Il film di Steven Spielberg, meditazione sulla moralità della rappresaglia, ha scatenato una reazione violenta della fazione più filoisraeliana che, prima impacciata poi sempre con meno imbarazzi, si è trovata a attaccare «il più apertamente `ebreo' dei registi»
«Ogni civiltà deve trovare un compromesso con i propri ideali», riflette Golda Meir, quando in Munich decide la risposta israeliana all'attentato di settembre nero alle olimpiadi di Monaco. Così ordina ai generali del mossad di attivare le cellule che avrebbero braccato, eliminandoli uno ad uno, i palestinesi coinvolti nel rapimento e l'assassinio degli atleti israeliani. È il prologo da cui parte il film più «serio» di Steven Spielberg dai tempi di Schindler's List e di sicuro il più controverso della sua carriera. Avvolto dal segreto più rigoroso durante la produzione e dal silenzio stampa assoluto fino alla vigilia dell'uscita ha generato da diverse settimane un sottofondo sordo di polemiche che infine sono eruttate in superficie negli ultimi giorni. Dopo la ricostruzione dell'attentato di Monaco il film segue per oltre due ore e mezzo le missioni del commando israeliano che per mezza Europa, Francia, Inghilterra, Italia, Spagna stana responsabili e presunti tali dell'attacco terrorista, giustiziandoli senza pietà. Se non c'è la misericordia, comincia col passare del tempo a insinuarsi fra i membri del commando il dubbio sulla legittimità o almeno sulla giustificazione strategica dell'operazione.
È una meditazione sulla moralità della rappresaglia che segnò allora un salto di qualità nella spirale di violenza e che è il seme dell'attuale concezione di guerra ad oltranza «al terrorismo». Tanto è bastato per scatenare una reazione violenta della fazione più filoisraeliana che dapprima impacciata poi con sempre meno imbarazzo si trova ad attaccare «il più apertamente 'ebreo' dei registi», come ha scritto il Los Angeles Times. «Il film non ha a cuore Israele», ha affermato sul New Republic Leon Wieseltier, «spiega il sionismo soltanto come anti-antisemitismo». Ma la cosa peggiore, secondo Wieseltier, è che il film «preferisce discutere l'antiterrorismo anziché il terrorismo, o pensa sia la stessa discussione. Questa è un'opinione che può avere soltanto chi non è responsabile della sicurezza di altre persone». La somma ignavia di Spielberg cioè è quella di domandarsi se lo scontro a oltranza sia l'unico mondo possibile.
«Consente a se stesso di ignorare il veleno che permea il medio oriente: il radicalismo islamico», ha scritto l'editorialista del New York Times David Brooks. Nel medio oriente di Spielberg non ci sono né Hamas né Jihad islamico. Non c'è alcun fervente antisemita, nessun negazionista dell'Olocausto come l'attuale presidente dell'Iran, nessun zelota che vuole sterminare gli israeliani. Nella sua rappresentazione della realtà non ci sono persone così dedicate a un'ideologia assassina e quindi impermeabili al tipo di compromesso e di dialogo in cui Spielberg nutre una gran fiducia».
«È solo una minoranza, anche se molto vocale», ha detto Rob Eshman, direttore del Jewish Journal di Los Angeles, diventato da una settimana principale foro per le reazioni al film provenienti dalla comunità ebraica. «Quando l'ho visto ero con un gruppo di piuttosto attivamente sionista e erano addirittura scandalizzati». Nel film su 5 membri del commando, quattro esprimono seri dubbi sull'etica della loro missione di rappresaglia - Eric Bana, il suo personaggio è basato sull'agente «Avner», sempre sconfessato da Tel Aviv, la cui storia è narrata in Vengeance, il libro di George Jonas a cui il film si ispira (ma con la dicitura «ispirato ad eventi storici» Spielberg e il suo co-sceneggiatore Tony Kushner rivendicano autonomia artistica) è schiacciato dalla coscienza e finisce per lasciare Israele). Al suo superiore (interpretato da Geoffrey Rush) chiede - «ma se erano colpevoli non potevamo processarli in Israele? Lo abbiamo fatto perfino con Eichman!». Nel corso delle operazioni le vittime non sono solo repsonsabili dell'attacco di Monaco ma comprimari, «civili», ufficiali dell'Olp (ma non si parla di Ahmed Bouchki, il cameriere marocchino assassinato per sbaglio in Norvegia nel 1973 quando venne scambiato per il palestinese Ali Hassen Salmeh).
In un corsivo pubblicato sempre dal Jewish Journal il Rabbino Marvin Hier, direttore del centro Simon Wiesenthal intitolato al teorico della caccia ai nazisti, ha replicato che c'è un prezzo da pagare per estirpare il male - a volte anche in vite innocenti, citando l'invasione alleata in Normandia e le vittime fatte allora fra la popolazione civile, come costo accettabile di una guerra giusta. «Nel medio oriente di Spielberg - ha aggiunto Brooks - l'unico modo di ottenere la pace è rinunciare alla violenza, ma nel medio oriente reale l'unico modo di ottenere la pace è attraverso una vittoria militare sui fanatici accompagnata da compromessi tra gli elementi ragionevoli delle due parti». Il film invece verte proprio sui danni collaterali che la spirale di violenza provoca alla coscienza di un mondo sempre più prigioniero di uomini-bomba e di guerre preventive, tagliatori di teste e torturatori. «Non ho risposte afferma il regista nei materiali per la stampa, solo domande. Né sono necessariamente avverso al concetto di reazione militare, mi limito a sottolineare che ogni decisione comporta un costo morale».
In Munich la vendetta «strategica» degli israeliani è dettagliata nella sua quotidianità «tecnica» e il lavoro di uccisione appare prosaico, quasi tedioso, rammenta in questo i racconti degli ingegneri della morte nello Shoah di Claude Lanzmann e questo ha provocato altre proteste: «non ammettendo l'esistenza del male nella sua fiaba come esiste realmente, Spielberg racconta una realtà sbagliata», ha scritto sempre Brooks, una voce nel coro degli indignati, quasi spaventati, che il dibattito possa venire riformulato in termini umani, che possa venire rimesso in dicussione integralmente un modo di confrontarsi e confrontare la violenza mortifera che attanaglia i due popoli e con loro tutti noi. Reclamano invece a gran voce che si torni subito a parlare di lotta del bene, assoluto contro il male puro, di come estirpare i malvagi, gli «altri», non-umani da annientare, il nemico, il diverso.
Spielberg rifiuta il teorema e tanto è bastato perché venisse accusato del «peccato di equivalenza», cioè di relativismo morale in terminologia neoconservatrice, per i falchi di entrambe le parti un imperdonabile anatema. «Trovo encomiabile la critica alla violenza in tutte le sue manifestazioni», ha affermato Salam Al-Marayati, direttore del Muslim Public Affairs Council di Los Angeles, «e soprattutto la volontà di umanizzare entrambe le parti». Il coraggio di Spielberg è stato di mettere in gioco la reputazione acquisita con Schindler's List e la Fondazione riguardo la Shoah e soprattutto la propria integrità artistica per un film che, pur se non perfetto, ha osato fare dell'umanità, con i suoi dubbi e dilemmi, la base di questa storia in cui c'è il germe dell'attuale spirale di violenza globale. Questo sì è un peccato a davvero imperdonabile agli occhi di chi ribadisce il primato del bene sul male, del castigo sul delitto e dei boia, sui carnefici.
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