I l viaggio in un territorio inesplorato come resoconto di un’intera vita: il viaggio che l’ha trasformata, diventando il simbolo di una scrittura e di un destino. È questo il senso profondo di un libro che viene pubblicato trentacinque anni dopo il viaggio che racconta: Viaggio in America dell’«incantatore » Chateaubriand, uscito in edizione originale nel 1827 e ora tradotto in italiano, narra l’esperienza nell’America del Nord che il suo autore fece nel 1791, in piena Rivoluzione francese, quando ancora il continente americano era il simbolo di un progetto di libertà, anche se paradossalmente fondato sulla schiavitù di un altro continente, l’Africa. Partito col proposito di trovare il mitico passaggio a Nord-Ovest per raggiungere l’Asia, il viaggiatore-scrittore tornò molto presto alla sua Francia devastata dalla violenza, per un urgente senso del dovere. Ma dal grande serbatoio di memorie e immaginazioni che quel viaggio rappresentò attinse il materiale per altre tre opere, tutte uscite in precedenza: Les Natchez, Atala, e il racconto autobiografico René. Il fatto che abbia deciso di pubblicare molti anni dopo la vera fonte di tutte quelle riflessioni e invenzioni le dà il sapore di un testamento spirituale: Chateaubriand si sarebbe spento nel 1848, ma già nel 1827 la sua carriera si era così ben delineata da farne presagire l’evoluzione. Dopo gli importanti incarichi ricevuti da Napoleone e il nuovo cursus honorum al servizio dei «restaurati» Borboni, Chateaubriand si ritirò dall’attività pubblica nel 1830, perché non accettò mai come re Luigi Filippo d’Orléans. Raccontò poi con ampio respiro le grandi trasformazioni della Francia tra Settecento e Ottocento filtrate dal punto di vista della sua esperienza personale nell’ultimo libro, Memorie d’oltretomba, uscito postumo nel 1849. Forse questo Viaggio in America, come si diceva, è un’anticipazione dell’ultimo memoriale: un libro in cui l’autore «non può nascondersi dietro espedienti letterari», come osserva nell’incisiva Introduzione la curatrice Ada Corneri. Un libro che non è un romanzo, ma in cui l’essenza di Chateaubriand narratore emerge fondendosi con quella del saggista de Il genio del cristianesimo, che esalta quanto di sorgivo e connaturato con lo spirito occidentale si può riconoscere nella religione d’Europa. In apparenza oggettivo e misurato, il racconto è in realtà sorprendente e a tratti fiabesco, perché si nutre della sorpresa stessa dell’autore. Si leggono con estremo piacere e divertimento le pagine sulla natura e sugli animali, di cui il più lungo capitolo è dedicato ai castori, considerati una specie di meraviglia della natura, perché con la loro maestria nelle costruzioni costringono ad «ammirare Colui che insegnò a un povero animaletto l’arte degli architetti di Babilonia». Descrizioni dinamiche e poetiche si alternano, come quella della caccia condotta in società fra le volpi e il «carcajou», definito «una specie di tigre o di grosso gatto», cioè il ghiottone, e quella degli «uccellini canterini come le nostre capinere ». Accanto alla maestà emozionante della natura c’è il mondo degli uomini, i cosiddetti «selvaggi », che nonostante la definizione Chateaubriand analizza con grande rispetto. Pur senza raggiungere la profondità di analisi e l’ampiezza di sintesi di Tocqueville nel suo La democrazia in America, a sua volta osserva acutamente che presso le società dei selvaggi, che non vanno confuse con lo «stato di natura», si possono vedere «tutti i tipi di governo conosciuti dai popoli civilizzati » e fenomeni di formazione delle leggi e della coscienza civile probabilmente uguali a quelli dell’antica Grecia. Se la religione dei popoli che ha conosciuto e apprezzato, come i Seminole e i Sioux, i Cherokee e i Creek, è molto diversa da quella che professa, tuttavia vi scopre un punto di contatto fondamentale nel rispetto della natura, sostegno della vita e maestra di civiltà, a cominciare proprio dall’enorme rispetto tributato ai castori. François Auguste René de Chateaubriand VIAGGIO IN AMERICA Pintore. Pagine 352. Euro 20,00
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