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Victoria Ocampo

di Stenio Solinas - 14/11/2007

Lanno in cui si

incontrarono, il

1928, Victoria

Ocampo era una

bella e ricca argentina

non ancora

quarantenne, sposata,

ma di fatto separata e con un unicio

grande amore ormai alle spalle, e Pierre

Drieu La Rochelle un brillante trentacinquenne

senza un lavoro fisso, al suo secondo

e già fallito matrimonio, molte avventure

sentimentali dietro di lui. Che cosa spingesse

l’una nelle braccia dell’altro, e viceversa,

non è facile dire: negli scrittori Victoria cercava

gli uomini, anche se pur sempre come

intesa di anime, più che di corpi; quanto a

Drieu, la sua attrazione era figlia di una prevenzione,

il fascino esercitato da una donna

intelligente, ovvero ai suoi occhi un controsenso

se non un elemento contronatura.

Come che sia, furono amanti, restarono amici,

si scrissero, viaggiarono insieme, polemizzarono

anche duramente, ma senza che

questo mai incidesse sulla stima e sull’affetto

reciproci. La Ocampo fu l’unica donna cui

La Rochelle lasciò scritte, in busta chiusa, le

ragioni del suo suicidio, e nel lungo tempo

che lei gli sopravvisse quel ricordo sentimentale

e intellettuale non venne mai meno,

il restare comunque fedele a chi era stato

sconfitto dalla politica e dalla Storia.

Adesso l’editore Bartillart pubblica questo

Drieu di Victoria Ocampo (151 pagine, 20

euri) che riprende lettere, telegrammi e testi

di e su Drieu da lei pubblicati in Argentina

nel quinto volume della sua autobiografia e

vi aggiunge una puntuale prefazione di

Julien Hervier, già curatore fra l’altro del

Diario 1939-1945 (il Mulino) dello scrittore:

l’insieme illumina di luce piena due figure

così particolari e un’epoca, il secondo decennio

fra le due guerre, così drammatica.

Un brano della Ocampo coglie abbastanza

bene il perché di quel rapporto, una sorta di

“come eravamo” malinconico e pudico:

“Eravamo entrambi perduti nella foresta di

una crudele epoca di transizione: perduti

nelle nostre solitudini; perduti, in modo

diverso, nel problema sessuale; perduti nella

nostra stessa vocazione religiosa priva di

fede; perduti nel nostro amore dell’assoluto

e delle verità assolute; mistici pagani privati

delle catacombe e di Dio. E questo su dei

percorsi così opposti che a prima vista non

facevano emergere che le nostre diversità”.

Ma chi era veramente Victoria Ocampo, al di

là dell’eco di un nome che oggi, escluso

qualche specialista, evoca pallide frequentazioni

letterarie fra le due sponde dell’Oceano

Atlantico, il nome di una rivista, Sur, e di un

collaboratore d’eccezione, Borges?

La più grande di sei figli, Victoria apparteneva

a una delle famiglie più facoltose e più

antiche dell’aristocrazia bairense. Fra i suoi

antenati c’era un paggio di Isabella di Castiglia,

un governatore del Perù, un candidato

alla presidenza della Repubblica argentina,

fra i suoi parenti lo scrittore Josè Hernandez,

l’autore del Martin Fierro, ovvero il poema

epico di una nazione. La sua casa modernista

sul Mar del Plata era stata costruita sul

modello di Gropius, quella di Buenos Aires

secondo i dettami dell’architetto Alberto Presbich,

allievo di Le Corbusier.

Ricchezze immense, dunque, al servizio di

una educazione squisitamente europea, l’idea

di un’Argentina appendice e insieme

avamposto del Vecchio Continente che

Drieu, ossessionato dalla decadenza di quest’ultimo,

non tarderà a rimproverargli: “Mi

avevi detto che l’Argentina era piena di vita,

di forza, eccetera. No, io non vi ho trovato

che la tua vita di donna e un certo fermento

in profondità che c’è anche a Parigi nei suoi

rigagnoli. C’è forza nel popolo argentino,

come in ogni popolo, ma questa forza è

imprigionata dallo schermo formato da La

Naciòn, dalla ‘Società’, dai circoli intellettuali

e da Sur e che non serve una causa

organica, ma quella della letteratura in

generale”.

Per una giovane bene di quell’Argentina primo

Novecento dove la donna sposata ha

ancora lo status giuridico di una minorenne e

deve sottostare all’autorità del marito, la strada

è apparentemente obbligata: un matrimonio

all’altezza del patrimonio, una vita di agi,

di lussi, di viaggi, la cura e l’educazione dei

figli. Ma se la Ocampo si sposa a ventidue

anni, nel 1912, con Luis Bernardo de Estrada

che conosce da quando è adolescente, già un

anno dopo l’unione non funziona più, lui

troppo geloso e brutale, il “mostro triste” che

considera le donne come puledre da domare

e da cavalcare, lei che ha seguito alla Sorbona

corsi su Dante e su Nietzsche, che è andata

al College de France ad ascoltare le lezioni

di Bergson... Vivranno sotto lo stesso tetto,

ma non nello stesso letto per circa un decennio,

poi, nel 1926 la legislazione argentina

consente alle donne sposate l’esercizio di

una professione e il poter disporre del proprio

denaro, e Victoria, che da quattro anni è

comunque andata a vivere da sola, ha intanto

cominciato a farsi un nome letterario e non si

è negata lo scandalo, più o meno soffocato,

di una relazione con Juliàn Martìnez, un

diplomatico ricco e playboy che vanta fra le

sue conquiste Coco Chanel. È ancora legata

a lui, anche se l’amore si è ormai spento ed è

rimasta della tenerezza, quando nell’estate

del 1928 incontra Drieu a Parigi.

Va detto che Victoria Ocampo ha una passione

per gli uomini d’ingegno e di fama, il che

può prestarsi all’equivoco di una sorta di ricca

collezionista di celebrità. È un errore che

farà il filosofo tedesco Hermann von Keyserling,

è un errore che farà il filosofo spagnolo

Ortega y Gasset: entrambi ne scambiano

l’entusiasmo, la passionalità, l’amore verso

ciò che dicono, scrivono e pensano, per un

qualcosa di fisico che lei invece non prova. È

un’epoca ancora in gran parte misogina,

dove l’uomo è abituato a essere ammirato e

si aspetta che la donna si conceda senza troppe

storie. Di qui incomprensioni, scambi di

accuse, rotture di rapporti.

Con Drieu, però, scatta qualcosa di diverso.

Certo, è misogino anche lui, e lo è al massimo

grado, ma in modo diverso dalla brutalità

e in fondo dalla volgarità di quei due illustri

pensatori: lo è con tenerezza e con rispetto,

quasi scusandosi. È un animo delicato che

capisce subito come dietro la maschera della

donna indipendente e a proprio agio in ogni

situazione, ci sia l’insicurezza e l’infelicità di

chi è costretta a recitare un ruolo, vorrebbe

lasciarsi andare, ma l’educazione, la società

glielo impediscono.

Victoria ha tutto quello che a Drieu piace, ma

anche tutto quello che Drieu detesta. Una

casa nell’VIII arrondissement, abiti di Chanel,

quadri di Picasso, Léger, Mirò alle pareti,

soggiorni al Savoy di Londra o al Normandy

di Deauville, e insomma quell’idea

del lusso, delle cose belle, della pigrizia e

dell’ozio che egli coltiva in modo quasi

maniacale e proprio perché non è alla portata

dei suoi mezzi. L’idea di farsi mantenere, di

essere un mantenuto da “mecenati femminili”

ne solletica da un lato l’orgoglio maschile,

e dall’altro gli ripugna perché proietta su

di sé l’ombra di un padre vanesio, fallito e

seduttore, incapace di amare e fonte di sofferenza

per sua madre.

Anche come tipo femminile Victoria è per

Drieu il concentrato di sentimenti contrastanti.

Fisicamente è alta, ben fatta, matura, e

questo si accorda con chi non si è mai innamorato

di fanciulle in fiore e non si è mai

visto nel ruolo del pigmalione-corruttore di

anime giovani e caste. E però stride con la

sua preferenza verso le donne antiintellettuali,

dirette, le uniche che egli possa sopportare

perché non lo obbligano a pensare, perchè

non invadono la sua intimità. Victoria è “tutto

quello che nell’altro sesso lui vuole ignorare”,

quell’elemento intellettuale che può

scuotere il suo senso di superiorità, che può

costringerlo a discutere, a rivedere una posizione,

a interrogarsi sulla bontà di una scelta.

È insomma il fascino che nasce da un pericolo,

laddove la passione per le donne semplici,

se non per le prostitute che nemmeno fanno

domande, è sotto il segno della sicurezza. Il

primo alla lunga è stressante, la seconda alla

lunga è noiosa.

E Victoria? Che cosa trova in Drieu Victoria?

È un intellettuale, ma non di quelli libreschi.

Ha una modernità che ne fa il termometro

culturale di quella Francia fra le due guerre,

in grado di cogliere la novità delle avanguardie,

ma anche spesso la loro sterilità. È aitante,

e il suo narcisismo masochista non riesce

a nascondere il coraggio fisico e una tensione

morale incapace di compromessi. Rispetto

alla media dei suoi confratelli, ha più buon

gusto, più pulizia, più charme, e ciò colpisce

chi, come lei, sotto questo aspetto ha poco da

imparare e molto da insegnare... Infine, nel

gioco psicologico, Drieu è uno che non si

nega e questo rende lo scambio più interessante

per una mente femminile... Come molte

donne Victoria vorrebbe salvarlo dal suo

lato nero, pessimista, malinconico, come

molte donne pensa e spera di dargli quella

fiducia nei propri mezzi in grado di condurlo

a grandi cose.

La distanza, le differenze di opinioni politiche,

la stanchezza che si insinua in ogni legame

sentimentale, allenteranno nel tempo i

rapporti, senza mai però reciderli. Negli anni

Trenta, un ciclo di conferenze in Argentina

organizzato dalla Ocampo sarà per Drieu

l’occasione per mettere a fuoco ideologie e

scelte di campo: “È stato lì che ho capito che

la vita del mnodo occidentale stava uscendo

dal suo torpore e che si apprestava ad essere

lacerata dal dilemma fascismo-comunismo.

Da quel momento, ho camminato rapidamente

verso la caduta in un destino politico”.

La summa di tutto questo sarà, nel

1943, L’uomo a cavallo, storia di un dittatore

boliviano che sogna l’unità del continente

latino-americano e la riconciliazione delle

classi sociali. Camilla, l’eroina del romanzo,

è in realtà Victoria Ocampo, e naturalmente

il loro è un amore destinato al fallimento.

“Sarebbe ora che tu capissi che le donne

sono anche esseri umani” gli aveva rimproverato

un giorno... Perché la Ocampo sapeva

che “nella sua maniera di amare la Francia

riconosco il suo modo di amare le donne che

gli ho spesso rimproverato e che era così

irritante, ma non meschino. Se Drieu è per

una politica che non ci piace, non lo è per

ragioni inconfessabili, basse o interessate.

Un giorno gli dissi: Tu sei Pietro, e su questa

pietra non costruirò la mia chiesa. Ma la

mia tenerezza gli resta fedele, incurabilmente

fedele”.