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Quello che non potrà mai capire un antropologo "politicamente corretto"

di Francesco Lamendola - 14/11/2007

 

 

Nel precedente articolo L'equivoco di fondo dei volonterosi antropologi anti-razzisti avevamo preso in considerazione, partendo da una riflessione sul libro dello studioso statunitense Jared Diamond Armi, acciaio e malattie, il punto di vista di quei volonterosi antropologi che, in nome della crociata anti-razzista (oggi tanto "politicamente corretta" quanto lo era, fino a sessant'anni fa, quella di segno opposto), si sentono in dovere di giustificare il fatto che alcuni popoli della Terra, come gli aborigeni australiani, non hanno introdotto l'agricoltura, né inventato la scrittura, e nemmeno - horribile dictu - la moderna democrazia liberale. Avevamo sostenuto, in quella sede, che - a nostro parere - non c'è proprio nulla da giustificare, perché la civiltà si esprime in diverse maniere e imiti degli aborigeni o, ad esempio, dei Tlingit nella costa nord-occidentale americana, sono certamente qualche cosa di diverso ma niente affatto intrinsecamente inferiore al mito della tecnica o a quello della Coca-Cola. Pertanto, quegli antropologi, storici e archeologi che si affannano tanto a spiegare che anche gli aborigeni o i Tlingit avrebbero potuto costruire città, inventare una tecnica e anche, magari, sostituire i miti della creazione con quello della Coca-Cola e del libero mercato, se solo le circostanze geografiche, climatiche e biologiche fossero state un poco meno ingrate nei loro confronti, cadono involontariamente nel grottesco quanto lo sarebbero se sostenessero che anche gli aborigeni e i Tlingit, a determinate condizioni, avrebbero potuto diventare biondi e con gli occhi azzurri.

La distorsione mentale di quei signori delle università occidentali, che si credono tanto progrediti e politicamente corretti (tanto è vero che pongono la democrazia liberale al vertice di ogni umana aspirazione alla giustizia e alla libertà politico-sociali), consiste nel fatto che essi neppure si accorgono di partire precisamente da una forma di quel pregiudizio razzista che dicono di voler combattere: dare ciò per scontato e per auto-evidente che la vera 'civiltà' è la nostra: bianca, occidentale, democratica, scientista e materialista. Mutatis mutandis, sono i legittimi nipotini dei loro nonni che davano invece per scontato che la civiltà debba essere bianca, occidentale, moderatamente liberale, cristiana e, se possibile, protestante. In altre parole, a costoro non passa neanche per il capo che, forse, un cacciatore khoisan o un pescatore polinesiano non sono affatto degli uomini civili mancati nel senso occidentale del termine, così come ai pedagogisti di tendenza paternalista e comportamentista non viene mai in mente che il bambino non è un adulto non ancora sviluppato. Il bambino è un bambino, così come il khoisan è un khoisan e l'aborigeno un aborigeno; giudicarli al di sotto della civiltà sul metro dei nostri valori, delle nostre credenze, di ciò che noi riteniamo sia giusto e buono e vero, questo sì è razzismo della più bell'acqua.

Prendiamo il caso dei Borana, studiati da Georg Gestner negli anni Settanta (che ne ha parlato in un volume antologico, Gli ultimi paradisi, edito a Gütherslo nel 1977 e tradotto in Italia da Euroclub, Milano, 1979). Si tratta di una popolazione di stirpe galla stanziata stanziata fra la parte meridionale della provincia etiopica di Sidamo e il confine del Kenya, su un altopiano posto a 1.200-1.800 metri s.l. m. e caratterizzato da una vegetazione steppica o a savana.

Scriveva Gestner (op. cit., p. 85) a proposito delle loro condizioni di vita (ma si tenga presente che gli ultimi trent'anni hanno sconvolto definitivamente gli  equilibri degli ultimi popoli tradizionali, sia in Africa che nel resto del mondo):

 

Nel loro ambiente ancora ecologicamente intatto, i borana possono sopravvivere solo grazie ai pozzi perforati nella viva roccia. Essi non hanno mai preteso di essere gli autori di queste impressionanti voragini, al contrario asseriscono di averle, per così dire, ereditate da una precedente popolazione. Il funzionamento dei pozzi, soprattutto il funzionamento della catena umana di coloro che attingono l'acqua, riflette un'attività di notevole senso comunitario. I gruppi piccoli, o quelli con elementi invalidi, dipendono per l'approvvigionamento dell'acqua dai gruppi più numerosi: i borana sono orgogliosi di questa responsabilità, che fa èarte della loro tradizione, dei più forti verso i più deboli.

"I giovani borana sognano le pompe a motore per sfuggire alla servitù dell'estrazione dell'acqua, ma l'abba gada [ossia "il padre del gada", la massima autorità politica, militare e giudiziaria, che resta in carica per un periodo di otto anni; nota nostra] cui feci visita per ascoltarne l'opinione, pur senza minimamente conoscere il significato dei termini ecologia ed economia idrologica, seppe dare la risposta giusta: «Ci opporremo alle pompe a motore con tutte le nostre forze. Più acqua significa più bestiame, più bestiame significa ancora più acqua, e così via via, sempre più di entrambe le cose, fino a quando i pascoli si esauriranno e l'acqua non ci sarà più per sempre…».

 

Ecco, dunque, quello che i volonterosi, ma ottusi antropologi anti-razzisti e politicamente coretti, non arriveranno mai a capire: che molti popoli cosiddetti "primitivi" sarebbero stati in grado di imitare il modello sviluppista dell'Occidente, basato su una crescita illimitata della produzione e del consumo; ne avevano sia l'intelligenza, sia le risorse tecniche e umane: ma, semplicemente, non lo  hanno voluto. Hanno valutato i pro e i contro dell'alternativa sviluppista alle loro economie tradizionali, basate sullo stato stazionario e sull'equilibrio ecologico, e hanno detto "no, grazie" ai bene intenzionati, ma presuntuosi e invadenti "consiglieri" occidentali. Hanno rifiutato il nostro modello, puramente e semplicemente, pur conoscendolo - o meglio proprio perché lo conoscevano - e pur essendo in grado di impadronirsi delle sue tecniche senza troppi problemi.

Come se questo prima contraddizione non bastasse, gli antropologi americani ed europei "politicamente corretti" paiono ignorare completamente un altro grave equivoco al cui interno si muovono con la massima disinvoltura: quello linguistico. Come sappiamo già fin dagli anni Trenta del Novecento (grazie agli studi di B. L. Whorf), il linguaggio non riveste solo una funzione comunicativa, ma anche concettuale; non è solo un codice di segni, ma anche un universo mentale. Di conseguenza, la semplice “traduzione” linguistica di concetti quali tempo e spazio è inadeguata a rendere il significato profondo nelle diverse culture umane. Infatti, anche se tali concetti hanno una valenza universale, non è affatto universale il modo in cui vengono percepiti dalle diverse culture, né il quadro generale di riferimento in cui vengono elaborati.

Scrive, a questo proposito, Giovanni Monastra su Diorama letterario (n. 166, 1993):

 

“Incredibilmente ancora oggi molti, ignari dei progressi della prossemica [n.b.: lo studio delle forme di interazione comportamentale dei vari gruppi umani], credono che tra gli uomini i  vari tipi di spazio costituiscano una serie di dimensioni oggettive, uguali per tutti gli individui. Alla base di tale credenza sta l’idea astratta derivante dall’Illuminismo, secondo cui l’uomo e l’animale sarebbero macchine strutturate in serie, appiattite da un egualitarismo che relega nella marginalità ogni differenza. In contrasto con tutto ciò, invece, il modo di percepire e vivere la dimensione spaziale muta più o meno pure all’interno della nostra specie, tra una cultura e l’altra. Così i rapporti e le relazioni tra gli individui, esprimendosi, appunto, nello spazio, sono profondamente segnati dal modo di concepirlo, quindi la loro struttura varia da cultura a cultura in maniera radicale.”

“Secondo questo modo di vedere (ossia quello “riduzionistico” occidentale moderno) il pensiero non dipende dalla grammatica, ma dalle leggi della logica o della ragione, che si ritiene siano le stesse per tutti gli osservatori dell’universo [corsivo nostro: non aveva affermato Galilei che anche Dio pensa in termini matematici, ossia di geometria euclidea?], e rappresentino la razionalità dell’universo, che può essere trovata indipendentemente da tutti gli osservatori intelligenti, che parlino cinese o chocthaw.  Si sostiene che la matematica, la logica simbolica, la filosofia trattano direttamente della sfera del pensiero, e non sono esse stesse estensioni specializzate del linguaggio. Ciò non è vero (…): infatti esistono condizionamenti linguistico-grammaticali sulla formulazione del pensiero, condizionamenti che sono inconsci. Gli indiani Hopi, ad esempio, percepiscono la realtà in modo molto diverso dal nostro, in quanto la loro struttura linguistica filtra ed esprime la realtà secondo canoni differenti da quelli impliciti nel nostro linguaggio: così essi vivono in un eterno presente, mancando loro la dimensione del divenire, così radicata invece nel mondo indoeuropeo. La loro è una lingua “atemporale”, la nostra a sua volta si connota come “temporale”. In sintonia con tutto ciò, gli Hopi possiedono verbi senza soggetto: questo permette loro di descrivere il mondo come un insieme di stati piuttosto che di forze in azione.”

      

Abbiamo detto che la filosofia sviluppista, divinizzando la tecnologia, relega l'essere umano al ruolo di macchina accessoria del sistema, rendendolo irrimediabilmente obsoleto rispetto alla sua stessa scienza. Ora dobbiamo aggiungere che essa, in quanto economicizza tutti i fenomeni umani, in una spirale cieca di consumo e produzione, produzione e consumo, si regge sulla continua, nevrotica invenzione di bisogni artificiali che ci rendono sempre più schiavi del futile e del superfluo, danneggiano la salute, l'ambiente e i rapporti sociali, e in definitiva risultano utili solo al mercato e non al cittadino-suddito-consumatore. Già Pier Paolo Pasolini, inascoltato profeta degli anni del preteso "miracolo economico", denunciava, nei suoi Scritti corsari, quello che lui chiamava giustamente "sviluppo senza progresso". Ora anche i più miopi possono rendersi conto, se lo vogliono, che non questo o quel modello di sviluppo, ma proprio la filosofia dello sviluppo è in sé stessa contraddittoria e insostenibile. Come si può pensare, in un pianeta dalle risorse limitate, a uno sviluppo indefinito? A un aumento illimitato della produzione, dei consumi, del benessere materiale, del dominio sulla natura? Per non parlare del tremendo impoverimento spirituale cui ci stiamo avviando, e che un profeta ancora più in anticipo sui tempi, Oscar Wilde (di nuovo un poeta!, ma diceva Tiziano Terzani che solo i poeti potranno, forse, salvare il mondo) così denunciava, alla fine del XIX secolo: "Conosciamo il prezzo di tutto, ma il valore di niente."

Tuttavia, è lecito domandarsi da dove abbia avuto origine il perverso meccanismo della sovrapproduzione, sempre più costretta a creare nuovi bisogni immaginari e a spacciarli per necessari. Alain Caillé, ad esempio (nel suo libro Critica della ragione utilitaria) sostiene che, secondo la visione utilitaristica oggi dominante, la storia umana sarebbe stata caratterizzata, ab origine, dalla scarsità materiale, il che avrebbe obbligato le comunità umane a un defatigante tour de force con relativo accompagnamento di inasprimento dei ritmi di lavoro, predominio della logica dell'interesse, affermazione degli impulsi più egoistici e conflittualità permanente. Da ciò, una linea di tendenza destinata a sfociare inevitabilmente, nelle società moderne, in una economia di mercato  in cui la sfera economica diviene sempre più autonoma rispetto a quella sociale e culturale e sempre più slegata dalle condizioni materiali, ma non dai meccanismi psicologici, che l'hanno  originata (e viene in mente, a questo proposito, il "mito della roba" che induce il verghiano Mazzarò a vivere per accumulare beni, senza peraltro concedersi mai il piacere di goderne).

Ebbene Caillé contesta una tale spiegazione e, rifacendosi agli studi dell'antropologo M. Sahlins (Economia dell'età della pietra, Milano, 1980) egli afferma che la vera "società dell'abbondanza" non è quella moderna, caratterizzata da una rincorsa affannosa del principio di massimo piacere, ma lo è stata quella cui meno si penserebbe di primo acchito: la società paleolitica. Infatti, come osserva in proposito Mario Cenedese (su Frontiere, nr. 1, 1995), nelle società ad economia di caccia e raccolta, che non conoscono l'agricoltura oppure che la conoscono ma la rifiutano (in base a una scelta ben precisa: richiederebbe un super-lavoro non necessario e tale da sconvolgere gli equilibri interni) il tempo di lavoro medio si  aggira sempre intorno alle quattro ore giornaliere, calcolo del resto malagevole per la difficoltà di separare nettamente il tempo di lavoro dal tempo libero.

 

"Infatti - scrive Cenedese - negli ambienti tribali la maggior parte della giornata viene impiegata per dormire, giocare, chiacchierare o, a seconda dei periodi, per la celebrazione dei riti. Rispetto ai nostri standard, alla nostra capacità di usufruire di beni e servizi, il livello di vita può sembrare incomparabilmente basso."

 

E allora? Lasciamo la parola direttamente a Caillé:

 

"Tuttavia, è lecito parlare di abbondanza perché questa non ha alcun rapporto  semplice con la quantità dei beni posseduti e consumati. Essa è il risultato di un rapporto con ciò che si considera ed è istituito come bisogno.  Del fatto che queste società sappiano limitare i loro bisogni, la prova migliore è  che esse non si preoccupano affatto di accumulare o di accrescere la loro produzione. Se per caso diventano più produttive,  esse non aumentano la produzione ma il tempo dedicato agli ozi. Alcune di esse rifiutano poi di lanciarsi nell'avventura dell'agricoltura, spiegando che ciò richiede troppo lavoro (A. Caillé, Critica della ragione utilitaria, Torino, 1991, p. 64).

 

Di conseguenza, osserva Cenedese, sembrano avvalorate le tesi dell'economista Karl Polanyi,

 

"secondo cui la scarsità, lontana distanze stellari dall'essere secondo natura, è per converso istituita dall'economia di mercato come suo elemento costitutivo centrale, assieme all'incentivo rappresentato dal profitto."

 

Ora, la globalizzazione non è altro che l'esportazione forzata di questo modello economico-sociale basato sulla nevrosi dell'indigenza e, quindi, dell'accumulo illimitato di beni. Osserva Cenedese che nell'impostazione della dialettica Nord-Sud i termini di "sviluppo" e di "ritardo" hanno una data ben precisa: il 20 gennaio 1949. In quel giorno, il presidente statunitense Harry S. Truman tenne un celebre discorso al Congresso di Washington, in cui definiva gran parte del Pianeta "area sottosviluppata" e sosteneva che, per colmare tale ritardo,  occorreva puntare sullo sviluppo, "cioè un processo attraverso il quale, seguendo l'esperienza dell'occidente e imitandone i percorsi, un paese povero, quindi arretrato, poteva diventare ricco, cioè sviluppato, mediante la crescita economica e la modernizzazione socio-culturale. In breve, il messaggio era: Fate come noi." Ma l'esportazione del modello sviluppista ai paesi del Sud del Mondo doveva portare necessariamente con sé la distruzione non solo delle economie tribali tradizionali, ma anche delle culture spirituali che ne costituivano l'elemento coesivo fondamentale.

Scrive Caillé (op. cit., pp. 75-77):

 

"Ciò che la conquista coloniale distrugge non è l'economia. Ciò che essa distrugge sono i meccanismi sottili di produzione e riproduzione delle società tradizionali e i simbolismi attraverso i quali i loro membri davano un senso all'esistenza. Dopo l'annientamento dei loro punti di riferimento immaginari tradizionali, la sola via di uscita simbolica che resta loro aperta è quella dell'imitazione dei vincitori. Ma la soluzione mimetica crea altrettanti o anche più problemi di quanti non ne risolva. Più il desiderio porta all'imitazione dei dominatori e più vacilla ciò che contribuiva a nutrire il sentimento di una identità propria e permetteva di resistere. Il mercato, allorchè si estende più rapidamente della capacità del tessuto sociale di cicatrizzare le ferite che esso gli infligge,  genera catastrofi."

 

Continua Cenedese, riprendendo osservazioni dell'ecologista Wolgang Sachs:

 

"Per non parlare dei cosidedetti 'trapianti tecnologici', fondati sull'idea singolare che il sottosviluppo sia primariamente un problema 'tecnico': l'abbandono delle tecniche tradizionali a profitto di tecniche occidentali moderne approda sovente a un fallimento. (…) Le  tecniche tradizionali scompaiono, ma le nuove restano marginali. Esse non sono né ricreate, né gestite localmente, generano delle pratiche di produzione e di consumo estranee all'universo antico, determinano una disoccupazione supplementare. Tuttavia, la loro inadeguatezza alla situazione locale sarà trattata come un nuovo problema tecnico suscettibile di ricevere una nuova soluzione tecnica. A pieno titolo si può perciò considerare il massiccio ingresso del Terzo Mondo nell'universo tecnico occidentale come una forma di suicidio culturale. Per giunta, il divario tecnologico che oggi più che mai separa i paesi sviluppati da tutti gli altri è destinato ineluttabilmente ad aumentare."

 

Ecco, dunque, che l'idea sviluppista, enunciata formalmente nel discorso di Truman del 1949, ci si rivela oggi per quel che realmente era: una ideologia in cattiva fede, un mito artificialmente fabbricato per dare una giustificazione morale e materiale al crescente saccheggio planetario da parte dell'Impero, non senza un paternalistico auspicio di riduzione della forbice tra Nord e Sud, a patto di mettersi ciecamente nelle mani dei chirurghi del libero mercato; "Che imparino da noi!", ripeteva Reagan negli anni '80, e ripete Bush junior negli anni 2.000: ammirevoli esempi di stolidità e d'inossidabile arroganza culturale.

 

"Non è più possibile negarlo - scrive Sachs -: l'idea di tutti i Paesi del mondo in marcia su una strada comune non era che una chimera del dopoguerra. In realtà il mondo è diviso nella super-economia di una classe superiore e nell'economia povera di una classe inferiore di Paesi. Non è più possibile dire che tutti si muovono in uno spazio interdipendente: al contrario, la super-economia internazionale e l'economia povera del Sud del Mondo sono separate da un vero e proprio muro.[ E non è solo una metafora, ci permettiamo di aggiungere. Si pensi al muro che le autorità statunitensi stanno costruendo attraverso il deserto, da San Diego in California al Golfo del Messico, per tenere a bada i poveri dell'America Latina che cercano di entrare illegalmente negli U.S.A., e che il presidente Bush, nel maggio 2006, ha annunciato di voler far presidiare da reparti consistenti della Guardia Nazionale]. È passato tanto tempo da quando il Nord poteva essere considerato la locomotiva per la crescita del Sud. Un tempo ancora più lungo sembra trascorso da quando il Nord dipendeva da materie prime, da prodotti agricoli e da forza lavoro a basso costo, tutte cose che l'economia altamente tecnologizzata è in grado di sostituire con sempre maggiore facilità. Il Nord non ha più bisogno del Sud: prospera sull'esclusione del resto del mondo. Il mondo non si spacca più tra capitalismo e comunismo, ma tra economie lente e veloci." (Wolfgang Sachs, Economia dello sviluppo, Forlì, 1992, pp. 56-57).

 

Esiste ancora, almeno a livello teorico, una via d'uscita da questo apparente vicolo cieco? Cenedese ricorda che alcuni economisti "eretici" dell'ultima generazione, tra i quali Edward Goldsmith, cercano di familiarizzarci con l'idea (a prima vista alquanto insolita) che dovremmo incominciare a muoverci verso una società economicamente stabile o in stato stazionario, cioè verso un'economia a crescita zero, "società in cui l'investimento di capitale uguaglia il deprezzamento e le nascite uguagliano le morti".

Ebbene, alla luce di queste considerazioni ci sembra veramente fuor di luogo che gli antropologi, invece di studiare come e perché le varie culture si sono espresse in determinate forme, si preoccupino di ipostatizzare un modello unico di civiltà al quale ogni popolo naturalmente tenderebbe, se solo le circostanze ambientali non vi si opponessero.

Dobbiamo da ciò concludere che è la stessa cosa il fatto che una cultura sia in grado di elaborare opere spirituali o materiali  come la Divina Commedia o le piramidi di Gizah, mentre un'altra si limita alla caccia alle teste e al cannibalismo? Non è questo il punto e, comunque, la domanda è mal posta. Invece di paragonare le cose migliori di certe culture con le peggiori di altre, bisogna familiarizzarsi con l'idea che ogni popolo crea una propria cultura e che ciascuna cultura, nella misura in cui riesce a conservare un equilibrio sia interno che esterno (ambiente compreso), è di per sé una creazione dello spirito, dunque una civiltà; anche se non ha costruito i Propilei e il Partenone. Quanto a noi, siamo felici di poter vivere usufruendo delle molte cose buone che la civiltà occidentale moderna ha prodotto, ma ciò non significa che ci sentiamo i depositari di un modello privilegiato che tutti i popoli dovrebbero imitare. Davanti a un pastore Navajo che, quando è costretto dalla necessità ad abbattere un pino, si rivolge umilmente in preghiera al Signore degli Alberi per chiedere perdono di quella uccisione, non possiamo che sentirci molto, molto piccoli.