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Kurdistan e Kosovo: il doppio standard dell'Occidente

di Ennio Remondino - 19/11/2007





 

Nel giro di pochi giorni, dal Kurdistan iracheno al Kosovo albanese. Un bel salto, non fosse altro che per il clima. Sola cosa in comune che viene in mente è la K dei nomi. Oppure, riferendosi al cronista che viaggia, la vocazione ai posti di “sfiga”. In realtà, con un minimo d'attenzione è possibile scoprire molte similitudini che mettono assieme il racconto.

Erbil, per esempio, è la capitale dello stato curdo indipendente che ufficialmente non c'è, mentre Pristina è la capitale dello stato kosovaro albanese che ufficialmente non c'è ancora. Erbil vive quotidianamente la guerra del terrorismo arabo che viene da Baghdad e la minaccia turca che preme sui confini nord. A Pristina oggi si celebrano le elezioni che daranno il via ufficiale alla guerra albanese contro i serbi rimasti, seminata dall'imbecillità internazionale. A smentire la facile accusa di antiamericanismo, vorrei precisare che quando parlo di “imbecillità internazionale” non intendo necessariamente e soltanto Bush junior, cui dobbiamo senza dubbio alcuno la catastrofe Iraq. Per il Kosovo, a dimostrare che non sono prevenuto, il nome che si impone è quello di Clinton Bill, il predecessore di Hillary. Non a caso abito un albergo in “Bulevar Clinton”, accanto alla pizzeria “Hillary”.

Ad Erbil, uno sente scorrere sotto i piedi la storia assieme al petrolio: Erbil o Arbil, se scegli la pronuncia araba, o Hawler in curdo. Nel vecchio testamento compare col nome di Arbira, mentre Gesù, passando dal sumero all'aramaico, l'avrebbe chiamata Obilm. La cittadella che domina l'accozzaglia di costruzioni pre e post moderne che fanno l'urbanistica diffusa della Mesopotamia, hanno iniziato a costruirla circa 8 mila anni fa, prima che i faraoni schiacciassero i loro schiavi sotto i massi delle piramidi. Erbil ti offre la modernità d'importazione dei blocchi di cemento anti auto-bomba attorno ad ogni presidio governativo od occidentale, assieme agli affollatissimi bazar dove la politica, anche questo prodotto d'importazione, torna alle origini delle appartenenze tribali. Tappeti di fabbricazione industriale dove compare il leader curdo Barzani. A Suleymania invece, per l'arredo va di moda soltanto Talabani. Balzani o Talabani, o le antiche tribù feudali alleate con l'uno o con l'altro, ad andamento variabile.

In questo scenario, anche la parola “democrazia” con cui le diplomazie si riempiono la bocca, deve essere tradotta. Grazie all'interessata mediazione americana prima e dopo la guerra a Saddam, a Barzani è toccato il governo locale della “Regione del Kurdistan iracheno”, di cui è presidente. A Talabani, il signore di Suleymania e dei territori ai confini con l'Iran, la presidenza di tutto l'Iraq, facendo finta che lo stesso esista ancora come Stato unitario. Ora Barzani, messo alle strette dai padroni americani, ha dichiarato le sedi politiche del Pkk illegali. Le ho visitate ed erano semplici botteghe da bazar. Non più scrivanie e scritte fuori, ma per il suk, ovunque in kurdistan, il sostegno popolare di chi li considera i patrioti della prima ora, prima contro Saddam e ora a favore dei milioni di curdi in Turchia. Il presidente Talabani, da Baghdad, costretto a sua volta ad annuire agli ordini americani, nei suoi territori i ribelli del Pkk li mimetizza tra i Peshmerga delle sue milizie personali. Sulla questione petrolio, gli specialisti ci dicono che lì sotto ce n'è di più di quello che calpestano le babbucce dorate degli sceicchi sauditi. Basterebbe bucare e prenderlo.

A Pristina, in questo “parallelo divergente” tra Kurdistan e Kosovo, il solo monumento che mi viene in mente è l'Hotel Grand, come si chiamava alla serba. Oggi hanno cambiato padroni e la disposizione delle insegne: Gran Hotel, con le stesse generose quattro stelle e gli stessi quattro scarafaggi a farti compagnia. Tirato su di corsa negli anni '60 per la visita di Tito, l'Hotel Grand, come era è rimasto. Forse per la storia. Sempre per la storia ed il riguardo dovuto al grande leader jugoslavo, Tito trovò allora una scusa per non metterci piede. In Kosovo, inutile precisarlo, il petrolio non c'è. La sola ricchezza che vedi scorrere a fiumi da queste parti sono i miliardi in euro e dollari che escono dalle tasche degli “aiuti internazionali”, anche dalle nostre tasche, per finire in quelle dei politici locali, dei clienti dei politici locali, delle mafie locali, dei soccorritori internazionali in loco.

Ad Erbil ho avuto occasione d'incontrare Osman Ocalan, il fratello del mitico Apo, padre della rivolta armata curda del Pkk cui stanno dando tutti la caccia. Incontro semi clandestino fatto di percorsi irrintracciabili tra le montagne e di kalashnikof attorno. Osman Ocalan teme per la vita di Apo, detenuto nell'Alcatraz turco in mezzo al mar di Marmara. Osman, che il Pkk l'ha abbandonato per dissensi politici dopo 18 anni di vita tra le montagne, racconta dell'attuale accordo tra sciiti e curdi, l'alleanza di fatto che ancora tiene in piedi la finzione dell'Iraq unitario. Altro che George e Condoleeza. Ocalan spiega che la Turchia, con i suoi militari schierati in forze al confine, cerca di far migrare i ribelli Pkk verso l'Iran, esportando destabilizzazione in quel paese, nella speranza di indebolire assieme guerriglia, Iraq e il fantasma di uno stato curdo indipendente.

Qui a Pristina, alla prova del voto, nessuno tra i politici locali chiamati sulla piazza dei comizi di chiusura ha posto un solo dubbio sull'ormai prossima indipendenza. “L'ha promessa Clinton, l'ha confermata Bush e il mondo ce la deve dare”, è la sintesi condivisa da tutti, con l'aggiunta popolare del “vadano a farsi fottere i serbi”. I soli 80 mila che ancora resistono. Pace e prosperità per dopodomani, è la promessa universale. Le milizie mascherate con le vecchie divise Uck che compaiono sulle strade isolate della Drenica, sono televisivamente trasparanti qui. Gli scontri armati con dieci morti, giorni addietro, tra indipendentisti albanesi di Tetovo e forze governative della confinante Macedonia, sono cronaca locale a fondo pagina. Anche le contorsioni dei Serbi di Bosnia o quelle dei serbo-kosovari che resistono a Kosovska Mitrovica o attorno ai monasteri ortodossi di Decani e Gračanica, sono ufficialmente irrilevanti. Il contesto internazionale, civile o militare che sia, continua nel suo ruolo istituzione delle scimmiette: le tre che a comando non vedono, non sentono, non dicono.

Chi parla molto è invece Bexhet Pacoli che per noi italiani è soltanto l'ex marito della cantante Anna Oxa. Imprenditore d'avventura in Svizzera, dopo aver accudito gli interessi dello Zar russo Ieltzin e della sua vorace famiglia, col miliardo di euro di patrimonio personale vantato pubblicamente, Pacoli si fa politico nella terra d'origine e promette la ricchezza prossima futura ad ogni kosovaro elettore. Settantamila posti di lavoro subito, ma nelle sue imprese di costruzioni in Tajkistan. Pace scontata (dopo), democrazia scontata (dopo), benessere e soldi per tutti, soprattutto per quel settanta per cento di gioventù che qui è disoccupata. Anche questo, dopo. Dopo la sua elezione ovviamente. Dopo tanto viaggiare, sento finalmente odore di casa.