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L'eterno richiamo del nazionalismo: frutto avvelenato del moderno stato-nazione

di Francesco Lamendola - 16/11/2007

 

Desideriamo far precedere una riflessione sulle conseguenze dell'affermarsi di uno degli aspetti fondanti della modernità, l'avvento dello stato-nazione, da una pagine bella e drammatica del romanzo dello scrittore austriaco Alexander Lernet-Holenia Lo stendardo (Die Standarte, 1938). L'autore, nato a Vienna il 21 ottobre 1897 e morto nella stessa città il 3 luglio 1976, ha colto un momento decisivo decisivo del crollo dell'Impero asburgico nell'autunno del 1918: l'ammutinamento, represso nel sangue ma annunciatore del collasso definitivo, di un reggimento austro-ungarico composto da truppe di nazionalità slava, al quale era stato ordinato di attraversare un ponte di legno sul Danubio per portarsi a Belgrado, la capitale serba occupata tre anni prima e ora sul punto di venir liberata dall'armata del generale francese Franchet d'Esperey. Al di là del singolo episodio, Lernet-Holenia ha descritto il manifestarsi dell'ultima fase di quel fenomeno storico che inizia con la Rivoluzione francese e culmina col crollo degli Imperi russo, austro-ungarico e ottomano nella prima guerra mondiale: l'affermarsi del nuovo Stato-nazione in luogo del vecchio stato dinastico, multietnico e plurinazionale. (Abbiamo seguito la traduzione di Ervino Pocar eseguita nel 1938 per la collana Medusa della Casa editrice Mondadori e riproposta nel 1959 per I libri del pavone).

 

"Ce ne accorgemmo per il fatto che alle nostre spalle era cessato ad un tratto  il rimbombo dei tavoloni percossi. Ci fermammo anche noi  e con noi il seguito del colonnello  e del comandante della Divisione e, quel  che è strano, ci fermammo immediatamente, come se anche noi avessimo previsto di doverci fermare proprio in quel punto. Seguì un silenzio profondo, nel quale non si udiva se non il gorgoglio dell'acqua e il sibilo delle ventate.

"Ci voltammo indietro e vedemmo le file per quattro perfettamente immobili. Bottenlauben disse: «Be', che succede?»

"Il viso dei quattro cavalieri nella prima fila - un sottufficiale e tre soldati - e il viso del trombettiere che era al loro fianco avevano un'espressione singolare: il sottufficiale e il trombettiere ci guardavano quasi imbarazzati, mentre i tre soldati evitavano i nostri sguardi e parevano decisi a rimaner lì fermi e impassibili qualunque cosa avvenisse. Quelle facce da contadini slavi piuttosto piatte rivelavano una cosa sola, ma questa con molta chiarezza: che non volevano saperne di proseguire.

"«Dunque?»  gridò Bottenlauben. «Che cosa c'è?»

"Il grido fu ripetuto da qualche altro ufficiale. Nella lunga colonna ci furono alcuni ufficiali o sottufficiali che uscirono dalle file col loro cavallo gridando qualche cosa e ottenendo un mormorio di voci per risposta. «Avanti!» si gridava, ma nessuno si moveva. I reggimenti parevano inchiodati al suolo.

"Dall'altro ponte veniva soltanto il rumore dei carriaggi.

"«Ecco» fece Anschütz lasciando cadere le briglie sul collo del cavallo. «ci siamo.»

"«Che cosa c'è?» esclamò Bottenlauben.

"«C'è l'ammutinamento».

Bottenlauben non rispose subito, ma dopo un lungo istante trasse la sua lunga sciabola ricurva, voltò il cavallo e tornò indietro fino alla testa dello squadrone. Anche il colonnello e il comandante della Divisione col suo seguito avevano voltato i cavalli e, arrivati fino a noi, si fermarono alle nostre spalle.

"«Che succede?» domandò il generale.

"Nessuno rispose.

"Nelle mani di Heister, che assisteva assente a quella scena come se non lo riguardasse, sventolava lo stendardo.

"Bottenlauben avvicinò il cavallo a uno dei soldati della prima fila incastrandosi quasi nella fila stessa. Le froge del cavallo toccavano quasi i fianchi del soldato.

"«Avanti!» ordinò.

Ma quello non si mosse. Continuò a guardare indifferente davanti a sé, quantunque la vicinanza del capitano lo dovesse inquietare, poiché impallidì leggermente.

«Avanti!» gridò Bottenlauben, e fu quasi un urlo.

"Quello rimase immobile. Gli altri gli lanciarono invece rapide occhiate di traverso.

"Bottenlauben si rizzò allora sulle staffe, allungò il braccio quanto poté e batté la lama piatta con tutta la sua forza sull'elmetto del soldato. Si udì uno schianto sonoro, il soldato si accasciò sotto il colpo, mentre due terzi della lama spezzata volavano via sibilando e lampeggiando nell'aria.

"Seguì ancora qualche istante di silenzio, poi sorse dalle file un mormorio che diventò sempre più intenso condensandosi in un grido che si propagò per tutto il reggimento e probabilmente anche fra gli ulani che in parte erano ancora sulla riva, fino a diventare un ruggito come non ne avevo mai udito prima d'allora.

"L'urlo continuò facendo tremare l'aria, e dopo qualche secondo pareva che durasse da minuti e minuti senza accennare ad affievolirsi o a voler cessare.

"I soldati, pur non avendo il coraggio di uscire dalle formazioni e di abbandonare l'atteggiamento militare esteriore, urlavano con le facce stravolte come se avessero paura di ciò che facevano e volessero sopraffare con le grida la propria angoscia. Sconcertati noi li guardavamo. Pur avendo avuto qualche presentimento non avremmo mai supposto che sotto la superficie si fosse nascosta una cosa talmente lontana da noi e inconcepibile, una cosa così spaventevolmente diversa da ogni precedente. E ora avveniva lo sfogo come quando un gregge si libera d'una costrizione superiore che lo ha tenuto in freno; e quantunque i soldati non facessero veramente se non abbandonarsi all'urlo, tuttavia sembrava che insieme con quell'urlo essi perdessero tutto ciò che aveva fatto di loro un reggimento: cioè un mezzo potente pieno di significato e d'energia, un'unità investita di una missione storica, uno strumento della politica mondiale. Pareva che cadessero da loro elmetti e divise, galloni e aquile imperiali, pareva che cavalli e selle scomparissero non rimanendo altro che qualche centinaio di contadini polacchi, romeni o ruteni, i quali fossero incapaci di comprendere cosa volesse dire partecipare, sotto lo scettro della nazione tedesca, alla responsabilità del destino del mondo.

"Gli ufficiali che in mezzo a quel frastuono tentavano di parlare fra loro non si udivano più: non si vedevano altro che i movimenti delle loro labbra. I traini che passavano sull'altro ponte si fermarono in parte e i soldati ci stavano a guardare. Infine il comandante della Divisione fece squillare il segnale di attenti. Gli altri trombettieri sentirono il dovere di ripetere il segnale, sicché per qualche istante lo squillo delle trombe si mescolò alle grida avendo però alla fine il sopravvento. Cessato l'urlio subentrò di nuovo un silenzio in cui non si udivano se non il vento e il fiume.

"Gli ufficiali si guardarono l'un l'altro.

"«Bello, vero?» chiese Bottenlauben guardando il moncone della sciabola che teneva ancora in pugno. Con un rapido gesto lo buttò nell'acqua, mentre Giovanni che si era fermato in coda allo squadrone e, sguainata la sciabola, venne a porgerla al suo capitano.

"Bottenlauben lo guardò, gli fece un cenno amichevole e accettò l'arma.

"«Signor conte» disse Giovanni «costoro non vogliono proseguire a nessun costo.»

"«Ah, sì?» fece Bottenlauben. «Proprio a nessun costo?»

"«Dicono che se arrivano sull'altra sponda non ritorneranno più indietro. Laggiù, dicono, ci sono i Francesi, i quali ci farebbero tutti prigionieri. Devono averlo sentito dire dagli ussari.»

"Bottenlauben  si volse e guardò negli occhi il colonnello.  Questi, dopo un istante, spronò il cavallo e avanzando  lungo la colonna si fermò circa all'altezza del secondo plotone del nostro squadrone. Alzatosi poi sulle staffe esclamò: «Soldati!»

"La truppa volse il viso verso di lui.

«Chi vi ha dato l'ordine» gridò con voce potente «di fermarvi qui?»

"Dalla colonna salì un sordo mormorio.

"«Ebbene? Chi vi ha dato un ordine contrario al mio? Io ho comandato di marciare. Chi vi ha ordinato di fermarvi? Colui che l'ha fatto si annunci. Venga da me a dirmi che dato un contr'ordine e io lo terrò responsabile.»

"Seguì un silenzio perfetto.

"«Ebbene?» gridò il colonnello. Estrasse la pistola e l'alzò.

"Nessuno rispose.

"Il colonnello puntò la canna  della pistola sul petto di uno dei soldati  che erano vicini a lui. «Chi è stato il traditore» gridò «che ha ordinato a te di fermarti qui?»

"In quel momento noialtri ufficiali, compresi quelli dello Stato maggiore della Divisione, raggiungemmo il colonnello  al galoppo passando fra la truppa e il parapetto.  Antonio, che si era fermato in coda al primo plotone,  uscì dalla colonna e ad un tratto lo trovai al mio fianco. Egli gonfiò le gote come faceva quando accadeva qualche cosa di spiacevole, ma io non potevo badare a lui.

"«Vuoi rispondere, sì o no?»urlava il colonnello.

"Intorno sorse un brontolio minaccioso.  Il soldato era impallidito, e disse balbettando che nessuno aveva dato quell'ordine.

"«Perché, allora» domandò il colonnello «perché ti sei fermato?»

"Colui rispose nella sua lingua qualche altra cosa che non comprendemmo subito, dopo di che un altro si fece avanti. Era un pezzo d'uomo dal volto risoluto e dalle ciglia aggrottate, il quale disse a voce alta, in un tedesco approssimativo,, che non si poteva tenere responsabile il suo camerata.  Tutti, disse, si erano fermati, perché tutti insieme avevano deciso di non proseguire. Le sue parole furono accompagnate da un urlio generale.

"«Silenzio!» gridò Bottenlauben. Il vocio cessò e il soldato soggiunse che nessuno aveva detto personalmente che il reggimento  non doveva proseguire, ma tutto il reggimento di sua iniziativa non sarebbe passato sull'altra sponda. Era infatti stolto passar di là solamente per farsi prendere prigionieri. Laggiù la situazione era disperata, la truppa lo sapeva bene, e perciò tutti si erano messi d'accordo fino da Karanscebes stabilendo che avrebbero proseguito soltanto fino al ponte.  Nessuno intendeva cader prigioniero o farsi uccidere soltanto perché un ordine fosse ad ogni costo eseguito.

"Egli tenne questo discorso agitandosi sempre più, mentre intorno sorgeva  un coro di approvazioni. Il colonnello gli domandò se il reggimento aveva già dimenticato il giuramento prestato poche ore prima, e colui rispose che la truppa non si riteneva più legata al giuramento. Siccome non l'avevano prestato di loro volontà, il giuramento non aveva valore. D'altro canto non avevano giurato di eseguire ordini cervellotici.  Passare il fiume era agire da stolti. Bastava che il colonnello desse  un'occhiata all'altro ponte dove i traini facevano il cammino inverso. La cosa era abbastanza eloquente.

"Che il passaggio del fiume fosse una cosa stolta o saggia, ribatté il colonnello, non stava a colui giudicare, prescindendo dal fatto che un soldato non deve criticare gli ordini che riceve.

"Ma lui, obiettò l'altro, non era più un soldato, bensì un contadino ruteno, al quale tutto l'esercito tedesco e austriaco non importava un fico secco.

"A quelle parole il colonnello subì uno strano mutamento. Vecchio com'era e probabilmente anche malato, egli si afflosciò mentre il suo viso esprimeva ad un tempo ribrezzo e rinuncia. Ripose la pistola , come se avesse finito la sua parte, si rivolse al generale e disse nel tono indifferente dei rapporti di servizio: «Eccellenza, aspetto i suoi ordini».

"Seguì una pausa. Il generale rifletteva e ci guardava. Poi si chinò verso il suo aiutante e gli sussurrò qualche cosa. L'aiutante portò la mano al berretto e cavalcando fra la truppa e il parapetto partì verso la sponda ungherese. Noi lo seguimmo con lo sguardo. Antonio che mi era accanto si schiarì la gola,  si piegò verso di me e disse a voce piuttosto alta: «Ecco.»

"«Che c'è?» lo abbordai.

"«Ecco, signor alfiere, il guadagno che abbiamo trovandoci in questo reggimento. E tutto per la faccenda di quella donna a Belgrado.»

"«Silenzio!» sibilai. «Nel nostro reggimento  di prima sarebbe successo esattamente lo stesso».

"E, data l'espressione piuttosto vaga, non era detto a che cosa alludessi.

"Antonio scrollò le spalle.

"«Non scrollar le spalle!» lo sgridai. «Se credi di doverti ammutinare anche tu, bada che ti butto nel fiume. Non ci vorrà mica tanto.»

"Questa discussione però fu interrotta dal comandante della Divisione che  in quel momento esclamava: «Signor colonnello, dica alla truppa che, se non eseguisce gli ordini, farò sparare sul reggimento. Ho dato ordine al mio aiutante che il reggimento 'Royal Allemand' si tenga pronto.»

"Il colonnello guardò un istante il comandante, si volse di nuovo verso la truppa e aprì la bocca per parlare. Ma aveva appena detto  un paio di parole che un colpo di tosse gl'impedì di continuare. Egli si portò il fazzoletto alla bocca e, interrotto ancora dalla tosse, disse: «Conte Bottenlauben, lo dica lei».

"Bottenlauben si rizzò sulle staffe superando  tutti noi in altezza e gridò con tutta la sua voce: «Se il reggimento non proseguirà la marcia, Sua Eccellenza farà sparare sul reggimento.»

"Seguì prima un brontolio, poi un coro di grida frammisto a qualche risata.  Il portavoce di prima spinse il suo cavallo verso Bottenlauben e domandò:

"«Chi farà sparare?»

"«Sua Eccellenza» gridò Bottenlauben.

"«E chi sparerà?» domandò l'altro.

"«Coloro ai quali sarà ordinato.»

"«E chi sarebbero? Crede lei, signor capitano,  che nei quattro reggimenti si possa trovare uno solo disposto a sparare sui suoi camerati, o che ci sia qualcuno tra noi che abbia voglia di eseguire un ordine qualsiasi?»

"«Animale» urlò Bottenlauben «Bada di non avvicinarti di più con la tua lurida bestia, se non vuoi che succeda di peggio!». E così dicendo premette gli speroni nei fianchi del suo cavallo talmente che questo si alzò sulle zampe posteriori e piombò sull'altro buttando a terra cavallo e cavaliere. Avvenne allora un tumulto di cavalli che si sbandavano e di soldati che bestemmiavano. Bottenlauben, cui dall'indignazione pareva si rizzassero i peli della pelliccia, si fermò col cavallo a gambe larghe sopra il caduto.  Senonché in quell'istante l'attenzione di tutti fu sviata sopra un fatto nuovo.  Sulla riva, dalla quale eravamo venuti, una colonna di cavalleggeri avanzava al galoppo sopra l'argine verso l'altro ponte. Era il reggimento 'Royal Allemand' o perlomeno una parte di esso. Raggiunto il ponte, il reggimento lo imboccò al galoppo portando una certa confusione fra i traini che intanto si erano rimessi in moto. I carriaggi si fermarono, i cavalieri stessi si incagliarono in mezzo ai carri, ma tosto balzarono di sella e con i moschetti in pugno proseguirono sul ponte.  In breve si trovarono circa alla nostra altezza. Alcune centinaia di dragoni si allinearono lungo il parapetto appoggiando su questo i moschetti volti contro di noi, mentre sull'argine lo squadrone mitraglieri preparava le mitragliatrici.

"Questi movimenti che si svolsero in un baleno erano stati seguiti dalla nostra truppa quasi incredula, ma quando si vide sempre più chiaramente che il reggimento 'Royal Allemand' era veramente pronto a sparare eventualmente su noi, la truppa mandò un coro di urla indignate. Il comandante e i suoi ufficiali  galoppando lungo la colonna ripetevano ai soldati che le conseguenze erano lì, se non si decidevano a ubbidire immediatamente. C'erano ancora reggimenti  consci del  proprio dovere e, se la truppa non era disposta  a proseguire la marcia, non rimaneva altro che sparare.

"Nello stesso tempo veniva dalla riva un cavaliere del reggimento 'Royal Allemand' gridando alla truppa che i suoi compagni sapevano benissimo cosa volesse dire sparare contro camerati. L'avrebbero fatto, però, se la truppa continuava a mostrarsi renitente. Erano Tedeschi  e in ogni caso avrebbero obbedito agli ordini.  Su lui e sugli ufficiali che galoppavano lungo la colonna scese  una pioggia di maledizioni. A un certo punto  si formò un assembramento di cavalieri e si ebbe l'impressione  che il comandante della Divisione venisse aggredito.  In quell'istante egli deve aver dato il comando fatale.  Udimmo infatti improvvisamente lo squillo di una tromba. Era il segnale: «Fuoco!»

"Dopo un istante si scatenò l'inferno. Lungo tutto il parapetto del ponte dove era schierato il reggimento 'Royal Allemand' e anche lungo la riva, cominciò uno scoppiettio come quando si buttano nel fuoco rami d'abete verdi, e siccome gli spari erano diretti contro di noi, scoppi e schianti ci assordavano le orecchie. Una grandine urlante di proiettili si riversò sopra di noi e in un attimo tutta la nostra colonna interamente esposta al fuoco  si tramutò in un groviglio confuso,  nel quale dozzine e centinaia di uomini e cavalli  si torcevano sui tavoloni del ponte. Alcuni cavalieri scavalcarono così com'erano il parapetto e si buttarono nel fiume, altri balzarono di sella e tentarono di rispondere  al fuoco, altri incominciarono a sparare  stando a cavallo, mentre il galoppo tambureggiante di cavalli rimasti senza cavaliere faceva rintronare  il ponte in direzione di Belgrado.  Tutt'intorno, colpita da proiettili, l'acqua schizzava zampilli e spruzzi.

"Fin dai primi spari Heister incominciò a vacillare in sella. Il suo cavallo girò intorno a se stesso come una trottola, mentre egli si teneva aggrappato alla criniera. Lo stendardo schioccava in quell'uragano di piombo, e per un attimo ebbi l'impressione che non fosse Lott a porgermelo ma Hackenberg. Infatti i visi di entrambi scomparvero nello stesso momento: avevo appena afferrato l'asta rivestita di velluto, quando un colpo fece cadere da cavallo il caporale.

"Ma io quasi non me ne resi conto. Ora tenevo lo stendardo .Intorno a me le vite umane si disperdevano come pula al vento, ma io tenevo lo stendardo. Intorno a me c'era l'inferno, ma io tenevo lo stendardo. E tosto compresi che fin dal primo momento  in cui l'avevo visto ero stato sicuro che sarebbe toccato a me.  Lo ricevevo nello stesso istante in cui il reggimento, di cui esso era simbolo, aveva cessato di esistere, ma io tenevo in pugno lo stendardo!

""Mazeppa si impennò. Io alzai il braccio quanto mi fu possibile dimodoché lo stendardo sventolò sopra la testa di tutti, si distese schioccando e garrendo sopra morti e feriti, alla cui vista era avvezzo. Mazeppa si piegò sui garretti, si inclinò da un lato e cadde a terra. Una pallottola l'aveva colpito alla spalla.

"Io avevo estratto a tempo i piedi dalle staffe, rimasi a gambe larghe sopra il cavallo e guardai in giro.  Il ponte presentava un aspetto orribile. Era quasi vuoto. Quasi tutti i cavalieri erano a terra sulle tavole insanguinate.  Il cappellano ruteno cavalcava lungo gli squadroni mostrando il Crocifisso ai vivi e ai moribondi, sinché uno sparo atterrò anche il suo cavallo.

"In quell'istante mi trovai al fianco Antonio, il quale mi offrì Ussaro.

"Nel far ciò il suo viso era tranquillo. Egli mi presentò il cavallo con quel suo solito fare cerimonioso, come se fosse uno dei suoi compiti giornalieri, e quando io, dopo un secondo di riflessione,  mi decisi, non per me ma per lo stendardo, a prendere il cavallo e misi un piede in una staffa, egli si attaccò all'altra affinché la sella non si spostasse sul dorso del cavallo. Allora provai un infinito rispetto  per quel buon uomo, e gli perdonai tutte le stizze che mi aveva fatto prendere.  Nonostante le sue abitudini moleste e ridicole egli era uno  degli ultimi campioni di un tempo ormai passato.  Ma non potei abbandonarmi a questi pensieri.  Montato in sella vidi sventolare sopra i resti del reggimento  e anche sopra gli squadroni degli ulani  alcuni fazzoletti bianchi che i soldati tenevano alti  sulla punta delle spade: il reggimento si arrendeva.

""Il fuoco cessò immediatamente e l'eco degli ultimi spari  si perdette con enorme rimbombo lungo le mura dell'alta fortezza di Belgrado.

"Il ponte era coperto di uomini e cavalli morti e feriti. Di tutto il reggimento potevano essere rimasti da un capo all'altro del ponte  non più di centocinquanta uomini anch'essi in parte feriti o senza cavallo, mentre tra loro correvano cavalli senza cavaliere trascinando le briglie.

"Gli ufficiali e i sottufficiali che erano ancora vivi o pur essendo feriti riuscivano ancora a reggersi in piedi, si diedero a mandare avanti a piattonate i rimasti. Bottenlauben, digrignando i denti come poteva aver fatto Federico il Grande in quella battaglia in cui i suoi granatieri non volevano saperne di marciare, galoppava lungo il ponte urlando con una voce che dalla troppa fatica  aveva quasi perduto il suo timbro:«Avanti, avanti! Volete spicciarvi? O preferiti prenderne ancora?»

Il suo mantello era lacerato sulla schiena in tutta la sua larghezza evidentemente da un colpo di striscio, e macchiato di sangue. Anche il colonnello, sanguinando da due ferite e reggendosi in sella faticosamente, si mise tosto alla testa del reggimento. Tenendo lo stendardo io cavalcavo dietro di lui. Anche Anschütz, che aveva perduto il cavallo, mi raggiunse, Koch era ferito, Czartoryski caduto Di ogni squadrone era rimasto non più di un terzo. Vidi anche Giorgio ferito accanto a Fasi  che non si moveva più. Lo Stato Maggiore del comandante era composto soltanto di pochi cavalieri. Anche il primo  squadrone degli ulani era scompigliato e aveva sofferto molto sotto il fuoco. Klein sosteneva il colonnello,. Giovanni giaceva sotto un cavallo caduto.

"Il fuoco era durato al massimo un minuto o un minuto e mezzo, ma il reggimento non c'era più. I superstiti, dei quali si era infranta la resistenza, venivano spinti avanti con le spade sguainate. I feriti dovevano rimaner lì, per il momento.  Ora si trattava semplicemente di imporre quella volontà alla quale il reggimento aveva rifiutato obbedienza, e di portarlo sull'altra riva. Anche gli ulani, seguiti dai dragoni di Keith, si misero in moto e si avanzarono sul ponte. Due o tre trombe squillarono. Il reggimento 'Royal Allemand' sgombrò l'altro ponte e ritornò presso i suoi cavalli. un paio di morti e qualche cadavere di cavallo erano portati via dalla corrente.

"Klein ordinò a nome del colonnello di avanzare al passo.  Appoggiato sulla mia staffa, lo stendardo sventolava. Chi poteva reggersi in piedi si mise in moto.   E così, decimato, sanguinante,  parte in sella, parte a piedi, il reggimento seguì passo passo lo stendardo fino a Belgrado."

 

Una lettura superficiale di questo brano, o una conoscenza inadeguata della cornice storica, potrebbe indurre a pensare che l'episodio qui descritto sia stato semplicemente uno dei tanti casi di insubordinazione verificatisi durante la prima guerra mondiale. Sul fronte occidentale, nel 1917, a un dato momento furono 40.000 i soldati francesi che rimasero coinvolti in episodi simili, come è narrato nel libro dello storico Richard M. Watt, Chiamatelo tradimento, traduzione italiana Milano, Mursia, 1966; o nel celeberrimo film di Stanley Kubrick, Orizzonti di gloria, girato nel 1957 e superbamente interpretato da Kirk Douglas nei panni di un onesto capitano alle prese con le logiche spietate degli Stati Maggiori, per i quali i soldati sono semplice "carne da macello".

Invece, si tratta di ben altro.

Il fatto che il reggimento di cui si narra ne Lo stendardo temesse, dopo il crollo della Bulgaria, di essere tagliato fuori dalla cavalleria francese di Franchet d'Esperey e fatto prigioniero, proprio quando - ormai tutti lo sentivano - la guerra stava per finire da un momento all'altro, ha avuto certamente un peso non indifferente nell'indurre i soldati a decidere di non obbedire all'ordine di attraversare il ponte sul Danubio. Tuttavia, questo è in realtà solo un aspetto marginale della questione. Non bisogna scambiare l'effetto per la causa; e la vera causa dell'insubordinazione di quel reggimento di cavalleria risiedeva nel fatto che esso, composto com'era da Polacchi e Ruteni (Ucraini) della Galizia e della Bucovina, e da Romeni della Transilvania, non intendeva più esporsi a versare una sola goccia di sangue per una patria che non riconosceva più come tale: l'Impero austro-ungarico. Ciò che si era spezzato, in quei soldati, non era tanto il morale bellico, quanto il morale nazionale: il riconoscimento di un vincolo affettivo nei confronti del proprio Stato, basato su un codice condiviso di diritti e doveri, senza il quale i sacrifici che lo Stato richiede a un combattente, o anche a un semplice cittadino, appaiono illegittimi, perché basati sulla minaccia della pura forza.

Invece i soldati del reggimento 'Royal Allemand' si sentivano ancora vincolati da quel patto di fedeltà che, prima di essere giuridico, è etico, e ciò spiega il loro comportamento; ma tale comportamento, a sua volta, è spiegato dal fatto che si trattava di Tedeschi dell'Austria che, nel contesto dell'Impero asburgico, si sentivano - insieme ai Magiari dell'Ungheria - la stirpe egemone. Ben diverso rispetto a quello delle unità slave, infatti, in quegli stessi giorni, fu il comportamento dei reparti tedeschi e ungheresi  sul fronte italiano, durante la battaglia di Vittorio Veneto. Fino a che vi fu una possibilità di resistere, essi si batterono con estrema determinazione, quando già alle loro spalle lo Stato era piombato nel caos totale: ma, sul Piave, essi sentivano di difendere le frontiere della propria patria.

L'ammutinamento sul ponte di legno davanti a Belgrado riveste quindi un'importanza storica: esso segna il distacco definitivo delle culture nazionali d'Europa dalla fedeltà allo Stato plurinazionale - nel caso specifico, all'ultimo grande Stato plurinazionale sopravvissuto all'epoca dei nazionalismi esasperati: la duplice monarchia danubiana.

 

Gli Stati europei del Medio Evo erano monarchie dinastiche, compresi quelli destinati a divenire, nel corso di un processo plurisecolare, delle monarchie nazionali: Francia, Inghilterra, Spagna e Portogallo. In ciascuno di questi Stati (tranne il Portogallo, troppo piccolo), che pure erano quelli ove si andava lentamente profilando la coincidenza di Stato e nazione, esistevano delle grosse minoranze etniche, linguistiche e religiose; e ciò che teneva uniti i sudditi non erano la lingua o la cultura, ma la fedeltà dinastica.

Durante la Guerra dei Cent'Anni, vero banco di prova per la compattezza dello spirito nazionale francese, il duca di Borgogna regnava sopra uno Stato quasi altrettanto esteso del regno dei Valois; e, per tutta la durata del conflitto, rimase alleato del nemico esterno: l'Inglese. In pratica, è solo con la Rivoluzione francese che vengono distrutte le ultime autonomie regionali e inglobate le ultime enclaves extra-territoriali (ad es., Avignone, che era un possedimento della Chiesa di Roma), mentre l'ideologia del citoyen si sostiutuisce a quella del suddito. Il cittadino si identifica con la Repubblica e il suo sacro dovere è quello di portare avanti le frontiere sino a inglobare tutta la nazione. Paradossalmente sono proprio i Giacobini che strappano al Regno di Sardegna la Savoia e il Nizzardo, sancendo il diritto-dovere dello Stato-nazione di far coincidere le frontiere naturali con quelle etniche e linguistiche. Tanto è vero che alcuni storici (ma, a suo modo, già Victor Hugo nel romanzo Il Novantaré) vedono nella guerra della Convenzione contro la Vandea - che fu, oggi quasi tutti lo riconoscono, una autentica guerra di sterminio - una sorta di estrema guerra d'indipendenza della Bretagna celtica contro il governo centralizzatore di Parigi, deciso a sopprimere ogni autonomia e a omologare ogni differenza in nome dei "sacri" ideali repubblicani di liberté, fraternité, egalité.

Questa ideologia mise radici così forti che ancora alla fine degli anni '50 del Novecento il generale De Gaulle, e gran parte dei Francesi con lui, non pensavano agli Algerini come a un popolo in lotta per l'indipendenza, ma come a dei Francesi d'oltremare incomprensibilmente  recalcitranti al loro inevitabile destino di restare perpetuamente legati alla madrepatria europea. Ancora oggi, se si sommano le minoranze linguistiche dei Corsi, dei Bretoni, dei Provenzali, dei Franco-Provenzali, degli Alsaziani di lingua tedesca, per non parlare dei milioni di  immigrati maghrebini e africani, si scopre, non senza sorpresa, che i Francesi veri e propri sono una maggioranza stentata all'interno dello Stato francese.

In Spagna, come è noto, Catalani e Baschi si trovarono inglobati in uno Stato centralizzato e assolutistico che non sentirono mai come veramente loro; per non parlare degli Arabi e degli Ebrei che, dopo la reconquista, vennero convertiti a forza e infine espulsi o sterminati, in nome del sangre limpio, ossia del "sangue puro" castigliano. La prepotenza castigliana si spingeva fino al punto che solo i sudditi della Castiglia potevano aspirare alle cariche amministrative nell'immenso impero coloniale, nonché intrattenere commerci con esse; più precisamente, solo il porto di Siviglia era a ciò autorizzato.

In Gran Bretagna, la Scozia venne annessa dopo la morte di Maria Stuart, ma non accettò mai di essere una semplice provincia inglese; né il Galles e, soprattutto, l'Irlanda cattolica, che lottò disperatamente per conservare, se non l'indipendenza, almeno l'identità culturale. Fra parentesi, l'ultima città d'Europa dove ancora si vive a contatto quotidiano con l'odio etnico, i cui segni esteriori sono il filo spinato e l'esercito in assetto di guerra, non è Sarajevo o qualche altra semi-sconosciuta località balcanica, ma Belfast, capoluogo di quella polveriera permanente che è l'Ulster: una città dove gli orangisti anglosassoni sfilano ancora in assetto marziale, con pifferi e tamburi, attraverso i quartieri cattolici irlandesi, per rammentare a loro e a sé stessi i bei tempi del XVII secolo, in cui Cromwell li massacrava con lo stesso zelo che avrebbero mostrato gli Americani nel massacrare i gli Indiani delle Praterie.

In Europa centrale e orientale, il processo di formazione dello Stato nazione fu ancora più lento;  praticamente, esso si delineò solo nel XIX secolo. In Russia ciò avvenne sotto lo zar Alessandro I, dopo la vittoria su Napoleone e, forse più ancora, qualche decennio dopo, durante le guerre di conquista dei territori islamici del Caucaso e dell'Asia centrale, eventi che rafforzarono l'orgoglio nazionale russo e crearono le premesse per la nascita del panslavismo. In Germania, il fenomeno si compì solo dopo il "capolavoro" di Bismarck del 1866-70 e la rinascita del Reich. Fino a quella data, ad esempio, i Bavaresi cattolici non si sentivano affatto "chiamati" a formare uno Stato-nazione con la Prussia luterana e inclinavano, semmai, a una eventuale unione con l'Austria, che era - ricordiamolo - un Impero ove l'etnia tedesca costituiva meno di un terzo degli abitanti complessivi. Furono solo gli spettacolari successi militari di Bismarck che misero a tacere i particolarismi locali e accentuarono il carattere di Stato nazione della Germania. La Boemia,  durante il Medioevo, aveva fatto parte dell'Impero Germanico a dispetto della diversità di lingua e di cultura; ma già la guerra contro la Danimarca del 1864 era stata motivata da ragioni etniche, ossia con il "dovere" di riunire alla madrepatria i Tedeschi dello Schleswig-Holstein. Il terreno era maturo per la nascita del pangermanesimo; che, nelle province della Slesia, della Pomerania e della Prussia occidentale e orientale, abitate da forti minoranze polacche, assunse i toni di una esplicita germanizzazione; nonostante che le simpatie dell'opinione pubblica tedesca, durante le insurrezioni dei Polacchi contro i Russi nel corso del XIX secolo, fossero sempre andate ai primi e non certo ai secondi. Però si tenga presente che l'Impero degli Hohenzollern era comunque uno Stato federale e che i principi dei trenta e più Stati che lo componevano furono mandati in pensione solo dopo la disfatta del 1918.

Nei Balcani e nell'Impero Ottomano, infine, l'idea dello Stato-nazione si affermò solo ai primi del XX secolo e produsse, quasi contemporaneamente, la rivoluzione dei Giovani turchi nel 1908, e le feroci guerre balcaniche del 1912 e 1913. Non è forse un caso che proprio nel multietnico Impero ottomano la rivoluzione progressista e filo-occidentale dei Giovani turchi, che inizialmente ambiva a creare una moderna monarchia costituzionale e, forse, uno Stato federale, conobbe una rapidissima involuzione: tanto che i Giovani turchi, una volta andati al potere, pianificarono ed eseguirono il primo genocidio in grande stile della storia moderna: quello degli Armeni, nel 1915-16. Nello Stato-nazione che essi avevano in mente, non c'era posto per le minoranze, specialmente se esse professavano un'altra religione (gli Armeni erano cristiani) e se erano accusate di parteggiare per il nemico (cioè per l'Intesa, durante la prima guerra mondiale). Gli zelanti esecutori del genocidio furono, in gran parte, i Curdi dell'Anatolia orientale; i quali, più tardi, ricevettero il meritato compenso per quanto avevano fatto: subirono cioè una durissima repressione antinazionale che non è ancora terminata e che si è spinta fino al punto di considerare un reato da codice penale il fatto di parlare a voce alta nella propria lingua materna. Mentre si regolavano in tal modo con le minoranze, i Giovani turchi sognavano di riunire tutti i popoli turchi dell'Asia centrale, fino al Turkestan, entro i confini di un rinnovato Impero turco a carattere puramente etnico; e tali furono gli ambiziosi piani panturaniani di Enver Pascià e dei suoi colleghi Talaat e Gemal, ossia del  triumvirato che regnava de facto a Costantinopoli dietro il paravento dell'ultimo, debole sultano, fino al disastro del 1918.

Quanto ai Balcani, le guerre "nazionali" iniziate nel 1912 e proseguite nel 1913 per la spartizione del bottino (con la Bulgaria soccombente sotto l'attacco concentrico dei suoi vicini), praticamente non sono mai finite. Le vicende del 1914-1918 e del 1939-45, che in quella parte d'Europa hanno avuto carattere assai marcato di guerra civile ove tutti combattevano contro tutti, ne sono state una prosecuzione, così come quelle successive alla disintegrazione della Repubblica jugoslava dopo la morte del maresciallo Tito, fra il 1991 (distacco della Slovenia e della Croazia) e il 1999 (intervento statunitense e della NATO contro la Serbia di Milosevic, con il pretesto della questione del Kosovo), passando attraverso la tragedia della Bosnia-Erzegovina a metà degli anni '90 del Novecento, con tanto di pulizia etnica e di stragi sistematiche delle minoranze.

 

A quasi novant'anni dall'ammutinamento del reggimento austro-unagrico sul Danubio descritto da Alexander Lernet-Holenia e dalla dissoluzione dell'Impero asburgico, è giusto fare un bilancio di quanto ha prodotto nella storia moderna l'idea dello Stato-nazione. Grazie ad essa, popoli che avevano convissuto pacificamente per secoli in regioni etnicamente miste, oltre che economicamente complementari, sono stati divisi da frontiere artificiali e si sono convinti di non poter coesistere all'interno delle medesime frontiere. Non solo la prima guerra mondiale, con l'eccidio di Sarajevo il 28 giugno del 1914, ma anche la seconda, con la questione dei Sudeti prima, di Danzica poi, hanno avuto origine da tali premesse (benché entrambe, senza dubbio, si siano  alimentate anche di altre cause, lontane e vicine, prime fra tutte quelle di natura economico-finanziaria).

Non parliamo di quali drammi e di quali gravissime tensioni internazionali abbia causato, e continui tuttora a causare, la politica dei sionisti che, seguendo le idee di Theodor Herzl (ma non - è bene ricordarlo - di altri autorevoli esponenti della cultura e della religione ebraica moderne) vollero ricostituire un focolare nazionale in Palestina, sfruttando la dichiarazione Balfour durante la prima guerra mondiale e, poi,  facendosi forti del genocidio subito dagli Ebrei d'Europa durante la seconda guerra mondiale. Le conseguenze di quella decisione - lo sradicamento del popolo palestinese, la costante instabilità politica dell'intera regione, le intromissioni delle superpotenze - sono storia di oggi.

Se poi allarghiamo lo sguardo dall'Europa al mondo, ovunque vedremo che l'affermarsi dello Stato-nazione produce gli stessi meccanismi e i medesimi effetti. Da quando il Tibet è solo una provincia cinese, per fare un esempio, la soluzione adottata dal governo di Pechino è stata quella di far sì che i Tibetani diventassero una minoranza in casa propria, sfruttando la fuga all'estero di molti di essi e procedendo a una massiccia politica di immigrazione dalle province di etnia han. Così, nel giro di una o al massimo due generazioni, non vi sarà più alcuna imbarazzante "questione tibetana", per il semplice fato che in Tibet non vi saranno altro che Cinesi.

 

Quali conclusioni trarre dalla parabola dello Stato-nazione, dal 1792 ad oggi, alla luce di tante tragedie sanguinose, culminate nel genocidio degli Armeni fra il 1915 e il 1922 (perché vi fu una terribile recrudescenza durante  la guerra greco-turca sotto il "buon" Kemal Ataürk, che completò l'opera del "cattivo" Enver Pascià), e in quello degli Ebrei fra il 1940 e il 1945?

L'idea di Stato-nazione è qualche cosa di più del semplice nazionalismo: è una convergenza di nazionalismo e statalismo o, per meglio dire, di nazionalismo assoluto e di statalismo assoluto, che si sorreggono e si giustificano a vicenda. Gli orrori che sono stati commessi in nome di questa ideologia, e che si continuano a commettere (dal Kordofan alle Filippine), sia da parte degli Stati sia da parte dei gruppi minoritari in lotta per l'indipendenza e per creare l'agognato Stato-nazione (fucina di nuove persecuzioni, e così avanti ad infinitum) si commentano da sé.

Resta da vedere con che cosa si potrebbe o si dovrebbe sostituire a una tale ideologia.

È chiaro che, su scala mondiale, i poteri che veramente contano non coincidono affatto con lo Stato nazione. Gli interessi delle banche, del Fondo Monetario Internazionale e delle società multinazionali si muovono su una prospettiva planetaria, ma non disdegnano affatto di servirsi dei conflitti e delle tensioni innescate dai nazionalismi contrapposti, per meglio governare i processi decisionali globali. Gli Stati Uniti d'America, unica super-potenza oggi rimasta sulla ribalta della storia, dopo le due guerre mondiali e la "guerra fredda", non sono uno Stato-nazione nel senso classico della parola e sempre meno lo saranno in futuro, a misura che la crescita demografica delle minoranze interne, e specialmente degli ispanici e degli asiatici, unita all'immigrazione, legale e clandestina, relegherà la componente W.A.S.P. (White, Anglo-Saxon, Protestant) al ruolo di minoranza. Essi hanno tuttavia elaborato una ideologia di Stato-nazione, tanto da essersi presentati, fin dai tempi della "dottrina Monroe" (1821), e ancor più nell'epoca di Theodor Roosevelt (ad es. con la guerra ispano-americana, 1898) come grande potenza democratica e liberale, e cercando di far dimenticare a se stessi e al resto del mondo la fortissima componente imperialista insita nella loro democrazia (simile, per molti aspetti, a quella dell'Atene di Pericle al tempo della guerra del Peloponneso).

Nel caso degli Stati Uniti, lo Stato-nazione assume connotati vagamente religiosi se non addirittura mistici, specialmente dopo che la teoria della "guerra infinita" contro il terrorismo, cioè contro il Male, ha accreditato i suoi governanti come i custodi non solo dell'ordine mondiale (disinteressati, naturalmente), ma anche del Bene assoluto. E ciò nonostante che, nel 1970, il tentativo dei pochi discendenti dei nativi d'America di riprendersi, simbolicamente, il villaggio di Wounded Knee (dove nel 1890 si consumò l'ultimo e più efferato episodio del loro genocidio da parte dei bianchi) sia stato represso con l'intervento dei carri armati dell'esercito: episodio che, ancor più che la guerra del Vietnam o altri fatti di politica estera, avrebbe dovuto aprire gli occhi a quanti ancora vedono nella superpotenza americana, nonostante tutto, l'ultima garanzia di un mondo libero e di una efficace difesa della democrazia internazionale.

Tornando all'Europa, da qualche anno si avverte una sorta di vaga nostalgia, se non dello scomparso Impero austro-ungarico, certo della sua capacità di mediare e contemperare le esigenze di dieci popoli diversi in una zona strategicamente ed economicamente importantissima del continente, per non parlare della sua peculiarità culturale. Nonostante che la dissoluzione dell'Unione Sovietica, della Cecoslovacchia e della Jugoslavia abbia ridato fiato ai micronazionalismi, specialmente balcanici, e nonostante che un ritorno ai grandi Stati multinazionali appaia impossibile (quando perfino i piccoli stentano a rimanere uniti, come nel caso del Belgio), si sta diffondendo, specie nella zona cosiddetta dell'Alpe Adria, la consapevolezza che non tutta l'eredità storica dei secoli passati è da gettare nel cestino della carta straccia, e che molte cose valide di quel passato debbono essere recuperate, specialmente in chiave di federalismo e di superamento delle barriere nazionali, di libera circolazione delle persone