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Dio, popolo e Stato. Il mondo greco romano ne limitava l´importanza. Poi vennero le rivoluzioni...

di Carlo Galli - 20/11/2007



Sono solo una parte della città. Sono gli artigiani i contadini, i commercianti: i molti non ricchi, non nobili che si contrappongono ai pochi ricchi
Il mondo greco romano ne limitava l´importanza. Poi vennero le rivoluzioni...

Nelle costituzioni il termine "popolo" serve a conferire il massimo pathos agli enunciati normativi e organizzativi. Basti pensare, tra i molti esempi possibili, all´attribuzione della sovranità al popolo nell´art. 1 della nostra Carta costituzionale. Popolo è infatti sinonimo di "tutti i cittadini", tutti i membri del gruppo che può sensatamente dire "noi"; quando il popolo parla - nel momento costituente, in cui gli ordinamenti vengono creati - la sua parola è l´ultima e decisiva; e in seguito quando un´autorità, un potere costituito, parla, lo fa in nome del popolo: è questa la formula tipica, ad esempio, dell´amministrazione della giustizia.
Eppure, questa coincidenza fra popolo e politica, è del tutto moderna, e, per di più, non è per nulla semplice e lineare. Nel mondo greco e romano "popolo" è una parola e una realtà ben presente; ma il demos e il populus, non sono, in quei contesti, il Tutto, l´insieme dei cittadini; sono anzi una parte della città, e nemmeno la più importante. Sono gli artigiani, i contadini, i commercianti: ossia i molti non-ricchi, non-nobili, che si contrappongono ai pochi ricchi e ben nati, alle élite di nascita e di censo che detengono il potere. La storia delle città antiche in Grecia e in Roma è la storia delle lotte per il potere politico fra aristocratici e democratici, fra patrizi e plebei; assai vario è stato l´esito di questi conflitti, e molteplici le forme di equilibrio raggiunte, nelle diverse esperienze di repubbliche oligarchiche e popolari. A Roma, ad esempio, al popolo è attribuita la potestas - il potere nella sua forma originaria - ma agli aristocratici, al Senato, l´auctoritas, le risorse simboliche e istituzionali della legittimità. A volte l´equilibrio fra popolo e nobili è stato garantito da un terzo, da un dittatore che, provenendo spesso da una famiglia aristocratica, ha abbracciato la parte popolare per ambizione di potere (il caso celeberrimo è Cesare); più frequentemente l´equilibrio, o almeno la convivenza fra patrizi e plebei, si è sviluppata sotto la protezione di un re o di un imperatore. Anche l´età medievale vede il popolo come una "parte" fra le molte che compongono un universo politico complesso, articolato attraverso distinzioni e sovrapposizioni fra poteri politici e militari (imperatori, re, feudatari) e religiosi (papi, vescovi, abbazie), e attraverso gerarchie di ogni tipo. Solo nelle città italiane - nei Comuni - si creano condizioni economiche tanto dinamiche che il popolo prende il potere, contro le tradizionali élite politiche e religiose: è un "popolo" di artigiani e commercianti, a tal punto articolato e sviluppato che non tarda a conoscere al proprio interno divisioni anche profonde (il popolo grasso e il popolo magro, a Firenze) e che tuttavia può giungere (con Marsilio da Padova) a presentarsi come l´insieme dei cittadini uguali tra loro, come un Tutto a cui spetta il sommo potere. Ma anche la libertà di questo popolo è sempre minacciata dalle élite che lo vogliono ridurre a "parte" della città, e per di più a una parte sottomessa: è questo il contesto conflittuale al cui interno riflette Machiavelli.
Nella prima età moderna il popolo è una parte subordinata dello Stato, è l´insieme dei sudditi del re. Ma se lo Stato moderno non nasce popolare, lo diventa grazie alle rivoluzioni a cui le parti più ricche, colte e dinamiche del popolo - i borghesi - sono costrette a ricorrere per superare le resistenze regie, nobiliari e religiose alla condivisione del potere. Nella rivoluzione inglese del 1688-´89 il popolo (rappresentato in parlamento) affianca il re, in quella francese di un secolo dopo il popolo - con il nome di battaglia di Nazione - lo sostituisce completamente quale fondamento dell´unità e della legittimità della vita politica. Particolarmente in quest´ultimo caso, e in modi differenti nel caso dell´indipendenza delle colonie americane dalla madrepatria inglese, il popolo nel farsi Tutto proclama con enfasi l´uguaglianza di tutti i suoi membri, di tutti i cittadini, con esclusione di ogni gerarchia celeste e terrena. Anzi, il popolo non solo scalza il Re nel vertice (e nel fondamento) del potere, ma si sovrappone quasi a Dio grazie alla grande cultura romantica europea, che ne fa un´entità storica pre-razionale, un serbatoio di ogni vitalità e di ogni energia politica, trasformandolo in comunità organica, in radici che sono anche un destino. Il popolo-nazione della rivoluzione diventa un idolo nazionalistico, un´unità di uguali al proprio interno, gelosa della propria differenza da altri popoli all´esterno.
Ma non è solo la divinizzazione romantica a determinare il permanente ruolo politico del popolo, che è ben evidente anche in contesti lontani dalla mistica del Volk; è infatti chiaro che a proclamarsi popolo, a pretendere il monopolio della legittimità e dell´esercizio della politica non fu, in seguito alle rivoluzioni borghesi, il popolo inteso come tutti i cittadini dello Stato, ma solo alcune parti, alcune élite più o meno esigue; e che anzi dalla cittadinanza la gran parte del popolo rimaneva esclusa di fatto, se non di diritto. Ecco allora che, nel corso dell´Ottocento, le correnti ideologiche antiborghesi e antiliberali, quelle cristiane, quelle democratiche e quelle socialiste - i cui eponimi sono Lamennais, Mazzini, Proudhon e Marx - si impadroniscono nuovamente della parola "popolo" e la usano nella lotta politica come un concetto "di parte", contrapponendola ai ricchi, ai capitalisti, alle élites. I partiti popolari, le Case del popolo, le università popolari, gli Arditi del popolo, i treni popolari, le repubbliche popolari: usi linguistici che nei contesti politici più svariati (cattolici, socialcomunisti, fascisti) testimoniano della permanente valenza polemica, e quindi tutt´altro che pacificata e universale, della parola "popolo". Lungo questa linea si può giungere - in determinati contesti, anche attuali - al populismo che contrappone il popolo ai politici di partito, alle élites, ai sapienti; la logica è sempre la stessa: alla parte che si è voluta proclamare Tutto si obietta che è in verità solo una parte, e le si contrappone una parte che pretende di essere veramente il Tutto. Al "popolo" sembra spettare insomma un destino di conflitto, più che di equilibrio e di armonia, il destino di esprimere più la divisione che l´unione.