha due lati: uno primevo

e uno storico, le leggi della forma e la

varietà genetica. “Il neodarwinismo – scrive

– comincia dalla parte sbagliata, cioè dall’evento

terminale della formazione delle specie

e della popolazione”. Le leggi della forma,

che interessano egualmente i minerali, i

vegetali e gli animali, sono invarianti; la frequenza

dei geni muta nella storia. La forma

esagonale dei cristalli di neve non varia nei

miliardi di anni, la percentuale dei gruppi

sanguigni in una popolazione varia nelle generazioni.

E’ su quest’ultima che opera la selezione

naturale. In un articolo sul Corriere

di sabato Edoardo Boncinelli, in difesa dell’importanza

della selezione, conclude asserendo

“che comunque è sempre quella che

ha l’ultima parola”. Ciò non vuol dire che è

quella che ha sempre ragione. Un libro nasce

dalle idee dell’autore, non dall’opera del

correttore di bozze, che è pure quello che dà

l’ultimo ritocco. Il paragone non mi viene per

caso. Dai neodarwinisti come Boncinelli l’evoluzione

della specie è comparata a un testo

che subisce una serie del tutto casuale di

errori di stampa, eliminati da un correttore

di bozze (la selezione naturale) che salva solo

quelli che “migliorano” il discorso. E’ il

caso (l’errore accidentale) che fa la storia, il

correttore di bozze (la selezione) che le dà

una direzione. Sembra una sciocchezza, ma

l’articolo è sottotitolato: “Ma proprio gli

eventi accidentali dimostrano la bontà dell’evoluzionismo”.

Sono essi che ci esimono

dall’invocare un “disegno”.

Sembrerebbe ovvio che il piano generale

appartenesse al trascendente, quello “storico”

alla scienza. E’ invece tutto il contrario:

la scienza studia le leggi naturali, ciò che è

costante, ripetibile e riproducibile, diciamo:

la caduta dei gravi, le leggi del moto, la struttura

dell’atomo. La storia studia l’irripetibile,

il non sperimentabile, quello che avviene

una volta sola. Beninteso, quello che avviene

una volta sola (… il primo amore) è prezioso

e insostituibile, ma non è scientifico. Concetto

Marchesi diceva che la scienza è come la

fiaba, che si ripete all’infinito, e non come la

storia, che accade una volta sola e mai più. Io

ho seguito questa pista proponendo l’interpretazione

scientifica delle fiabe (Fiabe di

Luna, del Sottosuolo, dei Fiori). L’amico zoologo

Ludovico Galleni non si stanca di dire

che l’evoluzione è certa come l’impero romano.

Ma l’impero romano non è riproducibile,

non è sperimentabile, non è scienza.

Alcuni scienziati si ingegnano a trasformare

l’evoluzione in scienza sperimentale (e

materialista) riproducendola in laboratorio

attraverso l’ingegneria genetica o gli organismi

geneticamente modificati. Ma quello è

proprio ciò che Lima-de-Faria chiama “il lato

sbagliato” dell’approccio all’evoluzione, il

ritocco terminale (la correzione delle bozze),

non la fondazione primeva.

Il lato sgradevole dell’evoluzionismo è soprattutto

un altro: che la teoria è diventata

un’ideologia, un partito politico, con la sua

nomenclatura e i suoi iscritti, come fu a suo

tempo il lysenkoismo sovietico. Chi non accetta

il “contratto intellettuale” con cui si è

costituito non ha voce in capitolo, non ha diritto

a salire in cattedra, rischia addirittura

l’ostracismo. Io vorrei suggerire agli evoluzionisti

quello che Giuliano Ferrara propone

al Partito democratico. Che si costituiscano

in un partito senza iscritti e senza tessere,

cui possano portare un voto e un contributo

anche coloro che non ne hanno sottoscritto

il “contratto intellettuale”, ma hanno

qualche proposta da avanzare, qualche critica

da sollevare. Così funziona, o dovrebbe

funzionare, la scienza (non so se anche la politica),

senza una maggioranza arroccata che

si difende dall’alternanza, anzi cercando

nuove teorie e nuovi metodi per supplire alle

proprie carenze. Cercandoli anche nelle

proposte dell’opposizione.